Della Violenza: “Diaz – Don’t clean up this blood”

Maggio 21, 2012 § 7 commenti

Recensione hegeliana in tre atti

Il cavallo di Troia

Diaz- Don’t clean up this blood, è uno dei film più discussi del momento. È perciò inutile ricordare l’importanza che una pellicola del genere riveste nel panorama culturale italiano, a livello di memoria storica. Il regista, Vicari, ha senza dubbio prodotto un’ottima pellicola, esplorando sapientemente il confine fra testimonianza storica e finzione. Ci ha regalato un film al contempo fruibile e struggente, che è insieme una rievocazione fedele e un pugno dritto allo stomaco dello spettatore – per non dimenticare. Le scene di violenza sono girate come nel migliore dei film d’azione, e dalle sale siamo usciti commossi, afflitti. Vicari ha accontentato tutti: Diaz offre suspense e denuncia politica, love stories e azione, ragazzine in deshabillé e crani fracassati, e catapulta lo spettatore indietro fino ai fatti del G8, rievocando le ragioni degli indignati. Un cocktail perfetto.
Fin dal principio del film, però, dalla mia poltroncina in fintapelle ho subodorato che qualcosa non andava. È cominciato tutto con un fastidio impercettibile, un prurito fastidioso e indistinto. Cos’era? Forse che, banalmente, mi indispettiva la spettacolarizzazione dei fatti del G8? No, non era quello. Certo, in Diaz la narrazione è affrontata utilizzando gli stessi canoni cinematografici del cinema di mercato capitalista, ovvero quel cinema che promuove da sempre l’ideologia borghese contro cui stava combattendo chi si era rifugiato alla Diaz. Ma la causa del mio attacco pruriginoso non era la patina di plastica e di inautenticità simulacrale che avvolgeva le immagini.
Riflettendoci durante la proiezione ho ritenuto, al contrario, di considerare tale specificità un pregio. Si tratta, verosimilmente, di un mezzo astuto per raggiungere il grande pubblico, e diffondere su larga scala la memoria storica dei fatti del G8. La copertina patinata e la sfavillanza hollywoodiana assurgono in Diaz al ruolo del moderno cavallo di Troia, sono uno strumento resistenza contro l’esecrabile silenzio dei media durante questi anni.
Se una valutazione del genere può sembrare inusitata, è per via di una fallacia tipica della critica cinematografica, che portiamo tutti nel cuore: l’idea è che il cinema di denuncia non può criticare la società senza criticare i linguaggi con cui la società stessa si descrive e si promuove. Secondo gli intellettuali e i grandi esperti di cinema, non si può spettacolarizzare la critica della società dello spettacolo, perché si cadrebbe in contraddizione, perché sarebbe ipocrita. Ma i risultati di questo approccio sono tristemente noti: decenni e decenni di cinema di denuncia inintelligibile al grande pubblico. Oggi qualcosa è cambiato. Ma se è vero che siamo al tramonto dell’epoca del cripticismo e dell’avanguardismo gratuito, allora è proprio Diaz il film paradigmatico che leva il sipario della nuova era, l’era di un nuovo cinema italiano, all’insegna di uno stile narrativo più democratico – più vicino al telefilm che al cinema d’essai: un cinema costellato di ossa rotte, fichette in tiro e ralenti commoventi.

La sindrome di Pontecorvo

   

Dopo un primo tentativo di riscattare Diaz, ho prestamente cambiato idea. Non ci si può autoingannare per più di dieci minuti, guardando un film del genere – il prurito resta, insistente. Certo, bisogna ammettere (contro la vulgata) che sulla spettacolarizzazione cinematografica della violenza si può chiudere un occhio. È vero, la sequenza dei pestaggi all’interno della Diaz e quella delle violenze nella caserma di Bolzaneto sono crude, pornografiche. Ma un po’ di sangue e una decina di minuti di manganellate col “tonfo” erano inevitabili: è la Storia.
Ciò che non convince in Diaz, piuttosto, sono gli espedienti retorici, la violenza espressiva e il patetismo con cui si incorniciano gli eventi del G8 in una prospettiva sommaria e monolitica. È vero, talvolta si apre uno spiraglio per il confronto dialettico: lo sguardo si sposta dietro gli scudi degli sbirri, o si insinua nelle caserme, per scoprire i timori dei responsabili del blitz: “Fate come volete”, dice uno di loro, “Ma io i miei non li tengo più”. Un tipo responsabile, ci diciamo, e lungimirante: non erano tutti cattivi, allora. Tuttavia, salvo questi brevi barlumi di polifonia Diaz è un film dove suona un solo strumento: un lungo a solo di indignata compassione – Vicari, in breve, se la suona e se la canta.
È per questo che uscito dalla sala ho ripensato al noto e citassimo articolo di Jacques Rivette, uscito sulle pagine dei Cahiers du Cinéma sotto il titolo “De l’abjection”. Chi lo conosce ricorderà che vi si denunciava l’eccesso di forza espressiva di una carrellata del film Kapò di Gillo Pontecorvo: l’inquadratura incriminata dipinge il suicidio di una prigioniera di un campo di concentramento nazista. L’articolo recitava più o meno così:

Vedete dunque in Kapò il piano dove Riva si suicida, gettandosi contro il filo elettrificato: l’uomo che decide, in quel momento, di fare un carrello avanti per inquadrare il cadavere dal basso verso l’alto, avendo cura di inserire la mano rimasta in alto esattamente in un angolo dell’inquadratura, quest’uomo non ha diritto che al più profondo disprezzo.

Un simile e legittimo disprezzo lo si prova, in Diaz, in più occasioni: nel vedere uscire dalla scuola i corpi macellati, fasciati dentro le barelle e cullati dalle note commoventi del violino di Balanescu. Lo si prova sul primo piano della bellissima Alma che, reduce dei pestaggi della caserma, si presenta sdentata, denutrita, umiliata, col culo sporco di merda, ma nonostante tutto truccatissima e stupenda, i capelli che ondeggiano nel vento accompagnati dal suono languido del pianoforte.
Simili inquadrature, oltre a sfiorare il patetismo più aberrante, suscitano a tutti gli effetti “il più profondo disprezzo” di cui parla Rivette.

Il gioco della bottiglia

Sia lode al dubbio!
Vi consiglio, salutate 
serenamente e con rispetto
chi 
come moneta infida pesa la vostra parola!
Vorrei che foste accorti,
che non deste 
con troppa fiducia la vostra parola.

Ho concluso sull’idioletto di Vicari, sul suo stile personale. Resta da valutare il messaggio del film, e ho già rammentato l’indiscussa importanza di una ricostruzione tanto rigorosa dei fatti di Genova. Vorrei perciò spendere le mie parole conclusive per segnalare alcune interpretazioni controverse a cui la pellicola ci invita.
Tutti ricorderanno che la sequenza di apertura registra il volo di una bottiglia che va a frantumarsi su un marciapiede. È la bottiglia lanciata durante un assalto che alcuni ragazzi della Diaz improvvisano contro una jeep della polizia. La bottiglia è la chiave di volta del film: lo apre e lo chiude. Qual è il suo perché?
La bottiglia serve a ricordare allo spettatore come sia stata una bravata (fatale) a innescare gli episodi di violenza del 21 luglio. Ma non si tratta di asserire che tutto è avvenuto per una marachella presa troppo sul serio. Non è l’idea di Vicari, il quale, per non lasciare spazio a derive interpretative, ha inserito nel finale una scena significativa che intendo ricordare.

Etienne (di professione incendiario di cassonetti e intrepido black block) e la sua amica Cecile entrano nella scuola devastata dal blitz e si rendono conto di cos’è accaduto. Mentre la biondissima Cecile, sconvolta, appende il cartello di cui il sottotitolo del film (don’t clean up this blood), Etienne ha un’intuizione sconvolgente e davvero singolare, perché si mette a correre a rotta di collo fuori dalla palestra, oltre il portone e il cancello, fino nella strada. Cecile, che è una ragazza ragionevole, lo insegue per interrogarlo. Lui risponde lapidario: “È noi che cercavano”. Estrae dalla tasca la maschera antigas che gli ha regalato il suo compagno di scorribande e la getta teatralmente a terra, per volgersi e camminare verso un orizzonte luminoso. È redento: ha finalmente compreso che la violenza è sbagliata, perché porta solo alla violenza.

La morale di Diaz è semplice: sui black block grava la responsabilità della repressione e della violenza condotte dalla polizia italiana contro gli ospiti della scuola – repressione che, se da un lato è cieca e ingiustificata, dall’altro ha la sua origine nei cassonetti incendiati, nelle bottiglie lanciate contro le camionette, nel comportamento irresponsabile e sconsiderato dei “ragazzi violenti”.
In Diaz, come in ogni film americano, ci sono i buoni e i cattivi. Alcuni cattivi (i poliziotti) sono certo più cattivi di altri (i black block). Ma la denuncia di Diaz non si estende solo ai primi, e lascia intendere con faciloneria che i ragazzi che hanno incendiato Genova siano la causa prima di quanto accaduto alla Diaz. Certamente vi è una parte di verità – ma la realtà non è così semplice come nei film.
In definitiva, il film di Vicari, più che un film sulla violenza, o un film contro la violenza, o un film con della violenza, va a ragione classificato come un film violento: violento nell’impugnare il bisturi con cui divide il bene dal male, e violento negli espedienti retorici (le carrellate à la Pontecorvo, i ralenti commoventi, le note soffuse della colonna sonora) che impongono un’unica interpretazione, un’unica prospettiva di fruizione per lo spettatore. Diaz, come ogni buon film americano, dipinge tutto o di bianco o di nero. Si tratta di un film pericoloso: per il suo messaggio e per il suo stile, è un arma a doppio taglio, una bomba a orologeria. Bisogna auspicarsi che non faccia scuola, e che questo cinema di denuncia patinato, superficiale e inflessibile non si imponga su un “Altro” cinema, quello che lascia ancora respiro alle domande destinate a rimanere aperte. Perché stordire lo spettatore con sangue, biondine nude e melodie ipnotiche non è fare cinema di denuncia – al massimo, è fare cinema di regime, o cinema hollywoodiano di serie B.

