Il movimento NoTav, i teoremi e la politica che crede ancora in Dio

marzo 4, 2012 § 3 commenti

Questo articolo parla di NoTav e di letteratura. Della convinzione che gli “eventi-NoTav” delle ultime settimane si possano comprendere di più attraverso la letteratura. Nulla di più odioso, a prima vista: non ho vissuto i fatti in prima persona, sono in università e ho speso tutta la mattina a scrivere questo articolo. Sulla letteratura. Eppure credo ancora in lei e poiché la mia esperienza di queste settimane è avvenuta solo a distanza, vorrei comunque cercare di dare il mio contributo.

Due fatti: gli arresti emessi dalla Procura di Torino a fine gennaio in seguito agli scontri  di quest’estate; gli sgomberi iniziati in Valle l’ultimo lunedì di febbraio. Mi chiedo: esiste una connessione fra i due eventi? É verosimile che esista: ventisei militanti NoTav (fra cui alcuni leader di una certa rilevanza) vengono arrestati ed esclusi dall’azione politica. Le ordinanze sono scattate tre settimane prima degli sgomberi, tre settimane prima della resistenza e degli scontri di questi giorni. Mentre i blocchi vengono forzati dalla polizia, il movimento conta fra le sue fila ventisei militanti in meno: il disegno è lineare, fin semplice nei suoi tratti.
Perino, uno dei portavoce più influenti del movimento, non componeva ragionamenti molto diversi all’indomani delle ordinanze cautelari: “è una cosa preordinata”, comunicava ai giornali, “un segnale chiarissimo a tutti quelli che stanno cercando di alzare la testa in Italia e che prendono il movimento NoTav come esempio: vogliono dire a camionisti, pescatori, e così via di stare tranquilli altrimenti si finisce tutti in galera. Si vuole criminalizzare il movimento.” Una cosa preordinata, un disegno: qualcuno – lo Stato, i poteri forti – ha causato gli arresti per ottenere un fine determinato: indebolire il movimento. Caselli, allora, è un esecutore del disegno, o teorema giudiziario.
Tutto era stato già scritto – e non lo afferma solo Perino. I giornali autorevoli e le istituzioni hanno proposto un’analisi del passato ritornante: “state attenti”, dicono, “che nel movimento si sta infiltrando l’antagonismo e vi ricordate cosa significa, vi ricordate gli anni Settanta? Il piombo, il piombo!” Il presente si legge come una scrittura del passato, un disegno finalistico dove tutto si tiene. E anche le scritte sui muri di Via Po è come se fossero già scritte: il linguaggio non sembra cambiare di molto dalle parole di un tempo. É allora perfettamente verosimile che lo Stato abbia applicato il suo teorema (il teorema giudiziario) e che lo abbia applicato perché il movimento è ormai pronto ad avviare il suo Settantasette. Tutti scrivono – sui giornali, sui muri – e le loro scritture sono in fondo lineari, credibili. Preordinate, direbbe Perino.
Il teorema – come ogni teoria del complotto – mi ricorda la Provvidenza di Manzoni, il Disegno di Dio. (Ecco la letteratura che avevo annunciato.) Tutto è scritto nelle stelle, tutto segue il suo corso. Tutto è perfettamente verosimile e comprensibile perché è stato già scritto. Il Grande Vecchio si sostituisce a Dio, ma da un punto di vista narrativo le carte in tavola non cambiano di molto: i paradigmi di interpretazione della politica e del giornalismo sono manzoniani e provvidenziali – e c’era da aspettarselo alla luce della cultura letteraria insegnata a scuola e dal nostro intrinseco cattolicesimo.
Ma Manzoni è morto, e dopo lui altri son venuti. La letteratura è cambiata e ha pensato e scritto diversamente: senza Provvidenza e senza fatti preordinati. Propongo di trascinare quest’altra letteratura nel contesto attuale  – i nostri “eventi-NoTav” – con la speranza di dischiudere riflessioni e interpretazioni più convincenti dell’esistente, e più rivoluzionarie.
Dopo Manzoni, i fatti non stanno più insieme e il mondo è un’accozzaglia i cui eventi sono spesso privi di spiegazione. Viene a mancare il grande paradigma che teneva assieme il senso del mondo: Dio – o il complotto. I fatti non si connettono armoniosamente uno all’altro, ma si disperdono, ed è estremamente faticoso recuperare dei fili sottili nel guazzabuglio. La realtà si riduce a una serie di eventi discontinui, una complessità di cause il cui motore è spesso aleatorio.
