TFF – Sarà dedicato a Miguel Gomes l’omaggio della sezione “Onde”

settembre 11, 2012 § Lascia un commento

Riceviamo e pubblichiamo

Sarà il regista portoghese Miguel Gomes il protagonista dell’Omaggio della sezione Onde per la 30ma edizione del Torino Film Festival. Col suo cinema imprevedibile e poetico, questo giovane autore si è imposto ben presto all’attenzione della critica internazionale come una delle personalità più forti e promettenti della recente cinematografia lusitana.

Salutato col suo film più recente, Tabu, come l’autore rivelazione della Berlinale 2012 (dove ha conquistato sia il Premio Alfred Bauer che il Premio FIPRESCI), Miguel Gomes sarà al Torino Film Festival per presentare l’integrale della sua Opera, dai cortometraggi (Entretanto,1999, suo lavoro d’esordio; Inventário de Natal, 2000; Kalkitos, 2002; 31, 2003; Cántico das criaturas, 2006), ai lunghi A cara que mereces (2004), Aquele querido mês de Agosto (2008, che, presentato alla Quinzaine des Réalisateurs di Cannes, lo impose all’attenzione internazionale), sino al  recente Tabu (2012) che sarà  distribuito in Italia da Satine Film – Archibald.

Nato a Lisbona nel 1972, Miguel Gomes studia alla Escola Superior de Teatro e Cinema della sua città e, dopo essersi fatto notare come giovane critico dalle idee molto chiare, si lancia assieme ad alcuni compagni di studi nella realizzazione di un cinema che rientra fermamente nella tradizione cinematografica portoghese, spingendone però con disinvoltura la traccia storica e antropologica in una direzione più libera e imprevedibile.

I suoi film si muovono sul filo di un rapporto surreale con la realtà, dove i protagonisti sono una variabile impazzita tra età adulta e infanzia, la narrazione ondeggia tra documentario e finzione, tableaux vivants e gusto della miniatura, ricerca dell’estetica vintage e rigore pittorico. Dotato di un’ironia naturale e mai esibita, che gli permette di spiazzare ogni possibile aspettativa, Miguel Gomes è di sicuro uno degli autori più sorprendenti e creativi della sua generazione, capace di dialogare con un pubblico insolitamente ampio, sempre catturato dal fascino delle sue opere.

A Ken Loach il Gran Premio Torino della 30^ edizione del TFF

giugno 29, 2012 § Lascia un commento

Ken Loach è il regista a cui è andrà il Gran Premio Torino della 30^ edizione del Torino Film Festival. Ken Loach sarà presente a Torino insieme allo sceneggiatore Paul Laverty per ricevere il premio e per presentare l’anteprima italiana di The Angels’ Share, una commedia su un gruppo di giovani disoccupati di Glasgow che trovano la salvezza e una vita migliore grazie al più puro malto scozzese. Distribuito in Italia da Bim, The Angels’ Share ha vinto il Premio della giuria all’ultimo festival di Cannes.

I Gran Premio Torino è stato istituito a partire dall’edizione del 2009 del TFF. Il riconoscimento viene assegnato ogni anno ai cineasti che, dall’emergere delle nouvelles vagues in poi, hanno contribuito al rinnovamento del linguaggio cinematografico, alla creazione di nuovi modelli estetici, alla diffusione di nuove tendenze contemporanee.

Nel 2011, il premio è stato assegnato a Aki Kaurismäki, per il rigore e la pulizia del suo linguaggio, la sensibilità della sua rappresentazione del mondo contemporaneo, la comprensione e l’ironia con cui si avvicina a un’umanità normale, sempre più sola, confusa e in cerca di rapporti veri.

A presiedere la giuria del Concorso Internazionale Lungometraggi del 30° Torino Film Festival sarà invece Paolo Sorrentino, regista e scrittore, tra i più stimolanti autori italiani contemporanei.

Laurenti – Il Corpo del Duce (TFF 29)

dicembre 3, 2011 § Lascia un commento

All’uscita del cinema, con la testa in sala e l’incazzatura crescente, la prima cosa che colpisce è la dicotomia fra l’attonito silenzio della sala e i campanelli di persone che fuori vociferano e vociferano e vociferano e vociferano.