Andrea Bacino

La Torre Galfa (Macao) è solo un tassello

Maggio 15, 2012 § Lascia un commento

(ContaminareTorino, Versione Zero) Image

Alle sei e mezza di mattina la polizia e i carabinieri hanno sgomberato la Torre Galfa, occupata a inizio maggio dal progetto Macao. In un’alba di maggio, le forze dell’ordine hanno posto fine all’esperienza dei lavoratori dell’arte e della conoscenza di Milano.

Lo sgombero: un evento, un frammento fra tanti altri. La vicenda milanese è un tassello di un mosaico in movimento. Una scheggia saltata via da una rottura che si dimostra sempre più profonda nel tessuto politico e culturale italiano.

Lo sgombero è anche un pretesto per la nostra scrittura; un pretesto per ripescare altri eventi, altri fenomeni esplosi nell’ultimo anno. Qui ci limitiamo ad esporli e a collegarli in una rete – flessibile, plasmabile – di rimandi.

Proponiamo un percorso fra i fatti e fra gli eventi. Ogni fatto è un appiglio su cui poggiare le mani, i piedi. Quello che è più interessante, secondo noi, non sono i fatti, ma gli spazi bianchi, le connessioni possibili. Sprazzi di politica, a Torino, potrebbero generarsi a partire dalle domande che si nascondono fra un vuoto e l’altro.

13 giugno 2011: i quattro quesiti del referendum – fra cui quello relativo alla gestione e all’affidamento dei servizi pubblici locali – raggiungono il quorum e decretano una vittoria schiacciante dei Sì.

14 giugno 2011: il Teatro Valle – storico ente pubblico dismesso di Roma – è occupato dai lavoratori della cultura e dello spettacolo. «Gli occupanti del Teatro Valle di Roma sono le Lavoratrici e i Lavoratori dello Spettacolo, cinema/teatro/danza, artisti/tecnici/operatori, stabili, precari e intermittenti che da tempo portano avanti lotte in modo diretto ed autorganizzato contro i ripetuti attacchi al mondo dell’arte e del sapere, contro i tagli alla cultura.»

Quali attacchi? Questo, per esempio.

Il modello ricorda anche i S.a.l.e Docks di Venezia. E il Nuovo Cinema Palazzo di Roma.

16 dicembre 2011: il Teatro Coppola di Catania è occupato dalle lavoratrici e dai lavoratori della cultura. «Queste azioni di disobbedienza e riappropriazione non sono il risultato della lotta di una categoria o la misura di una semplice vertenza sindacale. Nei luoghi di cultura liberati l’autogestione si fa resistenza e riscatto; pratica collettiva di rinascita sociale; sperimentazione di forme di gestione e ridistribuzione del sapere, della creatività, del lavoro. Da ognuno secondo le sue possibilità a ognuno secondo i suoi bisogni.»

2 marzo 2012: L’Ex-Asilo Filangieri, in pieno centro storico di Napoli, è occupato dal collettivo La Balena. «Diventiamo La Balena, un mammifero gigantesco capace di raccogliere in se le differenze che ci distinguono, poiché è nostra intenzione agire velocemente e con grande agilità verso la trasformazione dei criteri produttivi, delle garanzie dei lavoratori, della possibilità di aprire spazi autonomi in cui far crescere il lavoro creativo su cui è fondata ogni politica culturale. Siamo pacifici ma se attaccati ci difenderemo con tutte le nostre forze dallo svilimento del nostro lavoro e dal ricatto burocratico di funzionari della politica.»

Con relative riflessioni nate a Torino, per contaminarla.

Fine aprile 2012: l’appello del Quintostato è lanciato in rete. Chi è il quintostato? «Siamo milioni. Donne e uomini. Giovani e meno giovani. Italiani e migranti. Professionisti stagisti e apprendisti. Studenti e artisti, precari e lavoratori autonomi. Spesso siamo tutto questo e anche molto altro. A Roma si dice che siamo 300 mila. Viviamo a Milano, a Torino, a Napoli e ovunque ci sia l’economia dell’immateriale e della fornitura dei servizi.»

Gli unici soggetti torinesi a firmare l’appello sono i Knowledge Workers.

28 aprile: a Firenze si tiene la prima assemblea del Soggetto Politico Nuovo e nasce Alba. Fra i firmatari che hanno lanciato il manifesto del soggetto compaiono Mattei, Gallino, Revelli e Ginsborg.

5 maggio 2012: si tiene a Roma l’assemblea dei lavoratori indipendenti del Quintostato.

5 maggio 2012: occupazione della Torre Galfa a Milano, edificio dismesso di proprietà di Ligresti. L’occupazione e promossa da Macao.

15 maggio 2012: le forze dell’ordine sgomberano la Torre Galfa. Un’assemblea di cittadini e di lavoratori della conoscenza si tiene alle pendici del grattacielo. Ugo Mattei firma la diffida alla Prefettura, alla Questura e al Comune di Milano. E altre resistenze baluginano.

Sono solo alcune increspature dell’ultimo anno. Le domande da porre sono infinite. Proponiamo solo due ordini di problemi:

Perché Torino è del tutto marginale a questi percorsi? A che punto è il dibattito sullo stato della cultura e sui beni comuni nella città piemontese?

Quali sono i legami fra occupazioni, Quintostato e Alba? È un caso che Mattei sia fra i promotori del nuovo soggetto politico e al tempo stesso sia autore della diffida del 5 maggio e sia responsabile dei regolamenti giuridici del Teatro Valle?

Abbiamo proposto alcuni puntini. Le linee vanno collegate.

Affinché compaia la silhouette della Mole.

Sfumature di rosso acceso

Una giornata di ordinario confronto

Maggio 11, 2012 § 4 commenti

“L’accredito stampato insieme a me,

il manganello scagliato sopra di me”

 (Cit.)

Image

Giovedì 10 maggio, Lingotto.

Un preteso movimento di giovani né di destra né di sinistra. Ritornello tipico di questi tempi che non viene difficile immaginare dove voglia andare a parare. Organizza un incontro con due ministri della Repubblica (c’è da capire cosa abbiano di eccezionale questi giovani per essere riusciti a portare ben due ministri a una loro iniziativa): il Ministro dell’Istruzione Profumo e la Ministra del Lavoro e delle Politiche sociali Fornero, anche se quest’ultima alla fine diserterà l’incontro.

Il preteso movimento nei giorni precedenti all’incontro fa sapere che per accedere all’iniziativa è necessario avere un accredito, facilmente ottenibile dal loro stesso sito. Studenti medi, universitari, precari, lavoratori e cittadini eseguono la procedura ottenendo l’accredito. Alcuni di loro, appartenenti a Studenti Indipendenti e Last – Laboratorio Studentesco, ricevono la disdetta dell’accredito in quanto “violenti” e vengono informati del fatto che i loro nomi sono “in mano alla Questura di Torino”.

Alla richiesta di informazione, la segreteria di MPN risponde:

Il suo accredito è sospeso per motivi di sicurezza. Non sarà quindi consentito il suo ingresso in sala al convegno di domani. Chiediamo urgente invio di copia di documento di identità per valutare, con la Polizia di Stato, la sua eventuale riammissione in aula.

La Segreteria”

Ad attenderli all’ingresso dell’incontro più di dieci camionette delle forze dell’ordine e una cinquantina di poliziotti e carabinieri in tenuta antisommossa con l’immancabile supervisione della Digos.

Gli studenti, documenti alla mano, tentano di far valere il loro accredito stampato ricevendo come risposta: non siete in lista. Perché gli accrediti non erano validi? Su quale base alcuni sono meno cittadini degli altri? “Se fossi stato una persona normale ti avremmo fatto entrare” viene detto ai ragazzi chiedevano di prendere parte all’incontro.