Ribalto allora quanto affermato finora dai protagonisti di queste settimane. Caselli non ha agito secondo un teorema, come vorrebbe Perino. Il movimento non è una riproposizione degli anni di piombo, come desidererebbero certi giornalisti e tutori dell’ordine. Non esiste una connessione diretta e lineare fra gli arresti di Caselli e la repressione di questi giorni durante gli sgomberi valligiani. Poste queste prime ipotesi sperimentali, si possono tentare le prime congetture, le prime riflessioni.
La Procura di Torino ha ricevuto gli incartamenti dalla polizia e ha lavorato seguendo un normale iter legale, senza infrangere in modo evidente lo stato di diritto democratico. Questa riflessione ne può aprire un’altra: cosa si intende per legalità? Un insieme di scritture determinate da un codice? O un insieme di regole che di volta in volta si incarnano nella contingenza, nei corpi che si muovono e agiscono negli spazi? E, ancora, che rapporto c’è fra la legalità e l’azione politica di movimento? Come si deve porre il movimento nei confronti delle leggi? Credo siano domande molto più interessanti, che non potrebbero essere poste se si definisse l’azione di Caselli uno strumento in mano a uno stato repressivo, quindi intrinsecamente fascista. L’attuale contesto è molto più intricato e solo i Wu Ming possono ancora credere che il mondo si divida linearmente fra buoni e cattivi (loro sì, sono manzoniani, ma forse non lo sanno).
Anche in questo anfratto del pensiero, la letteratura, in quanto scrittura agita, può tornare utile. Non riconoscere le leggi come una scrittura assoluta e preordinata, ma come un complesso di regole da porre sempre in discussione, da modificare e da riscrivere creativamente potrebbe essere una via interessante per un movimento che voglia interrogarsi sul rapporto fra azione politica e diritto. In fondo sono riflessioni non del tutto mie, e traggono spunto da un’altra scrittura originata nell’area del pensiero antagonista – una scrittura molto più interessante delle scritture stantie sui muri di Via Po. (Qui il link).
Questo filo di pensieri nato da Caselli e confluito nel dibattito su violenza, legge e giustizia può essere uno dei tanti percorsi in cui insinuarsi nel momento in cui venga disconnesso il Disegno. Un altro territorio interessante potrebbe essere quello del movimento NoTav stesso: senza il paradigma-anni-Settanta, come si può comprendere quanto sta accadendo in valle? La Stampa e La Repubblica avrebbero i loro problemi di scrittura e di interpretazione.
Vorrei che si torcesse il collo alla retorica e ci si liberasse delle frasi fatte e delle letture preconfezionate (“Manganelli lo aveva detto – lo aveva scritto – che ci sarebbe scappato il morto!”). Vorrei vedere la fine di uno spettacolo in cui a una lettura stupida – Manganelli su tutti – si risponda con altrettante interpretazioni stupide. La fine delle sceneggiature verosimili, che, gira e rigira, finiscono costantemente per avvantaggiare chi esiste già e mai chi non esiste ancora, o chi potrebbe esistere.
I fatti spesso non si legano mai bene assieme e, se qualche volta si incontrano, dietro di loro si nasconde un’infinità di cause complessa e variegata. E poi ci sono i fatti apparentemente insignificanti, inutili e casuali che possono dischiudere deboli connessioni di senso, ma impreviste: la vita di un ragazzo in carcere, i movimenti della polizia fra le due e le tre del pomeriggio, gli sguardi di un valligiano rivolti al suolo e le pause nei monologhi di un anarchico (ma era anarchico?) che catechizza uno sbirro.
Fatterelli assurdi, lo so. Ma è inevitabile che sia così: non posso ora cogliere il pulviscolo di fatterelli da cui avviare altre riflessioni, meno assurde. Io sono qui, in università, leggo le notizie dell’ultim’ora e sullo schermo del computer mi arrivano solo le sceneggiature – e i disegni della Provvidenza.

François Milieu

Sylvain George – Les èclats (ma gueule, ma révolte, mon nom) (TFF 29)

novembre 27, 2011 § 2 commenti

La traduzione inglese Fragments del titolo Les éclats è senz’altro errata, ma esalta una ricchezza semantica di cui il documentario si Sylvain George si nutre in ogni fotogramma. Il documentario di George non è infatti un’opera cinematografica, ma una successione di fotografie animate, di ritagli di mondo, di cornici per la realtà. Vediamo un frammento luccicante, e perdiamo di vista per un attimo tutto il resto – fino a quando non siamo in grado di far conflagrare tutti questi frammenti, e cogliere il loro valore universale.


