Scrivere con i piedi: fenomenologia della letteratura calcistica

giugno 4, 2012 § Lascia un commento

Perché i capolavori di Baggio, Ibrahimovic e Del Piero sono le novità letterarie più interessanti degli ultimi vent’anni


Il grande laboratorio culturale dello stivale italico si è sempre imposto, nel corso dei secoli, nel mondo “occidentale”, ancora prima dell’esistenza stessa di un mondo occidentale. Sembra una tesi di difficile sostenibilità, e andrebbe sicuramente meglio argomentata, ma tale operazione prevederebbe una ricerca ben più approfondita di questo breve articolo. Vi basti, quindi, sapere che la mia mamma dice che sono bello e commenta con simpatici buffetti questa come altre teorie.

In Italia la letteratura sta imponendo un nuovo genere letterario, di avanzata ricercata decostruttiva e che pone l’artista, badate bene artista, non scrittore, in una nuova dimensione di contaminazione tra diverse forme d’arte. Anzi, in una dimensione in cui non esistono più né forme né arte. Feroce amante e crudele distruttore della forma letteraria. Dimenticatevi poeti, drammaturghi, novellisti, saggisti, giornalisti e scrittori. La nuova forma della parola scritta è affidata a chi ha raggiunto le più alte vette artistiche né con le mani, né con la voce, ma con i piedi.
Il nuovo risorgimento della letteratura italiana è affidata ai calciatori, delle cui invenzioni letterarie sentivamo tutti bisogno.

Prima di passarne velocemente in rassegna i principali capolavori, voglio spendere qualche parola su questo nuovo genere letterario.Contrariamente a quanto succede per altre categorie professionali che si dedicano in un secondo momento alla scrittura, i calciatori rimangono calciatori anche, e soprattutto, mentre scrivono. Non come dei banali presentatori televisivi o degli attori qualsiasi. Loro non imitano gli scrittori, non producono romanzi né inventano eroi del noir. Rimangono calciatori che scrivono. Spesso fantasisti che inventano un nuovo spazio di fantasia, strappandolo al mondo della comunicazione mediatica e degli sponsor.Non cadono nemmeno nella facile trappola del saggio dell’esperto del settore: sì, si parla di calcio nelle loro produzioni, ma mai manuali di calcio o saggi. Sono di solito autobiografie, perché il calciatore-creatore sa che quello che i suoi lettori vogliono: la narrazione dall’eroe delle proprie gesta, come se la società dello spettacolo chiedesse a Odisseo di reinventare il proprio mito e di sostituire la tavola di Alcinoo con il best-seller da scaffale. Poche autobiografie nella storia della letteratura risultano altrettanto sincere, con una tale sovrapposizione tra autore che si racconta, personaggio e percezione del personaggio da parte dei lettori. Allora troveremo un Cassano, autore non di uno, ma di due libri, impegnato a difendere la sua immagine e il suo bisogno di narrare se stesso come un Pierino pestifero e geniale, un Baggio, vero padre di questo genere letterario, a distribuire sorrisi ed ascetismo fin dal titolo. Ma addentriamoci meglio, seppur brevemente, in questo genere letterario.

Roberto Baggio

L’Omero della letteratura calcistica. Autore da aforisma prima ancora del suo debutto letterario, genio indiscusso e indiscutibile del calcio e padre di un genere letterario. L’umanità non può esaurire la sua gratitudine verso questo personaggio, per certi versi controverso, con il solo pallone d’oro. La sua celebre affermazione: “I rigori li sbaglia solo chi ha il coraggio di tirarli” ha da tempo superato, almeno nel mondo italofono, le migliori citazioni di Wilde o Schopenauer. Ricordiamo solo come sia stata ripresa da Claudio Riccio nel suo struggente addio alla politica, per dimostrare come le parole di Baggio siano entrate nell’immaginario collettivo. E se i più crudeli e ingrati hanno ricordato al vecchio portavoce della Rete della Conoscenza come i tifosi di mezza Italia apostrofassero il fantasista con il celebre coro “Baggio puttana hai fatto tutto per la grana”, non possiamo non riprendere questo episodio come simbolo dell’assunzione artistico-calcistica del grandissimo calciatore nell’Olimpo dei grandi della Storia.
Perle di saggezza, riflessioni da buddista occidentale, amore per il calcio, ma anche per le polemiche con gli allenatori della propria carriera. Ironia, sorrisi e lacrime distribuiti con saggezza e una affabulazione sorniona: “Una porta nel cielo” contiene già tutti gli ingredienti che verranno ripesi da quanti ripercorreranno sul campo e nella scrittura i passi del codino più famoso della storia dello sport.