Si tenta ancora di accedere passando dall’ingresso principale, ma si scopre che tutti gli accrediti sono stati cancellati. Un giornalista, più degli altri, Andrea Velardi, porta avanti la causa dei presidianti. Il capo della Digos, dott. Ferrara, mette le mani addosso al giornalista che tenta di proteggere gli studenti. Inizia il tiramolla: le persone “normali” vengono fatte passare dalle entrate laterali, le persone a cui l’accesso è interdetto tentano di entrare, scavalcando la barricata. La polizia con gli scudi allontana il presidio. Non si riesce a superare la barricata. Si tenta allora di passare da un’entrata sul retro dell’edificio raggiunta in corteo. Prima tentano di spintonare fuori studenti, tra cui molti liceali, con “cariche di alleggerimento”, poi la polizia chiude i ragazzi, con un’assurda manovra a tenaglia, rischiando di spingerne alcuni giù dalle scale del parcheggio. I poliziotti si piazzano anche nella passerella sopraelevata, non si sa perché, caricano per un centinaio di metri, con la Digos che non riesce a contenere i celerini in preda a una rabbia sconsiderata. Il presidio viene spinto fuori; gli opliti serrano i ranghi. Nicola Malanga, Presidente del Senato Studenti, viene ferito da una manganellata sulla testa; portato fuori, quasi sviene. Un’altra ragazza, Florentina, cade a terra, durante la corsa per sfuggire alla carica. Uno dei poliziotti inciampa su un cestino (sarà refertato come ferito dai pericolosi sovversivi?). Nel giro di dieci minuti un’ambulanza soccorre lo studente ferito e il presidio si scioglie

.Image

I fatti di oggi pomeriggio sono la prova che il tanto sbandierato dialogo, vanto del governo “tecnico”, non è che una formula vuota per legittimare provvedimenti che si vorrebbero oggettivamente necessari, ma che hanno un chiaro indirizzo ideologico alle spalle. L’ideologia, che questa crisi ha provocato e con la quali si pretende di risolverla, è quella del mercato, delle liberalizzazioni, delle privatizzazioni.

Un governo che non è sostenuto da alcuna maggioranza elettoralmente legittimata, né dal consenso popolare, non può che portare avanti la propria linea con la forza. Una forza che è schierata ad impedire il reale confronto tra opinioni differenti, perpetrando la retorica del “buon governo” che dialoga con i giovani e con le parti sociali. Un aiuto arriva dalle tante testate giornalistiche servili che, ignorando i concetti di cittadinanza e libera espressione, lasciano intendere, con frasi sibilline, che a contestare sono solo i professionisti della protesta, gente che non ha di meglio da fare che perdere le proprie giornate a rincorrere ministri.

Ci stupisce che avere vent’anni per alcuni significhi accettare acriticamente le manovre di un governo o farsi strumentalizzare per fini propagandistici.

Ci stupisce che avere vent’anni per alcuni significhi accogliere il mantra del “sacrificio necessario” e non essere più in grado di immaginare un futuro diverso e migliore, credendo che questo sia il migliore dei mondi possibili.

Ci stupisce che avere vent’anni per alcuni significhi aver introiettato il modello elitario, gerarchico, clerico-fascista, un’ottica puramente individualistica (citiamo l’articolo di Repubblica: “Il messaggio del ministro ai ragazzi è: sfruttate tutte le opportunità che ci sono”), l’indifferenza verso la giustizia sociale.

La nostra è un’altra idea di democrazia che non si fonda sull’esclusione di chi ha opinioni differenti, che non mette alla porta nessuno, che crede nella dialettica, pur aspra e dura, e non in un dialogo finto e posticcio.

Gli organizzatori sostengono che la politica, quella vera, si faccia solo nei luoghi istituzionali e non nelle piazze. Noi crediamo che la politica debba essere prerogativa di tutti i cittadini, perché una politica autistica, chiusa in sé stessa e distante dai reali bisogni della società non può portare nulla.

ESCC (esperimento scrittura collettiva consolidata)

Aggiungiamo alcuni link a foto e video della giornata:

http://www.youtube.com/watch?v=q4karfKRMTs

http://www.youtube.com/watch?v=c1eaIxAYZV0&feature=watch_response

http://www.flickr.com/photos/mirko_isaia/sets/72157629669676462/with/7172631632/

https://www.facebook.com/media/set/?set=a.383409388369415.86053.100001010709645&type=3

http://www.infoaut.org/index.php/blog/saperi/item/4697-profumo-avere-20-anni-non-vuol-dire-pagare-la-vostra-crisi


									

Il piccolo Aliefer: un crudele esperimento mentale sull’etica dell’alief

Maggio 8, 2012 § 5 commenti

Io non posso ascoltare troppo Wagner, lo sai;
già sento l’impulso di occupare la Polonia.

Woody Allen

Nella battuta in esergo, il famoso regista, attore e umorista newyorchese Woody Allen ammette di sentire un impulso sfrenato ad invadere la Polonia dopo aver ascoltato la musica di Wagner. Immaginiamo per un attimo che tale situazione non sia stata creata ad hoc per suscitare l’ilarità del pubblico e teniamo conto, invece, del fatto che ci parla, seppur iperbolicamente, di qualcosa che è molto vicino alla nostra esperienza quotidiana – cioè del fatto che, talora, gli stimoli sensoriali ci suggestionano ad agire in un modo che va contro a quanto invece prescriverebbero le nostre più consolidate credenze.
Il buon Woody, infatti, ebreo per nascita e marxista – di tendenza grouchana – per vocazione, potrebbe mai, volendo essere coerente nell’agire con la sua visione cosciente della realtà, desiderare di compiere un misfatto dal sapore così decisamente nazional-socialista come invadere la povera Polonia? Per giustificare il fatto che egli senta anche solo un impulso a far ciò, dobbiamo ammettere che sia in un qualche stato mentale attivato, come dice lui stesso, dalla musica di Wagner, la quale, attraverso alcune associazioni con contenuti psichici affettivi o rappresentazionali, lo dispone a mettere in atto un certo tipo di patterns comportamentali – cioè, in questo caso, imbracciare un fucile e marciare su Varsavia.
Tamar Szabó Gendler, in un suo interessante articolo (Alief and Belief, in Journal of Philosophy, 2008), ci parla proprio di uno stato mentale che presenta le suddette caratteristiche e che decide di chiamare alief.
Tale stato mentale sarebbe precedente sia all’immaginazione che alla credenza e attiverebbe direttamente standard di risposta comportamentale senza tirare necessariamente in ballo i desideri veri o presunti del soggetto. Questa nozione gioca un ruolo importante nello spiegare il comportamento di una persona soprattutto in quelle situazioni in cui esso è in disaccordo con le sue  credenze, nonostante: a) non stia fingendo (in quanto non c’è una scelta deliberata e controllata); b) non stia auto-ingannandosi (infatti non c’è riluttanza nell’esplicitare la sua approvazione nei confronti della credenza contraria al suo comportamento); c) non stia dubitando (perché non si tratta di casi in cui non si tiene conto di un risultato con minore probabilità ma non escluso); d) non ci sia temporanea dimenticanza (tant’è che la credenza è conscia e presente, altrimenti verrebbe meno la discordanza).
Nell’ultima sezione del suo articolo, Gendler cerca di dimostrare come la nozione di alief  giochi un ruolo sorprendentemente importante anche in ambito etico.
Secondo il suo punto di vista infatti il giudizio morale su di un caso particolare (un azione, un evento eticamente ambiguo) può essere guidato tanto dalla credenza quanto dall’alief: se il caso ci venisse presentato in termini puramente descrittivi e astratti probabilmente avrebbe la meglio la nostra facoltà riflessiva e decideremmo come comportarci in base alle nostre credenze; viceversa, se il caso ci venisse presentato sotto forma di esempio o di storia esemplificatrice, l’unione dei meccanismi cognitivi con la vivida immaginazione ci metterebbe nella condizione di rispondere in maniera automatica alla situazione in base ad alcune associazioni di contenuti rappresentazionali, emozionali e comportamentali stratificatesi tramite l’esperienza nella nostra mente.
I nostri modi di agire, dunque, sarebbero più spesso il risultato della persuasione e dell’abitudine che non della riflessione: così viene recuperato uno dei concetti cardine dell’etica aristotelica, cioè l’abito.
Ora, partendo da questa base, vorrei provare a proporre un breve esperimento mentale che mira a  mettere in luce le problematiche e gli aspetti inquietanti di una filosofia etica di questo tipo.
Immaginiamo di essere degli scienziati, più precisamente degli psicologi dell’età dello sviluppo.
Immaginiamo di essere piuttosto crudeli. Anzi, molto crudeli.
Immaginiamo che una coppia di genitori altrettanto crudele ci affidi un bambino di pochi mesi in piena salute dandoci il permesso di farne quel che vogliamo.
Ora, poniamo che il nostro intento sia proprio quello di capire quale sia il peso delle abitudini e la loro influenza sul comportamento umano. La nostra tesi è che, a prescindere dalle credenze di una persona, sia possibile influire sulle sue scelte agendo sulle associazioni mentali che sono sedimentate nella sua mente.
Come dimostrare ciò? Semplice: prendiamo la nostra cavia, che chiameremo Il piccolo Aliefer, e cerchiamo di instillare nel suo giovane cerebro – ancora quasi privo di esperienza del mondo – alcune associazioni che lo portino a compiere necessariamente, dati certi stimoli, alcuni precisi gesti.
Per raggiungere il nostro scopo sottoponiamolo a continue, reiterate esperienze.
Per esempio, potremmo inculcargli una catena di associazioni che lo porti, ogni volta che sente battere le mani, ad eseguire un ordine di questo tipo: chiudi la mano a pugno, alza il braccio, tendilo di fronte a te, distendi e ripiega l’indice con forza per sei volte.
Per il resto, diamo al Piccolo Aliefer un’istruzione media e monitoriamo l’ambiente in cui cresce, senza però privarlo di nulla in particolare, anzi, incoraggiando in lui lo sviluppo di una moralità sana e la dedizione a passioni positive.
Il giorno del suo diciottesimo compleanno organizziamo una grandissima festa con tutti i suoi compagni di scuola. Al momento della consegna dei regali i suoi amici si dispongono a semicerchio e, uno per volta, gli portano il loro presente, aspettando di fronte a lui che abbia finito di scartarlo. Ogni nuovo dono viene salutato da un sonoro applauso, a cui il Piccolo Aliefer risponde con il suo caratteristico gesto, frutto della nostra crudele ricerca. Tutti sanno del suo stravagante tic, ci sono abituati, e tutto sommato gli vogliono bene anche per quello.
L’ultima a consegnare il regalo è la bella Sophie, una ragazza di cui il Piccolo Aliefer è perdutamente innamorato.
Arrossendo e abbassando gli occhi, la bella Sophie, consegna il suo pacchetto al nostro che, arrossendo e abbassando gli occhi, lo scarta. La bella Sophie non poteva saperlo, ma noi, nella nostra crudeltà, abbiamo sostituito il suo (orribile) gatto di ceramica con una Desert Eagle con sei colpi nel caricatore. Gli invitati, tutti annoiati a morte dal rituale della consegna dei regali, non si accorgono della sostituzione e applaudono meccanicamente.
Il Piccolo Aliefer chiude la mano a pugno attorno al calcio della pistola, alza il braccio, lo tiene teso di fronte a sè e…
Cosa accadrà ora?
Il Piccolo Aliefer non riuscirà a mettere un freno al suo automatismo e sparerà alla bella Sophie?
Le sue emozioni consce, le sue idee circa il valore della vita umana e il suo animo sensibile prevarranno?
Via al televoto.
Il senso di questa storia un po’ grottesca, per la verità, non sta tanto nella risposta a tali domande, quanto nelle problematiche messe in luce da un utilizzo radicale della teoria dell’alief.
Cerchiamo di esporre brevemente le più rilevanti senza la pretesa di trovarne la soluzione in poche righe.
a) L’esperimento mentale appena presentato è evidentemente esagerato e incorre in una serie di  obiezioni. Tuttavia la sua utilità sta proprio nel fatto che ci rende in grado di riflettere attentamente sui limiti dell’alief e sui suoi “conflitti di dominio” con la credenza. Gendler insiste più volte sul fatto che l’attivazione di uno stato mentale non implichi necessariamente l’attuazione del contenuto comportamentale ad esso connesso, ma mette solo il soggetto nella condizione di essere maggiormente disposto ad agire in una certa maniera; tuttavia non è chiaro in base a cosa si agisca, talvolta seguendo un principio razionale, talaltra uno irrazionale. Si potrebbe sostenere che dipenda dal livello di attenzione prestato dal soggetto alla situazione, ma in un passaggio precedente del saggio si ipotizza che persino il tipo e la quantità dell’attenzione investita nel contesto potrebbero essere determinati da una forma di alief.
b) Potrebbe sorgere il dubbio che la credenza non sia altro che una forma di alief consapevole a cui viene dato un assenso. Aristotele, come detto nell’articolo di Gendler, sostiene che per vivere bene dobbiamo lavorare per portare le nostre abitudini ad essere in accordo con le nostre credenze riflessive. Ma se le nostre abitudini sono uno stadio più primitivo delle nostre credenze, potrebbe darsi che il “lavoro” di cui parla lo Stagirita coincida invece con il cercare/aderire a/costruire credenze capaci di non entrare in conflitto con quelle abitudini che sono in noi più radicate e, anzi, che siano capaci di donar loro un’apparente coerenza.
c) È lecito domandarsi quanto potere abbia la persuasione e quanto sia facile manipolare i comportamenti altrui. Se le persone fossero davvero tanti Piccoli Aliefer si aprirebbe la possibilità di uno scenario distopico e inquietante. Sicuramente sarebbe più facile comprendere l’efficienza e l’impatto della propaganda, della pubblicità e dei media e spiegare quindi fenomeni come la sottomissione cieca all’autorità, alcuni esiti compulsivi del consumismo, certe forme di razzismo. Tuttavia credo che quasi nessuno sia disposto a rinunciare a credere nella propria libertà – quanto meno di pensiero – per sostenere una teoria di questo tipo.
d) Poniamo il caso che il nostro povero Piccolo Aliefer sia irresistibilmente portato a muovere il suo dito nel gesto fatale. Potremmo davvero considerarlo colpevole dell’assassinio della bella Sophie? Come si fa a sapere se un’azione è stata il risultato di un processo automatico o meno? E se il Piccolo Aliefer non fosse meno crudele del suo precettore e avesse colto l’occasione per compiere un delitto passionale e ammazzare così la bella Sophie che, aveva appena scoperto, non lo amava affatto? Come potremmo mai saperlo? Una persona è responsabile dei propri comportamenti quando essi sono causati da un’alief? Un’etica di questo tipo può convivere con le idee di libero arbitrio, responsabilità, giustizia?
Non per crudeltà, ma per evitare di dilungarmi troppo – e forse perchè sarebbe un po’ pretenzioso -, non intendo dare un finale a questo “thriller filosofico”, né rispondere alle molteplici domande che ne scaturiscono.
Sophie rimarrà – per il resto della sua bizzarra esistenza fittizia – sospesa in quell’istante, con la canna della Desert Eagle e gli occhi indecifrabili del Piccolo Aliefer puntati contro il suo seno.
Il titolo è un gioco di parole che si rifà al celebre – e questa volta, purtroppo, reale – esperimento condotto sul cosidetto Piccolo Albert dallo psicologo comportamentista J. Watson, il quale un giorno disse: “Datemi una dozzina di bambini normali, ben fatti, e un ambiente opportuno per allevarli e vi garantisco di prenderne qualcuno a caso e di farlo diventare qualsiasi tipo di specialista che io volessi selezionare: dottore, avvocato, artista, commerciante e perfino accattone e ladro, indipendentemente dalle sue attitudini, simpatie, tendenze, capacità, vocazioni”. 