Non è un caso, d’altronde, che il film si apra con la citazione di un testo di Auguste Blanqui, L’Eternité par les Astres: l’autore ha in mente Walter Benjamin, per il quale il presente non deve essere compreso come un ordine lineare e progressivo, ma come un’”esperienza originaria” in cui il presente si incontra con il passato in una “costellazione critica” che “fa deflagrare la continuità della storia”. Ecco allora che ogni frammento, ogni astro, ogni storia assume senso nella narrazione solo alla luce della costellazione, della totalità delle storie. Il racconto di un migrante diverrà il racconto di tutti i migranti, il porto di Calais sarà tutti i porti di tutte le partenze per tutte le terribili disavventure dei profughi del terzo mondo.
I frammenti del film sono i ritagli della vita della periferia sociale di Calais: maghrebini, afghani e centroafricani, baraccopoli e incursioni delle forze dell’ordine, i desideri di un tempo migliore e la distruzione nel fuoco delle identità digitali. La storia raccontata da George è quella delle fasce periferiche della popolazione che spingono per entrare a fare parte del Palazzo di Cristallo.
Gli idiomi si parlano uno nell’altro (arabo, francese, inglese) e i corpi sono come trascinati nello spazio: fuga dalle forze dell’ordine, fuga dai paesi in guerra, scontro con le prefetture, ricerca di un luogo in cui vivere. La prima esplosione – l’abbandono della propria terra – non ha ancora estinto le movenze cinetiche dei frammenti umani, e spazzola contropelo il presente per farci assaporare la realtà dal punto di vista obliquo dell’immagine-tempo senza movimento, attraverso lo sguardo statico della presa fissa, semanticamente sinedottica e sintatticamente isolata.
George articola la narrazione con una serie di espedienti formali sperimentalistici, e fa un uso dell’immagine magistrale. La sua è una grande lezione di cinema, ma non una lezione di grande cinema: tutto è girato con una piccola DV e un piedistallo, fisso, a serrare l’immagine fotografica nella sua cornice. L’uso sistematico del jump-cut e del fermo immagine esaltano il rapporto sintagmatico fra i frammenti, separandoli e localizzandoli nell’immagine-tempo del film. Le schermate nere intervengono nella stessa direzione, a separare più grossi éclats e accorpare così i più piccoli in macrosequenze di diapositive animate.
Sono dei microdocumentari fotografici, gli éclats, e si susseguono l’uno dopo l’altro: a fare da sfondo è la giungla urbana, con la natura offesa delle periferie che spinge, come i migranti, per riconquistare il centro. Al centro delle immagini fotografiche di George, invece, è il volto, luogo per eccellenza dell’incontro con l’Altro, perché in ogni diapositiva ci troviamo faccia a faccia con un altro essere umano, e si schiude quel fenomeno privilegiato nel quale la prossimità dell’altra persona e la distanza sono entrambi fortemente sentiti.
Levinasiano fino al midollo, George ci mostra l’alterità attraverso la rivelazione del volto, che ci costringe all’immediato riconoscemento di una compresenza che è anche un’assenza, che è il riconoscimento della nostra responsabilità (come soggetti) della condizione ontologica dell’Altro.Gli éclats di George sono dei concetti-immagine che, a differenza dei concetti filosofici, hanno una dimensione emotiva ed esperienziale; ma che, come i concetti filosofici, possono avere valore di verità e di universalità.
Les éclats sono, sì, i frammenti, ma i frammenti di una esplosione – sono i pezzi ancora in movimento: detriti-durante-la-deflagrazione. Il frammento non è inerte ma vive ancora, è cinetico, e conserva nell’attimo della sua esplosione un’energia dialettica dirompente. Le relazioni fra una sequenza e l’altra – il montaggio di ogni frammento – e i legami fra un fotogramma e l’altro – il montaggio in ogni frammento – assicurano all’opera un’esistenza pulsante ed energetica, mai stabile. Il cinema, ancora una volta, è “un flusso associativo di immagini interrotto dal loro mutare”. Ogni visione del documentario deve tradursi in un’esplosione in scaglie dialettiche, in una rivolta: Ma révolte, Ma gueule, mon nom.

François de La Nuit et Marcel des Vaches Noirs, tradotti da Cristina La Parola

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