Francesco Totti

Saggiamente il Francesco nazionale sceglie di non raccontare la propria biografia, ma di lasciare che l’intento del libro faccia emergere il proprio Io umano, artistico e calcistico. Come i veri creatori del mercato d’arte Totti legge e sfrutta il momento storico in cui la sua opera nasce e si dispiega: mentre il mondo mediatico crudelmente lo bolla come illetterato coatto, egli, er Pupone, si fa rapsodo di se stesso e raccoglie i frutti di questo crudele ritratto di lui dal mondo dello spettacolo creato: raccoglie tutte le barzellette su di sé e ne fa un libro.
Geniale il titolo del libro. Davvero, ho sempre apprezzato i titoli che raccontano chiaramente, senza inganni, a cosa il lettore sta per andare incontro: “Tutte le barzellette su Totti (raccolte da me)”. Fa uscire con forza l’autore-rapsodo, e l’immagine che vuole trasmettere di sé nell’opera, anche forse nell’intento benefico dell’opera. L’Unicef, ovviamente. Istituzionale ed universale, e poi a tutti piacciono i bambini.

Antonio Cassano

Autore di due opere, nulla fa emergere la struggente bellezza dell’invenzione del mito del meridione, del Sud del Mondo, come la penna dell’irriverente barese. “Dico tutto” sottotitolo: e se fa caldo gioco all’ombra, scritto con la collaborazione (supervisione? correzione grammaticale?) di Pierluigi Pardo, è un ritratto irriverente, ma sinceramente genuino e buono di questo ragazzo, riscattatosi da una condizione di disagio e povertà con il pallone (e la scrittura, ovviamente). Lo stile nella sua semplicità e nei suoi rimandi al linguaggio più colloquiale ammicca ai grandi narratori americani e ai primi libri di Culicchia e Brizzi. Nella sua seconda opera, “Le mattine non servono a niente, e altre 364 cassanate in forma di aforisma per vivere un anno da fantasista”, scritto sempre con la collaborazione di Pardo, l’autore rinnova l’immagine di un sé fantasioso prima ancora che fantasista cimentandosi, però, in un nuovo genere letterario, quello appunto dell’aforisma. Inarrivabile e rinnovatore di se stesso… quanti “scrittori colti” del panorama italiano dovrebbero guardare alla bibliografia di Cassano con umiltà!

Zlatan Ibrahimovic

Il più grande tra tutti i protagonisti di questo genere, e probabilmente tra gli autori viventi. “Io, Ibra” è un libro da mettere nella vostra biblioteca a fianco ai grandi scrittori del Novecento. Uomo della strada, cresciuto tra il freddo e i campi di cemento di Rosemberg, il ghetto dell’isola di Malomoe con tanti bambini dell’Est come lui. Nelle pagine il giocatore svedese, assieme a Lagercrantz David, fa rivivere una vita non solo di disagio e povertà, ma anche di cattiveria. Con un realismo che pochi altri hanno saputo raggiungere e che lo collocano di diritto nel Paradiso dei Narratori della Sfiga, tra Zola e Verga.Una scrittura fatta di rivalsa, muscolare, che non risparmia critiche né fa sconti a compagni e allenatori. Un uomo che ringrazia sempre solo sé stesso, le sue gambe e il suo cuore. Che per servire sé stesso non ha mai esitato a cambiare continuamente squadra, nazione, lingua e vita. E non solo seguendo ingaggi più alti, anzi, ma sempre alla ricerca di nuove sfide e nuove opportunità. Tante bandiere, nessuna bandiera. Anarchia e sudore.

 

Alessandro Del Piero

Giochiamo ancora”, scritto con Crosetti Maurizio (anche se, contrariamente a quanto fanno gli altri scrittori-calciatori, non cita il coautore in copertina), ci presenta un Del Piero inaspettatamente flaubertiano, che ammicca al romanzo borghese. Uomo della provincia bene dell’operoso Nordest. Famiglia borghese, scuole calcio accompagnato dal papà, quei bambini buoni e simpatici che si fanno ben volere da tutti. Scrittura pulita, elegante addirittura, quasi leziosa. La ricercatezza della struttura nella divisione dei capitoli: il ricorrere al numero dieci, a sottolineare l’identificazione con la squadra, l’essere bandiera e simbolo della stessa, non abbandonarla mai, nemmeno nei momenti difficili. Anche quando vuol dire rinunciare alle grandi sfide, al Calcio con la C maiuscola per dedicarsi al alla B. Quell’elargire consigli da padre di famiglia e buonismi. Un po’ Coelho vecchia maniera, un po’ debutto letterario di Baggio. 
Minchia se ti odio Del Piero.