S.P. Lovelast

Caccia al referendum, estinzione partecipativa

Maggio 7, 2012 § 2 commenti

(Queste foto non sfruttano animali da laboratorio)

E’ di questi giorni la notizia dell’abrogazione della legge che regolamenta la caccia in Piemonte. Viene così impedito lo svolgimento del referendum che si sarebbe dovuto tenere il prossimo tre giugno.
I quesiti referendari sarebbero dovuti essere quattro.
Il primo punto avrebbe limitato le specie cacciabili da ventinove a quattro.
Tra le venticinque specie non più cacciabili alcune erano state inserite perchè non sono di interesse alimentare, ma vengono uccise per puro divertimento (ad esempio il tordo bottaccio). Molte delle altre sono presenti in numero ridotto sul suolo piemontese, mettendo così a rischio la continuità della specie.
I restanti sono animali presenti in numero consistente e talvolta dannosi il cui contenimento viene demandato ai piani di abbattimento (come la cornacchia grigia).
Il secondo quesito rigurdava il divieto di caccia la domenica. Ogni anno si contano circa cinquanta morti e centinaia di feriti a causa di incidenti di caccia, passeggiare o fare escursioni in montagna la domenica diventa davvero troppo pericoloso duranta la stagione venatoria.
Il terzo punto avrebbe escluso la caccia su manto nevoso, condizione che vede gli animali già debilitati dal lungo periodo invernale.
Il quarto quesito avrebbe eliminato i privilegi delle aziende venatorie, aree gestite da privati in cui è possibile cacciare senza limite di carniere, dove vengono  introdotti capi appositamente per essere cacciati, senza fare distinzione tra specie autoctone e alloctone (può capitare che alcuni individui scappino dai recinti, andando così ad alterare gli equilibri naturali).
Ora nella nostra regione entrerà automaticamente in vigore la legge nazionale in materia di caccia, molto più permissiva proprio perchè delega alle singole regioni la gestione della fauna. Ad esempio scompariranno tutte le sanzioni, come quelle sul trasporto di armi cariche nei centri abitati o il cacciare senza licenza, e aumenteranno le specie cacciabili.
Le motivazioni addotte per evitare il referendum sono state ufficialmente di natura economica: un risparmio di 22 milioni di euro in questo momento di crisi non è certo da sottovalutare, ma è stata della giunta regionale la scelta di non accorpare il referendum alle elezioni amministrative che si tengono oggi in molti comuni piemontesi, gesto che avrebbe permesso un notevole risparmio alle casse pubbliche.
Sono venticinque anni che il comitato attende il referendum, le firme erano state raccolte nel lontano 1987. In tanti anni non si è mai trovato il modo di accorpare il referendum alle varie elezioni che ci sono state e oggi è stato negato ancora una volta questo strumento di democrazia diretta.
In Italia è previsto che il corpo elettorale possa esprimere il proprio parere su uno specifico argomento di discussione, negare questo diritto proprio alla vigilia del voto (dopo tutto il lavoro e i soldi per la campagna referendaria investiti da parte del comitato) e abrogare la legge chiamata in causa annullando così la lotta di più di due decenni è un gesto indegno di un paese democratico.
Il comitato sta valutando tutte le strade legali per riprendersi il referendum e anche un pezzetto di democrazia.

Lauris Silvestris

Scintille di (Primo) Maggio

Maggio 4, 2012 § 26 commenti

Quello che qui vi presentiamo non è un articolo, ma è una visione parziale di un anomalo Primo Maggio. Abbiamo deciso di fornire piccole scintille e non un racconto organico, ma uno parziale, composito, rappresentante la schizofrenia della giornata e le sue mille sfaccettature.