  • Sporco Fascista torna nella fogna (gridato e ripetuto come sottofondo costante)
  • Sta citu tu hai visto che gli hanno fatto?bravi i tuoi eh!
  • Come hanno fatto a selezionarlo, ma poi a Torino, nella città più antifascista d’Italia.
  • Io mi ricordo quei giorni
  • non avevo mai notato la somiglianza di Mussolini con il protagonista dei Goonies.

 

Tutte queste voci, tutte queste voci nella mia testa mi fanno pensare, se fosse proprio questo il significato? E se il linguaggio, le immagini le esagerazioni fossero tese a Questo?
Uno schiaffo per reagire.
Ecco partirò da questo per l’analisi del Corpo del Duce, e anzi cercherò di essere il più obbiettivo possibile, Io sono di parte e quindi la mia critica sarà opera di parte. Laurenti mi è capitato numerose volte d’incontrarlo in questo festival, mi trovo a scrutarlo dopo le proiezioni con un cappotto troppo grande per la sua esigua figura. Ecco se mi dovessi prefigurare un italiano, un fascista tipo lo immaginerei così, lui è l’emblema lui è il corpo. Il corpo di Mussolini non è il corpo di un adone è un corpo tipo, virile certo ma non eccessivamente, atletico certo ma di quell’atletico propri del popolo. Il corpo del capo è un corpo in carne, quella carne sognata e agognata in un periodo di fame è un corpo che suda, ma è anche un corpo mitico costruito è un corpo che diventa simulacro esso diventa stato e statua.
I morti puzzano si decompongono gonfiano mutano sciolgono seccano accorciano sgretolano perdono rimangono e poi, prima o poi i corpi scompaiono quello che rimane sono le tombe, pallidi ricordi gelati.
Il nazionalsocialismo fu un regime di morte e per la morte, come segni, come richiami come parole fu qualcosa di profondo, d’antico e se mi si concederà il temine, mi scusino gli amici d’oltre il Reno fu un regime profondamente barbaro. Il fascismo fu dalle origini qualcosa di differente,esso fu rancoroso, vitalistico, s’ammantò di quella forza terribile che è la forza del sangue, della vendetta della rabbia cieca degli umili plasmata e fatta maturare in tutte le sue componenti.

.CredereobbedirecombattereCredereobbedirecombattereCredereobbedirecombattereCredereobbedirecombattereCredereobbedirecombattereCredereobbedirecombattereCredereobbedirecombattere.

Il documentario crede in un capo cristo e cesare, dio in terra, obbedisce al corpo e combatte per la sua sopravvivenza, su quel corpo sono fondate tutte le parole che è capace d’esprimere. Ci svela i retroscena è implacabile nel delineare il corso degli eventi, interpreta e reinterpreta la storia è chiaro quando ci fornisce un punto di vista, il punto di vista di sognatori che ancora non riescono a non smettere di pensare che tutto sia perso sia finito, polvere alla polvere. Il suo discorso si fa chiaro, c’incuriosisce, cerca l’effetto cerca la pietà mostrando la fine d’un sogno per alcuni e d’un incubo per altri, non si rassegna alla volubilità del popolo e implacabile lo condanna. Documenta l’esistenza di questi, i riti e i ritmi, ci mostra i feticci, le reliquie, i pellegrinaggi la religione che fa del corpo vittorioso l’oggetto del culto e aspetta la nuova venuta.
Santo Benito da Predappio, concedimi la mano ferma contro i miei nemici, l’occhio vigile e illuminami la strada verso un nuovo futuro attraverso le tue parole. Santo Benito prega per noi.
Più nascondi una cosa più sviluppi un’attrazione fatale verso questa.
Certo il corpo del Duce a Piazza Loreto venne mostrato e rimostrato per dimostrare che tutto era finalmente finito gattopardianamente; le scene note, più a noi che hai nostri padri, fecero presto il giro del mondo, ma proprio la vicenda che ne seguì e il silenzio riportarono in vita quei corpi rendendoli immortali, fino ad ora. Nascosto, trafugato, riesumato, mostrato poi occultato, conteso, diventa mito religione di un mondo in rovina. Quello che il documentario invece ci mostra è qualcosa di nettamente differente, è un corpo morto che non ha più le sembianze e la forza che ostentava con virile maestria prima, non è il corpo eroico del capo popolo è il segno della storia e del tempo. Nel mostrare quelle immagini ricade su se stesso, abbassa a un livello infimo quello che prima era qualcosa di divino, caduto il corpo quello che rimane è operetta, è teatro, grottesche rappresentazioni vuote.
Anche lui finalmente è morto , ne abbiamo le prove, il fascismo vive e non vive nei vecchi canuti nutriti di nostalgia e ricordi, ne nei giovani assetati di sangue con le suonerie d’antan , ma vive nelle persone comuni che non sanno di risentire ancora di vent’anni di fascismo e della sua macchina comunicativa, vive nei poteri forti e nello stato vero corpo del capo, esso vive.
Non è finita a piazza Loreto.
Ma no che non é finita
piazza Loreto
si é vinta una battaglia
ma non la guerra
perché il taglio di una pianta
non é completo
finché le radici restano
sotto terra.