In realtà l’elenco di calciatori-autori è ancora lungo: Buffon, Inzaghi, Stankovic, Eto’o e molti altri, ma sono tutti riconducibili in qualche modo agli autori qui analizzati: autobiografia, autoironia e autopromozione del mito di sé. Perché nell’era dello spettacolo l’eroe non ha solo il dovere di essere eroe, ma deve farsi promotore del suo più alto valore morale: la creazione di sé stessi come oggetto di consumo. Forse solo la scrittura sudata e feroce di Ibra e la sua sfacciataggine sanno far emergere le contraddizioni di questo modello letterario: questi eroi-calciatori-narratori del mondo dello spettacolo sportivo che li ha creati.

Pivo Andrić

Nota dell’Autore:
L’autore vuole condividere con i lettori dell’Ode la gioia per il ritorno del Torino in serie A.

 

Quando i tifosi della Juve cantano

aprile 4, 2012 § 3 commenti

Niente da fare. La Juve segna il terzo gol. È finita.

Non si recupera un tre a zero, a Torino.

Una domenica di inizio aprile da cancellare.

Il Napoli, poi, è un ombra di azzurro stinto e affaticato. Resto sul divano – la schiena appoggiata contro i cuscini e le mani strette fra le ginocchia – mentre la rabbia si scolora in rassegnazione. Potrei spegnere il televisore, in fondo mancano dieci minuti. Spegnerlo e porre fine all’agonia. Ma lo sconforto limita ogni mio movimento: appiccico uno sguardo passivo al manto verde.

Poi accade. Tutto lo stadio canta ‘O surdato ‘nnamurato. Migliaia di voci si insinuano fra le parole dei due telecronisti.

I tifosi della Juve cantano l’inno del Napoli.

Per scherno.

*

Prima guerra mondiale, in trincea. Un soldato rievoca la sua donna. Con il pensiero vola verso di lei. Niente vuole e niente spera, se non tenerla per sempre al suo fianco.

*

Istruzioni per l’uso dell’articolo: i pezzi vanno montati insieme, manca un ordine stabilito. Se fra le righe si nasconde un senso, solo il lettore può recuperarlo. Malgrado l’inzio, questo non è un articolo di calcio.

Non voglio architettare agguati contro la Juve e i suoi tifosi.

Se desiderassi compiangere il Napoli, lo farei in privato.

In gioco c’è altro.

Ammetto, sì, che la sconfitta brucia ancora.

*

‘O surdato ‘nnamurato. Tutto lo stadio, a Napoli, canta il canto del soldato innamorato in guerra. Lo intonano quando la partita finisce e la squadra ha vinto. Il Napoli ha battuto il Manchester City e le curve e le tribune rincorrono la melodia, le parole. Gli spalti son tinti d’azzurro, ed è sera inoltrata.

Poi chissà, torna la mattina e il cemento della metropoli afferra gli occhi e le narici.

*

Nel 2002 il Torino sta vincendo contro la Juve. Alla fine del secondo tempo Maresca, centrocampista bianconero, colpisce di testa e pareggia. Esulta, corre verso la curva dei tifosi del Torino e imita le movenze di un toro. Le dita tese verso il cielo diventano delle corna, i polsi restano attaccati alle tempie. La sua sgroppata scarta repentina a destra, poi a sinistra. Maresca si toglie la maglia e ripete la scena. Sorride. Il toro è il simbolo della squadra avversaria.

Un’imitazione.

Per scherno.

*

Oje vita, oje vita mia…

Oje cor ‘e chistu core…

Si’ stata ‘o primmo ammore…

E ‘o primmo e ll’ùrdemo sarraje pe’ me!

Non c’è dubbio che la Juve abbia giocato meglio. Perché appropriarsi della canzone del soldato?