 


Prima scintilla

Ore 9,20 i celerini aprono il corteo, iniziano le contestazioni, i manifestanti non sono molti e si avvicinano al cordone che circonda Fassino: un po’ di contatto, qualche urlo.
Quasi subito arrivano le manganellate; i ragazzi si sono rifugiati nella pancia del corteo e sotto i portici, così sono partite le cariche. Il momento peggiore è stato quando hanno chiuso un ragazzo dietro una colonna, sotto i portici: saranno stati in dieci i celerini e non si vedeva nulla di quel che facevano. Hanno preso un ragazzo che era a terra, non prima di avergli schiacciato per bene la faccia sul porfido (scene di ordinaria repressione). Urla pesanti in faccia ai manifestanti che sono intervenuti.
Sembrava davvero che la Digos non riuscisse a tener sotto controllo i celerini, e non era il solito gioco del poliziotto buono e di quello cattivo. Non sono stata l’unica ad avere questa sensazione: anche nei filmati si vede bene che i funzionari cercano di fermare le cariche diverse volte, non sempre riuscendoci.

Seconda scintilla
Poco dopo essere arrivato in piazza Vittorio, decido di andare a fare un po’ di foto ai vari spezzoni del corteo che aveva iniziato a muoversi lungo via Po: è lì che incontro un amico che mi dice “ho saputo che stanno caricando i compagni in testa al corteo!”. Risaliamo velocemente lo spezzone quando sentiamo il fragore di una bomba carta in lontananza. Raggiunta la testa mi trovo davanti un fitto schieramento di poliziotti in tenuta antisommossa e poco oltre un drappello di uomini della DIGOS che trascinano via un ragazzo verso una camionetta. Sono presenti un buon numero di manifestanti del cosiddetto “spezzone sociale” che urlano contro i poliziotti. Mi spiegano che poco prima c’era stata una carica. Passano alcuni minuti e un gruppetto di persone si stacca dal resto dei manifestanti e corre sotto i portici, verso Piazza Castello, in quel momento liberi, come per eludere lo schieramento di polizia. Dopo pochi secondi alcuni poliziotti si staccano dallo schieramento e cominciano a inseguirli fin quando bloccano un ragazzo contro le serrande di un negozio. Corro assieme ai giornalisti presenti verso la scena e vedo questo ragazzo che viene manganellato dai poliziotti e portato via di peso. Cerco di fare delle foto, ma si avvicinano un paio di poliziotti sollevandomi per cercare di allontanarmi e mi urlano di andare via. Indietreggio di qualche passo e vedo i ragazzi fermati che vengono caricati su una camionetta che parte a sirene spiegate (alla fine della giornata saranno 4 i fermati, rilasciati poi nel pomeriggio).
Mi rimetto in mezzo alla strada, vedo che la testa “istituzionale” (sindaci, enti locali etc.) del corteo avanza e si mette nella parte iniziale. Il corteo continua in questa modo fino in piazza Castello, dove finalmente lo schieramento di polizia viene sciolto.

Mi lascia di stucco la scelta dello spezzone anarchico di entrare in piazza San Carlo, la piazza delle istituzioni, del comizio. Ci allontaniamo di neanche una decina di metri: c’è la Pink Samba e, subito dopo, nel nostro percorso a ritroso, c’è tutto lo spezzone del PD. Un folto gruppo di uomini panzuti, con tanto di pettorina rossa col marchio del partito, in doppia fila serrata: è il servizio d’ordine.
In realtà non ci vorrebbe molto ad immaginare quello che sta per succedere, basterebbe un po’ di memoria storica, basterebbe ricordarsi che lo scorso anno i cosiddetti “democratici” hanno distrutto a bastonate il parabrezza del furgone degli anarchici, e non paghi hanno spezzato le chiavi nella camionetta costringendoli a sfilare senza.
La piazza si scalda, tutta Via Roma è un coro di fischi e di insulti per il partito che sostiene il governo dei “tecnici”, il partito che ha votato per l’introduzione del pareggio di bilancio in Costituzione, il partito che al tempo del referendum di Mirafiori era dalla parte di Marchionne. All’entrata in piazza gli anarchici fanno cordone , piovono in testa bandiere, c’è contatto diretto. Il gruppo indietreggia e il furgone fa subito una sgasata in avanti. In quel momento, dentro piazza San Carlo non è baruffa: sono botte vere. Sale al cielo una nuvola di gas: sono gli spray urticanti del servizio d’ordine del PD. Alcuni si allontanano dalla “prima linea” e con le aste cerano di farsi spazio nella mischia e dividere i due schieramenti. Si sentono le grida di una ragazza che urla a squarcia gola “siete peggio degli sbirri, avete i guanti e gli spray, vergogna!”. Mi avvicino al furgone del PD: sono tutti un po’ ammaccati, compreso il furgone, mi giro verso gli anarchici e vedo tutti un po’ provati, ma intenzionati a continuare la loro azione. In quei minuti di “riposo” una signora del PD si avvicina ad uno dei 20 uomini servizio d’ordine e gli dice :“ Il PD deve rimanere in piazza, noi di qui non ci dobbiamo muovere”. C’è nervosismo tra le fila del partito, opinioni discordanti e da parte di qualcuno un certo compiacimento. C’è tensione, ma la gente comune si è aggiunta alla contestazione e compaiono macchine fotografiche. L’atteggiamento cambia, gli spray spariscono e forse anche la stanchezza si fa sentire. La pressione continua, le grida si fanno più aspre, il PD se ne va del tutto.

Quarta scintilla

In via Roma sfila lo spezzone della Federazione della Sinistra, è un revival anni 50 dei bei tempi andati in Unione Sovietica. Le casse della camionetta sparano l’Internazionale cantata dal coro dell’Armata Rossa. Il servizio d’ordine è militare, compatto, ranghi serrati e pugno sinistro in alto. Subito dietro, nelle prime file sotto l’enorme striscione tenuto alto da alcune aste di legno, il compagno Paolo Ferrero, sigaro in bocca e saluto ammiccante sempre pronto. Parte Bandiera Rossa, tutti cantano, via Roma immersa da applausi scroscianti, non riesco a trattenermi, sembra un viaggio nel tempo, o un gioco di ruolo: mi arrampico su di un colonnino, alzo il pugno e inizio a cantare anch’io.

Quinta scintilla

Lo spezzone sociale è bello gonfio. Direi duemila persone alla prima occhiata. C’è chi viene da Askatasuna, c’è chi non ha mai visto un centro sociale nella sua vita. Ci sono pure dei bambini in bici che trottano a fianco ai genitori, qualche passeggino. Parecchi hanno pensato che non valesse la pena finire la manifestazione nella piazza delle istituzioni, con le tre corone del sindacalismo italiano, la cui filosofia “prima-firmo-poi-tratto” sta deludendo non poco. I pallidi scioperi che indicono non sembrano scuotere per nulla il SuperGoverno, e chi non ha voluto concludere il breve corteo in quella piazza forse aveva in testa una partecipazione diversa. Resta comunque che, insieme ai cari vecchi Autonomi, di gente ce n’era tanta e veniva da tradizioni diverse. Probabilmente lo spezzone sociale è riuscito davvero a farsi contenitore per le istanze di quanti precari e precarie, studenti e studentesse, lavoratori e lavoratrici, immigrati ed immigrate vivono tutti i giorni un disagio grave nella nostra città. Ci possono essere, anche qui, poi, narrazioni diverse, tuttavia è certo che il numero di quanti svoltano in via Maria Vittoria per tornare, quindi, tramite via Bertola, a piazza Palazzo di Città è notevole. Recarsi sotto il Comune, con l’idea di una piccola azione No Tav in nome dei compagni ancora in carcere, dopo le retate del 26 gennaio, ha un valore simbolico. Anche e soprattutto se il Sindaco non è in casa. Non è un attacco solo al PD e a Fassino, è un attacco alle politiche di questa giunta, dalla forte posizione Sì Tav, cui vanno aggiunti gli stipendi mancanti per gli operatori sociali, la questione degli Asili Nido (che qualche incrinatura nella maggioranza la sta creando). Il corteo è arrivato sotto il municipio, con in testa un solerte cordone della Polizia a rallentarne la marcia. Dal momento dell’ingresso in piazza la faccenda si è evoluta in modo estremamente veloce: la camionetta si è posizionata (ed evidentemente la Polizia ha permesso di farlo) sotto il balcone del Palazzo di Città, rapidamente alcuni militanti dei centri sociali hanno montato un’impalcatura sul tettuccio e hanno poggiato su di essa una scala. Dopo poco qualche pirata senza benda è salito sul balcone, brandendo nient’altro che le foto di Giorgio e Luca, i militanti No Tav ancora in carcere. Nel mentre, è stato acceso un innocuo e scenografico(!) fumogeno.