Raz Rubb II

Randall Cole – 388 Arletta Avenue (TFF29)

dicembre 3, 2011 § Lascia un commento

James e Amy conducono una vita normale in un tranquillo quartiere di Toronto, ma  già dalla prima inquadratura sappiamo che le cose sono destinate a cambiare: qualcuno li sta spiando. Randall Cole mette in scena un thriller psicologico tesissimo, noi lo seguiamo svolgersi attraverso le numerose telecamere che uno stalker ha nascosto per tormentare la coppia.
388 Arletta Avenue è la storia di un gatto che gioca col topo: il misterioso maniaco piazza diverse telecamere nell’edificio, quindi s’intrufola in casa loro per vedere come reagiscono ai suoi sadici dispetti. Provocherà prima piccoli e inspiegabili disagi (una sveglia che suona troppo presto, un misterioso disco nella macchina a tutto volume), quindi passerà alle maniere pesanti rapendo la moglie di James, conducendolo pazientemente al crollo nervoso.
Si tratta di un dramma psicologico ben orchestrato: nell’impossibilità di dare un senso agli avvenimenti, e costretti ad interpretazioni paranoidi dell’accaduto, i personaggi si scagliano l’uno contro l’altro.  Cole gioca bene il suo thriller minimalista, ed esplora un territorio di confine dove s’incontrano il thriller, il reality show e il dramma psicologico. Le telecamere nascoste sono al contempo una costrizione e uno stimolo creativo. I grandangoli dei micro-obiettivi, le angolature improbabili delle telecamere nascoste, la sgranatura vintage della vecchia macchina da presa usata dallo stalker e i riflessi delle microcamere incastrate negli schermi del computer: tutte scelte espressive che rendono le immagini estremamente eterogenee, e trasformano il film in un percorso di ricerca formale in un territorio vergine della cinematografia.
Cole si muove sul confine fra fiction e reality-show, ma si allontana da quest’ultimo a sufficienza da tenere vivo il piano della narrazione. Il montaggio serrato, con lo sguardo che si sposta continuamente da una telecamera nascosta all’altra, è la chiave del distacco dal linguaggio dei realities: seguiamo il protagonista in macchina, in ufficio e in casa attraverso prospettive multiple, scivolando dall’una all’altra quasi senza renderci conto che stiamo assistendo alla scena dal punto di vista traballante di chi spia, e non di chi filma su set.
Nel finale, l’anonimo stalker esporta il filmato che abbiamo appena finito di vedere, per riporre il DVD in una vasta collezione. Forse il regista poteva investire di più sull’effetto di realtà, e rielaborare questa scena per convincerci che non abbiamo assistito a uno spettacolo di finzione, ma a dei fatti. C’erano tutte le carte in regola per farlo (ogni singola ripresa viene da una telecamera nascosta, ogni sguardo ha una giustificazione intradiegetica) e in tal modo gli svantaggi del linguaggio formale del reality avrebbero avuto una contropartita in termini di ambiguità veridittiva.
388 Arletta Avenue come thriller non spaventa e come reality non è realistico; forse riesce solo come dramma psicologico, nell’esplorare la paranoia, del cinismo e della disperazione solipsistica. Una narrazione riuscita a metà, ma anche e soprattutto l’esplorazione coraggiosa di un linguaggio cinematografico radicalmente innovativo, di cui probabilmente coglieremo i frutti nel cinema degli anni a venire.