*

«Nei primi anni sessanta, a causa dell’inquinamento dell’aria, e, soprattutto, in campagna, a causa dell’inquinamento dell’acqua (gli azzurri fiumi e le rogge trasparenti) sono cominciate a scomparire le lucciole. Il fenomeno è stato fulmineo e folgorante. Dopo pochi anni le lucciole non c’erano più.»

Di sfuggita – perché il punto è un altro! – suggerisco di notare il color dei fiumi.

*

Torino è la città dell’automobile, la capitale degli operai. La famiglia Agnelli è proprietaria della Juve. La squadra dei padroni, dicono i tifosi delle altre squadre. I tifosi di sinistra.

Ma la Juve era anche la squadra amata dai migranti che dall’Italia meridionale si spostavano per cercare lavoro a Torino. La squadra degli operai.

Oggi, la Juve, è squadra di chi?

*

È lunedì, che

delusione

tornare in fabbrica

a servire il tuo

padrone

Oh! Juventino!

Succhiapiselli

di tutta quanta la famiglia

Agnelli.

Altre versioni riportano: ciucciapiselli.

*

Da tante notti non ti vedo, non ti sento fra queste braccia. Non ti bacio il volto. Mi risveglio dai sogni e mi vien da piangere per te.

*

«Chilometri di catrame, di strade enormi che in pochi minuti ti portano fuori da questo territorio per spingerti sull’autostrada verso Roma, dritto verso nord. Strade fatte non per auto ma per camion, non per spostare cittadini ma per trasportare vestiti, scarpe, borse. Venendo da Napoli questi paesi spuntano d’improvviso, ficcati nella terra uno accanto all’altro. Grumi di cemento. Le strade che si annodano ai lati di una retta su cui si avvicendano senza soluzione di continuità Casavatore, Caivano, Sant’Antimo, Melito, Arzano, Piscinola, San Pietro a Patierno, Frattamaggiore, Frattaminore, Grumo Nevano. Grovigli di strade. Paesi senza differenze che sembrano un’unica grande città. Strade che per metà sono un paese e per l’altra metà ne sono un altro.» R. Saviano, Gomorra.

Cosa si canta, nel mezzo del cemento di Scampia? A Frattamaggiore?

*

Forse è la squadra di chi ha perso i propri segni lungo la strada, di chi li ha persi in fabbrica, di chi li ha persi in un presente orfano di futuro.

Il mondo si è scolorito i fumi delle fabbriche hanno rubato i colori il mondo ora è nerobianco e nel bianconero le lucciole non si vedono più.

*

Scrivi sempre che sei felice, io non penso che a te. L’unico pensiero che mi consola: che tu pensi sempre a me. Se c’è donna, al mondo, che è la più bella fra le belle donne del mondo quella donna più bella del mondo non è bella quanto te.

*

Di nuovo sulle lucciole (scomparse):

«In Italia sta succedendo qualcosa di simile: e con ancora maggior violenza, poiché l’industrializzazione degli anni settanta costituisce una mutazione decisiva. Gli italiani sono divenuti in pochi anni un popolo degenerato, ridicolo, mostruoso, criminale. Basta soltanto uscire in strada per capirlo. Ma, naturalmente, per capire i cambiamenti della gente, bisogna amarla. Io, purtroppo, questa gente italiana, l’avevo amata: sia al di fuori degli schemi del potere, sia al di fuori degli schemi populistici e umanitari. Si trattava di amore reale, radicato nel mio modo di essere. Ho visto dunque coi miei sensi il comportamento coatto del potere dei consumi ricreare e deformare la coscienza del popolo italiano, fino a una irreversibile degradazione.» P.P. Pasolini, Scritti corsari.

*

Nel centro storico di Napoli i vicoli sono così stretti che non c’è lo spazio per costruire un supermercato.

Resistono i piccoli negozi.

Qualche bottega di artigiano fa capolino.

*

Perché imitare? Imitare in mezzo al vuoto.

«Il trauma italiano del contatto tra l’arcaicità pluralistica e il livellamento industriale ha forse un solo precedente: la Germania prima di Hitler. Anche qui i valori delle diverse culture particolaristiche sono stati distrutti dalla violenta omologazione dell’industrializzazione: con la conseguente formazione di quelle enormi masse, non più antiche (contadine, artigiane) e non ancora moderne (borghesi), che hanno costituito il selvaggio, aberrante, imponderabile corpo delle truppe naziste.» P.P. Pasolini, Scritti corsari.

Ma Pasolini esagera sempre. Va letto di sbieco.

 

Franciaccio Migliesco

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