Passano pochi millesimi di secondo, forse lo striscione si avvicina alla Polizia, cade il fumogeno o ne viene acceso un altro, cade la scala, non si capisce bene l’ordine degli eventi, ma arriva la carica. Violenta, incazzata. Riesce ad “alleggerire”, cioè ad allontanare i pericolosi facinorosi tra gli 0 e i 12 anni e quelli, ben più temibili, tra i 60 e gli 80. Fortuna che non abbiano fatto la Tenaglia, fortuna che i carabinieri (schierati in fondo alla piazza) non abbiano caricato contemporaneamente: la piazza è un imbuto poco raccomandabile e la gente rimane accalcata sui due lati, scacciata dalla rabbia violenta della Polizia. C’è la Digos al gran completo: prendono qualcuno che è caduto (lo rilasceranno immediatamente) e nel mentre lavorano al servizio fotografico, con tanto di filmino ricordo, dalle finestre del Palazzo. I cineasti della polizia, come anche la Digos in piazza e tutti gli altri uomini in blu, si prendono una valanga di insulti, si sente urlare a gran voce “Vergogna!”. Alcuni poliziotti si fanno refertare: dicono per la caduta della scala o forse per qualcosa lanciato dalla piazza (a onor del vero, qualche bottiglietta è volata), ma ai manifestanti è andata decisamente peggio. Si ritenta l’azione, questa volta forse concordata, infatti ha successo e gli opliti non caricano di nuovo, come invece sembrava dovesse accadere. Anzi retrocedono, sempre ringhiando un po’. I capi hanno qualche problema a tenerli in riga, ma riescono meglio del mattino. Si rimonta l’impalcatura e si riposiziona la scala; si torna a recuperare i compagni ancora sul balcone. Appendono uno striscione “Liberi tutti, liberi subito” e issano- una delle immagini più belle della giornata: la bandiera No Tav ad uno dei pennoni del comune. Il corteo, ora decisamente sguarnito, riparte verso Porta Palazzo. La piazza man mano si svuota; i simboli effimeri dei rivoluzionari vengono rapidamente rimossi dalla sede istituzionale. Il coro “fascista, fascista” bersaglia il povero dipendente a cui è toccato questo compito.

Sai che c’è? È ora di pranzo, abbiamo fame noi, hanno fame i Digos, hanno fame gli sbirri: meglio rientrare.

ESC (esperimento di scrittura collettiva)

http://www.flickr.com/photos/leliel98/sets/72157629947524945/

http://www.youreporter.it/video_ASSALTO_AL_MUNICIPIO_DI_TORINO

http://www.youreporter.it/video_Torino_Cariche_al_corteo_1_Maggio

Cette élection est une farce (parte prima)

Maggio 3, 2012 § 5 commenti

Francia, Caen.

Dalla Francia soffia un forte vento. Ma l’odore che si porta appresso non è certo dei migliori: puzza di merda e di vecchio. Il vento che puzza di merda ha una velocità di 18 nodi, ma in costante crescita, quelli che puzzano di vecchio si attestano poco sotto i 30 nodi.
Mi dispiace irrompere così nelle vostre speranze di cambiamento, ma è il caso che interrompiate il vostro monologo interiore: ”Hollande rappresenta un cambiamento per un’Europa socialista e libera dal giogo Merkel-Sarkozy…”.
No. Non è così. Hollande non rappresenta il cambiamento più di quanto in Italia l’abbia rappresentato la vittoria di Prodi nel 2006 o lo rappresenterebbe un’ eventuale vittoria di Bersani alle prossime elezioni.
Tanto per cominciare la vittoria di Hollande non è per nulla definitiva, il secondo turno potrebbe ancora riservare delle sorprese e il punto e mezzo che divide i due finalisti è ben poca roba. In secondo luogo c’è da dire che nonostante Hollande si sia aggiudicato il primo turno, ancora una volta il popolo francese ha votato a destra e, se si sommano grossolanamente i voti di destra e di sinistra, vediamo che la prima (47%) ha la meglio sulla seconda (44%).
Ma il dato più inquietante che emerge da questo primo turno è senza dubbio il trionfo del “Front National” della Le Pen, non tanto per l’ottimo risultato ottenuto (record assoluto del partito, meglio anche del 2002 quando Le Pen padre riuscì ad approdare al secondo turno con il 16%), ma piuttosto per il peso che ha avuto nel determinare i toni e gli argomenti della prima fase di questa campagna elettorale e per l’atteggiamento accondiscendente dei media verso l’elettorato fascista considerato come “La France qui souffre” .
E il gioco non è ancora finito, perché se la crescente popolarità del FN ha spinto Hollande a sbraitare per il voto utile (aiutandolo non poco a imporsi) e Sarkò a spostare i toni della campagna elettorale sempre più a destra su temi quali la sicurezza e l’immigrazione, l’ influenza dell’estrema destra sulla politica francese non è che cominciata.
La Le Pen infatti è l’unica che ha la certezza di poter sorridere la sera del 6 maggio: nel caso in cui a spuntarla sia Sarkò i fasci terranno per le palle il suo governo, nel caso in cui sia Hollande a spuntarla, la bionda urlatrice avrà l’occasione di riorganizzare la destra francese sfruttando la crisi che si verificherà all’interno dell’UMP e contando su un incremento significativo delle preferenze nelle elezioni legislative previste per metà giugno.
Chiudiamo la parentesi sul fronte fascista citando un dato statistico, denunciato sul web nelle ore immediatamente successive alla chiusura del voto, riguardante l’impressionante incremento delle preferenze per la Le Pen nei comuni con meno di mille abitanti in zone della Francia da sempre considerate “rosse”.
Torniamo ora ad occuparci del presunto vincitore di questo primo turno, che ha incentrato la sua campagna elettorale su temi populisti (l’abolizione della legge sulle pensioni di Sarkò e più in generale un alleviamento delle politiche di austeritiy) condite con una dose preoccupante di ambiguità e incertezza su temi fondamentali come l’Europa e il nucleare. Che il programma di Hollande sulla carta rappresenti la possibilità di affievolire le politiche di austerity che pesano su tutta l’Europa è fuor di dubbio, che ciò accada realmente è tutta un’altra storia.
Il candidato socialista dà infatti l’impressione del classico politico pronto a fare la voce grossa mentre è in procinto di sbottonarsi i pantaloni e mettersi chinato.
In ogni caso, per ora, Hollande ha fatto più danni che altro, tramite la strategia del voto utile ha infatti frenato nettamente la volata di Jean-Luc Mélenchon contro la Le Pen che lo ha staccato di ben 7 punti.
La sconfitta di Melenchon è però, per fortuna, solo parziale: al contrario di quella del centrista Bayrou, egli è riuscito infatti a creare in poco tempo una forza politica nuova, l’unica tra i 10 candidati, riunendo nel suo “Front de Gauche” il variegato universo della sinistra francese. Tramite un programma dalla forza rivoluzionaria (a cui Vendola farebbe bene a dare un’ occhiata invece di esultare ingiustificatamente per la vittoria di Hollande), invocando la creazione della sesta repubblica francese (attualmente ci troviamo nella quinta in vigore dal 1958 e caratterizzata dalla “monarchia presidenziale”) e il referendum per abolire il trattato di Lisbona, è riuscito a riunire i vari movimenti sociali creatisi negli ultimi anni sotto il sarkozysmo.
Mélenchon, che aspirava a raggiungere almeno il 15% delle preferenze e ad attestarsi come terza forza politica del paese davanti alla Le Pen, si è dovuto accontentare dell’11% e della vittoria dei socialisti sperando così di potersi ritagliare un posto di tutto rispetto nell’eventuale governo Hollande.
Chi invece è uscito con le gambe rotte da questo primo turno è il centrista Bayrou, che ha visto il suo MoDem perdere circa la metà dei voti rispetto alle presidenziali del 2007 (il 19% allora, il 9% oggi), nonostante goda di un ottima reputazione presso la maggioranza dei francesi, grazie a un programma realistico e al riparo da qualsivoglia ideologia (la sua proposta era quella di formare un governo di unità nazionale con elementi di destra e di sinistra per traghettare la Francia fuori dalla crisi), non è riuscito a sfondare il muro del 10% perdendo così l’occasione di far spostare Sarkò verso posizioni centriste.
Questa è, a grandi linee, la situazione politica francese, e spero di essere riuscito a convincervi che per un vero cambiamento è necessario guardare altrove – perché la situazione francese di oggi non si allontana di molto da situazioni simili vissute in Italia (per esempio la parzialissima vittoria di Prodi nel 2006 che ha poi portato alla catastrofe del 2008).
Non ci resta quindi che aspettare il risultato definitivo e sperare, parafrasando il titolo dell’ultimo numero del mensile satirico “Sinemensuel”, che queste siano le ultime elezioni prima della rivoluzione.

Nicola Porno

Le contraddizioni del Torino Jazz Festival

aprile 29, 2012 § 2 commenti

Colonna sonora (1): Niente più- Leo Ferrè

-Ma hai visto che figata il Jazz Festival?-
-Chi c’è?-
-Jamal! E un sacco d’altra roba pazzesca.-
-Figo. Aggratis?
-Tutto gratis e in piazza.

Mica male, devo essermi detto. Ho portato il flyer a casa e l’ho appeso con una puntina alla scrivania, illuso che mi potesse mai passare di mente. Ovviamente non è stato così. Aspettavo il festival con voglia sempre maggiore. Dovrei studiare. Ma sì, vado direttamente alle 6 per il primo concerto, così prima studio un po’. Magari un po’ prima; sì ma non molto, eh. Tanto è in piazza, troverò posto. Ricevo una telefonata: “Ah, ma non sei ancora arrivato? Avrai una brutta sorpresa…”
Il palco di piazzale Valdo Fusi è in una posizione improbabile. C’è davvero qualcosa di strano. Sembra una propaggine del Jazz Club. La piazza è completamente vuota, perché il palco gli dà le spalle. Mi spiegano che ci sono 400 posti a sedere(un po’ pochini), alcuni sono riservati per le autorità e poi non è più possibile accedere alla “sala”. Alla sala? Doveva essere un evento di massa. Lo so, il jazz non è di massa, ma è pur sempre una musica dalle forti radici popolari e forse è un bel regalo, riportarlo nelle strade per essere goduto, come circa un secolo fa, da qualsiasi persona. Ecco, cosa ho pensato: non sarà facile, ma potrebbe essere una buona occasione. Anche solo per togliere al jazz quella patina di intellettualismo di cui si è vestito negli ultimi anni in Europa, più che negli States. Tant’è: ci si prova, vediamo come funziona sbattere Jamal in mezzo alla gente. Sta per iniziare il concerto e la gente si accalca al lato del palco, dove c’è una discesetta erbosa e le grate d’areazione del parcheggio. Che tu bestemmi e pensi perché cazzo con tutte le splendide e sconfinate piazze della Torino monarchica dovevi scegliere un maledetto parcheggio a forma di imbuto. Provi anche ad ascoltarti le note (che, poi, entrando sotto, con un po’ di stalking sui volontari e un po’ di fortuna sono riuscito a godermi) di Franco Cerri, Renato Sellani e Dino Piana: tre autentici senatori del jazz italiano. Ma il pensiero inizia a roderti: perché una roba del genere? Perché fare un evento di massa e escludere la massa? Strano, perché l’assessore Braccialarghe aveva detto tra un concerto e l’altro «Con il Tjf voglio allargare l’offerta culturale con iniziative di alto profilo, completamente gratuite, per avvicinare pubblici nuovi, e uscire dalla solita cerchia ristretta di frequentatori. Se anche non c’è stato un turista venuto per il festival ma 30 mila persone l’hanno scoperto, anche per caso, sono contento. Abbiamo fatto centro». Ci sono un po’ di tarli che mi rodono e un fastidio crescente per l’organizzazione approssimativa. Qualcuno dice “ma dai, è la prima edizione, miglioreranno”; qualcun altro “queste porcate solo a Torino”. Anche se chi non è torinese e si gira concerti e festival in tutta Italia da anni lo sa bene che non si tratta solo di Torino, in piazzale Fusi non è difficile trovare il perno: il Jazz Club Torino e il suo Presidente Fondatore, il benemerito Fulvio Albano.

Casualmente, il Presidente del Jazz Club, musicista di buon livello e organizzatore da sempre di eventi nel mondo del jazz, occupa il ruolo di Curatore Artistico di piazzale Fusi per il Festival. Altrettanto casualmente, il palco è montato come una vera e propria propaggine del Jazz Club, in cui, appena finisce il concerto sul Main Stage, parte un concerto con aperitivo e cena.

A pensare male si fa peccato ma spesso ci si azzecca (cit. il divo Giulio)

Colonna sonora (2): Take Five – Dave Brubeck

Secondo giorno di festival; si parte da casa con largo anticipo per riuscire a entrare nell’esclusiva platea approntata per l’evento, c’è Ahamd Jamal, impedibile, non si può rischiare di rimanere fuori e improvvisarsi come il giorno prima esperti di free-climbing insieme agli avventori più attempati e diversamente giovani. Arriviamo in piazzale Valdo Fusi con largo anticipo (sono le 16.30), tant’è che gli ingressi sono ancora chiusi e la fila davanti a questi è di modesta entità. In fila ritornano le stesse domande: perché mettere il palco in quella posizione? Perché non mettere il palco all’estremo opposto del Jazz Club, in modo da avere tutta una piazza a disposizione? Perché non girare il palco?

A dire il vero  in pochi si arrovellano con noi intorno a questi interrogativi, i più sono completamente protesi ad accedere all’esclusivo privilegio di un posto a sedere, hanno lo sguardo del predatore, sono attenti, svegli, sanno che dovranno correre e sgomitare per non rischiare di rimanere fuori. Ma noi fungiamo da calamita per tutti i polemisti di professione presenti in piazza e  attorno a noi c’è molta meno tensione. In realtà, i nostri amici entrano presto nella spirale della rabbia più incancrenita, arrivando a scagliarsi rabbiosamente contro chiunque, in una guerra tra poveri che ha dell’assurdo. In successione ne subiranno l’ira funesta: i furbi della fila, i ragazzini dello staff, i fotografi. Decisamente più sobrio l’atteggiamento del tipo rassegnato per cui l’accesso alla cultura derivato da questo tipo di eventi gratuiti è una concessione di una qualche non meglio specificata autorità o sponsor economico, e tanto vale non lamentarsi visto l’eccesso di generosità dimostrato nel rendere gratuite performance di questa portata e pazienza se i posti sono limitati e non ce n’è per tutti, è già tanto quello che ci è stato concesso, meglio non esagerare con le pretese. Ma a noi sobillatori di polemisti sobillati dai polemisti stessi non sfugge la matrice economica di un festival del genere, dai nomi degli sponsor principali (Iren e Intesa San Paolo- tralasciamo per ora la polemica sui finanziamenti, per cui rimandiamo a queste congetture de Lo Spiffero) all’eccessivo zelo mostrato dall’organizzazione affinché ci fosse un sicuro rientro economico per le attività commerciali della Torino centrale. L’ennesimo investimento economico in turismo e intrattenimento, travestito da evento culturale.
Siamo dentro, siamo tra i pochi fortunati.

La “sala” si presenta elegante e raccolta, tinta di nero rispetta l’etichetta che alcuni pretendono per questo genere di musica. È subito piena nel giro di pochi minuti. Ma la folla esclusa è tanta, spinge sulle transenne e preme per poter entrare. I ragazzini dello staff, messi di guardia (13/14 anni), hanno evidenti difficoltà a trattenere ragionevolmente questa folla inferocita. Qualcuno fa il furbo e passa, ma viene subito avvisato che se dovesse presentarsi in ritardo l’assessore comunale dovrà cedergli la sedia conquistata (mai parole furono così tanto fuori luogo).

Ormai ci siamo, Jamal, Riley, Cammack e Badrena dopo un inizio in sordina partono per la tangente; i brani da “Blue moon” sono brillanti e le rare incursione nel primo repertorio si vestono di una luce tutta caribbean data dall’apporto sempre puntuale di “Manolo” Badrena alle percussioni. Tutto il set prende quota e coinvolge sempre di più il pubblico, dentro e fuori la sala: si battono addirittura le mani. Sembra di recuperare un po’ delle radici che c’è nel jazz…magia “dell’uomo dalle due mani destre”.  Presi dal battito di mani fragoroso, ci guardiamo intorno: in questo secondo giorno di festival gli alpinisti improvvisati si sono quintuplicati. Anche il resto della piazza è piena. Un evento con un’enorme partecipazione castrato. Nel resto della serata possiamo apprezzare particolarmente, ritenendola geniale, la trovata di far suonare un solista su di una chiatta in mezzo al Po; dei lati positivi e per una recensione completa del festival ci riserviamo di aspettare la fine.

Ma si fa tardi nello scrivere questo resoconto, bisogna scappare a prendere i posti.

I Jazzemani

Le vacanze in Spagna costano un occhio

aprile 25, 2012 § Lascia un commento

Quest’anno è la Germania che detta le tendenze per la primavera e l’estate. In Spagna per esempio, nella centralissima ed esclusivissima della Moncloa (la sede del Governo) politici ed amministratori stanno inaugurando una nuova stagione di colori sbiaditi e tagli netti, a cominciare dalla sanitá. Il taglio annunciato è del 10% rispetto al budget degli anni passati; in abbinamento alla mise «vedo non vedo, forse non c’è più» troviamo anche un tocco d’altri tempi: l’obbligo della donna a giustificare l’aborto al medico che le rilascia l’autorizzazione a procedere, non includendo tra le motivazioni accettate quella «socioeconomica».
Quest’ultima misura al momento non è nell’agenda delle prossime azioni del Governo, ma la dottrina pro-life è stata piú volte difesa pubblicamente dalla destra spagnola.
Nell’istruzione le forme suggerite appaiono familiari all’italico gusto: tagli al Fondo di Finanziamento universitario, aumento delle tasse attraverso la celebre formula dell’innalzamento della percentuale di contribuzione studentesca (non vi diamo meno soldi, è che dovete essere più collaborativi!) e della riduzione delle borse di studio; i Consigli di Amministrazione si popoleranno di rappresentanti «del mercato» non eletti da nessuno. Nell’insegnamento inferiore ogni professore vedrà aumentate le ore settimanali (licenziamenti) e faranno lezione a classi un 20% più numerose (più licenziamenti).
Questo e molto altro è previsto dala stragia «EU 2015«, l’attuazione delle direttive europee del piano di Bologna e di Nizza sull’istruzione.
Sul lato del lavoro la riforma continua la precarizzazione, o flessibilizzazione, del lavoro attraverso il libero sfoggio del licenziamento “per motivi economici” senza l’incorrere in sanzioni e con un’indennizzo al lavoratore corrispondente a 33 giorni lavorativi per anno di lavoro effettivo; maggiori possibilità di modifica del salario, delle mansioni e dell’orario
lavorativo, incentivi per chi sospende temporalmente il contratto, nuovo contratto di formazioni per giovani sotto i 30 anni, con salario minimo e durata tra uno e tre anni (periodo di prova di 12 mesi), possibilità di licenziamento collettivo senza passare dalla contrattazione sindacale. Questo e molto altro sulle passerelle iberiche. Sorpresi?
Se l’originalità non sta nell’essenza delle nuove mise proposte, la possiamo trovare nelle forme di attuazione di queste misure.

La risposta da parte di chi soffrirà i tagli è stata imponente: il 29 marzo. Lo sciopero generale in tutta la Spagna è stato attuato anche grazie a decine di picchetti che hanno fermato fabbriche, negozi e mezzi di trasporto pubblici, a blocchi del traffico per permettere alle persone di camminare verso un unico obiettivo per tutta la giornata: il futuro da riprendersi.
Una giornata che da ogni fronte di movimento è apparsa come ben riuscita. I media nazionali hanno riportato solamente le cifre del numero di cassonetti distrutti, dei danni totali ad edifici e cose, del numero degli arrestati e dei feriti.
La risposta statale e autonomica è stata più spaventosa che imponente: in Catalunya, a Barcellona, due elicotteri sorvolavano la città fin dalla notte precedente, e Guardia Urbana e Mossos d’Esquadra occupati in assetto antisommossa, che hanno cercato di mantenere l’ordine con non poche difficoltà: numeriche per le molte manifestazioni in contemporanea della giornata, e logistiche per l’ubiquità dei gruppi più aggressivi nei punti caldi (banche,
uffici dell’impiego, multinazionali, centri commerciali, imprese e auto di lusso).
La risposta si è articolata con arresti, lacrimogeni e proiettili di gomma: la prima misura ha riportato le persone all’epoca franchista, in molti associano le «bombas du humo» alla repressione del dittatore finita nel ’75, ma che ogni giorno di più sembra ricomparire nelle azioni politiche e di piazza.
I proiettili di gomma sono in dotazione alla polizia spagnola e alle polizie autonomiche, che in Catalunya ne fa abbondante uso; sono classificate come armi «non eccessivamente letali», ma dal ’95 ad oggi si stima che abbiano fatto già quasi venti morti, e centinaia di feriti gravi.
Le «balas de goma» hanno privato di un occhio tre italiani in situazioni non pericolose nell’ultimo anno, e lo scorso mese hanno ucciso un ragazzo basco per l’emmoragia cranica che possono provocare.
La violenza che si percepiva sfilando per le strade di Barcellona durante la huelga general è disorientante: le polizie (nazionale e autonomica) arrivano all’improvviso sfrecciando a tutta velocità per disperdere le persone (spesso facendo male a qualcuno), e se le persone non se ne vanno saltano giù dalle camionette ancora in movimento per picchiare alla cieca: manifestanti con le mani alzate, fotografi, giornalisti, turisti ignari, fino a che esauriscono la scarica di adrenalina per poter continuare la loro folle corsa a sirene spiegate, in gruppi di 6- 10 camionette con 8-12 mossos per ognuna. Non importa «di che spezzone tu sia», non devi stare in strada, nemmeno sul marciapiede, la strada è loro.
Alti incarichi del ministro dell’Interno e della Polizia hanno rivendicato la buona attuazione poliziale, che di fronte a «masse tanto aggressive» non poteva discernere i buoni dai cattivi: si dispiacciono per i buoni che hanno pagato, ma avrebbero dovuto semplicemente allontanarsi dalla manifestazione.
Le reazioni a questa giornata sono state duramente repressive da parte dello Stato: è stata infatti proposta una riforma del Codice Penale riguardante le norme processuali per atti di guerriglia urbana e la legge di sicurezza cittadina. Il ministro dell’Interno Díaz – un nome una garanzia – vuole introdurre il reato di attentato all’autorità attraverso resistenza passiva o attiva grande, con una pena tra 1 e 6 anni, il reato di diffusione di convocatorie violente attraverso internet e l’allungamento della detenzione preventiva; inoltre si estenderà la quantificazione dei danni alle interruzioni di servizi pubblici, mentre attualmente si valutano solo i danni a cose.
Si è negato che queste misure servano a restringere la libertà di manifestazione, affermando che si vuole punire solamente chi compia un atto di «autentica prostituzione del diritto di manifestazione». Un aneddoto su questa frase: oltre a non aver sicuramente convinto chi dubitava sulle finalità di queste misure, ha aumentato l’indignazione delle lavoratrici sessuali spagnole, già organizzate da tempo in una piattaforma e che il 26 aprile scenderanno in piazza per rivendicare la dignità della propria attività, sentendosi anche loro sempre più in pericolo trovandosi in uno spazio pubblico, e il pericolo è costituito dalle forze dell”ordine. (Prostitutas indignadas).
I movimenti hanno reagito súbito ai 70 arresti nel giorno della manifestazione, di cui 3 preventivi confermati in vista della riunione della Banca Centrale Europea a Barcelona il 2 e 3 di maggio. Sta nascendo una piattaforma antirepressiva che riunisce, al momento, una quindicina di movimenti politicamente trasversali di quella che si potrebbe chiamare
l’area extraparlamentare, che hanno chiamato una manifestazione ieri a Barcellona contro la repressione crescente; si muoveranno in direzione tecnica (supporto legale agli arrestati e durante le manifestazioni) e politica, perchè la grande domanda che le persone sentono crescere è: che cos’è la violenza? Ed è una domanda che molti italiani si sono ritrovati a farsi dopo gli avvenimenti in Valsusa quest’anno.
Alla fine della manifestazione contro la repressione di domenica 22 aprile sono state fermate 6 persone, di cui 2 ora in arresto per aver fatto delle scritte sui muri, reato che normalmente è punito con una multa. Non solo non si sono giustificati gli arresti, ma si continua con la violenza verbale da parte delle forza dell’ordine, che hanno replicato attraverso il suo Coordinatore generale regionale David Piqué: «si possono nascondere dove vogliono, perchè li troveremo. Sia in una caverna o in una cloaca, dove si nascondono i ratti, o in un’assemblea, che non rappresenta nessuno, o dietro la scrivania di un’università». Parole quanto meno dinamitarde in un momento di crisi ecnomica senza possibilità all’orizzone di risalita. Il primo maggio ci sarà la manifestazione annunciata già dal 30 marzo.
In tutto questo clima di violenza, non è mancato chi ha cercato negli stranieri la causa delle violenze: un articolo della Vanguardia dell’8 aprile a firma di Enric Juliana accusa anarchici italiani affiliati del movimento No Tav di essere «il germoglio anarcoitaliano violento degli scontri nel giorno dello sciopero generale». Un tocco di esoticità che piace di qua e di là.
Intanto continuano gli sgomberi di persone che non possono pagare il mutuo, continua l’emigrazione degli spagnoli, le uscite africane a caccia di elefanti del re e il lancio di «nuove collezioni»: il vintage è tornato davvero di moda, e guardando bene ci si accorge che non sono capi nuovi a cui si è volontariamente deciso di attaccare delle «pins» o di aggiustare con spalline perchè sembrassero antichi: qualcuno ha tirato fuori vestiti da un armadio che si sperava definitivamente chiuso.

Girafa Desquiciada

La solitudine degli indignati

aprile 14, 2012 § 2 commenti

Se c’è una vittima, lo sai. Lo sanno tutti quando c’è una vittima. Si siedono davanti alla TV per pranzo e sanno che c’è una vittima, da qualche parte, qualcuno da piangere.
Se c’è uno scandalo, lo sai. Non hai capito una sega della riforma del lavoro, non ti disturba la xenofobia della Lega, ma dei milioni rubati ti indigni sempre. E poi torni alla fettina al burro che ti guarda rattrappita dal piatto.
Perché l’assuefazione è così: sorprende sempre per restare uguale a se stessa. Se volessi una sorpresa reale, un cambiamento, qualcosa, non accenderesti l’ennesima sigaretta, sperando che faccia sfumare il nervosismo. Tireresti via il pacco, masticheresti liquirizia. Passando ad un’altra dipendenza.
Sono diviso tra una nuova sfiducia, una disillusione fiorita nelle ultime settimane riguardo all’agire collettivo e il rancore provocato dall’individualismo d’indignazione. Perché questo, sugli ultimi mesi, dobbiamo dirci: abbiamo sbagliato parole d’ordine, abbiamo impostato un immaginario fallimentare. L’indignazione non basta, ci dicevamo. L’indignazione non serve, avremmo dovuto dire. Perché l’indignazione fa appello alla dignità, un senso individuale, per tutti diverso, l’indignazione è diversa dalla rabbia, ma non più costruttiva. Solo una sfumatura diversa della sconfitta. La costruzione di una collettività non può partire da un sentimento così beceramente individuale: il movimento negli ultimi anni è caduto nella trappola che gli era stata preparata. Ha raccontato una storia già sconfitta, per assuefazione. Così, come si fuma una sigaretta.
Il nostro, a memoria, è il Paese sempre indignato. Al punto che pure l’indignazione, che dicono meglio di niente, dicono, forse era meglio niente, forse era meglio rabbia, è spenta, è un rito, assieme al caffè, o all’amaro dopo i pranzi pesanti, la Colomba e l’Uovo di Cioccolato a Pasqua. Insomma, 8-12.30 lavoro 12.30-13.00 viaggio verso casa 13.00-14.00 pranzo e mi indigno un po’ 14.00-15.00 riposino 15.00-18.30 lavoro 18.30-19,30 traffico, bestemmie e radio 19.30 casa. La routine dello scagliarsi contro la casta e della pasta scotta, la routine dei broccoli saltati e dell’alternativa possibile a sinistra. Quando, poi, tutto cade a pezzi e la violenza dei decreti del governo tecnico di acclamazione popolare(GTAP) viene nascosta dall’ennesimo scandalo che coinvolge la famiglia di questo o quel politico (è toccato a Bossi, toccherà a qualcun altro, in perpetuum), semplicemente sai qual è la prassi: ti indigni, versi un bicchiere di vinaccio della cantina sociale, finisci la cena, fumi una sigaretta. E vedi che dice Carlo Conti.

Iosonolodio