Parenti e D’Ambrosio – Il Castello (TFF29)

dicembre 3, 2011 § Lascia un commento

Il Castello è un’opera di meccanismi e di movimenti. Il meccanismo non ha mai un inizio, perché funziona costante e non può mai arrestarsi. Il movimento inizia sempre, improvviso palpita per un attimo, poi scompare: è intermittente. Ogni giorno, a Malpensa, alcuni movimenti si insinuano nel meccanismo – spesso nessuno li nota.

 

 

Il meccanismo vive di amministrazione burocratica e di leggi internazionali (chi ha il diritto di entrare in Italia e chi no), si ramifica nei controlli (contro la droga, contro il rischio di attentati), si materializza nel dominio fisico della polizia sui viaggianti sospetti e nell’intimidazione psicologica delle perquisizioni. Il meccanismo deve essere impeccabile nella gestione del traffico aereo e deve eliminare tutte le interferenze – come le voci degli uccelli quando scivolano nelle comunicazioni radio.

Il movimento sorge nelle pieghe del meccanismo e nelle sue falle: è la contingenza di un volto, la casualità dischiusa da un’aragosta che si libera dalla scatola dove per ore è rimasta imprigionata, l’imprevisto di un gesto non conforme ai protocolli. Il movimento è la contingenza che trova un varco nella necessità del meccanismo. Il Castello riesce nello stesso tempo a descrivere il meccanismo e a cogliere il movimento.

Come è possibile che il potere si lasci osservare, manifestando le dinamiche profonde che lo costituiscono? Gli autori rispondono che spesso le immagini sfuggono via – proprio attraverso le pieghe dei movimenti – a patto di riuscire a cogliere il loro apparire improvviso. Coglierlo prima che l’aragosta abbassi le chele e la scatola sia di nuovo chiusa. La cattura dell’immagine-movimento richiede una costanza ostinata, ai limiti dell’ascetismo estetico: un anno di lavoro, una pausa di due settimane dedicata al montaggio ogni quindici giorni di riprese. Le illuminazioni immediate diventano opera solo attraverso un costante lavorio di accumulo, levigatura e sottrazione.

Denunciare l’enormità del potere e della sua amministrazione capillare ha sempre un rischio: se hai ragione – se la tua teoria vince – allora hai perso tutto: al controllo non c’è via di fuga, tutto è soffocato. Il Castello evita la totalità e l’assoluto (una vittoria teorica totale che si rovescia in una sconfitta politica altrettanto totale) e va alla riconquista delle fratture, degli spazi vuoti. È vero, il sistema è perfetto, ma non del tutto: forme di resistenza ci sono ancora, e vanno colte.

Una signora vive in aeroporto, come l’edera si abbarbica al luogo. Nel bagno ha collegato un fornello elettrico e nella pentola calda adagia i tranci di pollo su un soffritto di lardo e cipolla. Nei lavandini si taglia i capelli, si fa la tinta. L’utopia si apre quando i luoghi vengono vissuti al di là delle strategie di chi li ha realizzati. Oltre i comportamenti previsti e programmati. La resistenza – in un certo senso – sta nell’usare le cose del mondo in modo imprevedibile. Malgrado tutto, le lacerazioni ci sono anche a Malpensa.

Ricetta per fare un film di Sion Sono (TFF 29)

novembre 30, 2011 § Lascia un commento

 

Ingredienti

– un paio di VHS dei migliori drammi psicologici di Cassavetes
– due DVD dei più estetizzanti barocchismi cromatici di Jodorowski
– Volumi II, III e IV de La Volontà di Potenza di Friedrich Nietzsche
– tabù sessuali infranti
– mutilazioni e suicidi
– giovani donne asiatiche con grosse tette

I VHS di Cassavetes lessateli, spremeteli e passateli dal setaccio. I DVD di Jodorwski scottateli, poi tritateli con la mezzaluna e infine aggiungeteli all’impasto . Prendete uno stampo di rame fatto a forma di bombetta, ungetelo bene con burro e riempitelo prima colle giovani donne asiatiche dalle grosse tette, quindi coi tabù sessuali infranti. Montate a neve le mutilazioni e i suicidi finché non diventano più grosse del resto dell’impasto; aggiungete a tutto il resto e fate restringere nella forma, a bagno maria. Sfornate caldo e riempitelo nel mezzo con un intingolo di Volumi di Nietzsche, facendo in modo che riesca piccante, e vedrete che questo piatto farà bellissima figura con gli intellettuali e sarà lodato.

Pellegrino Artusi

Gareth Evans – Serbian Maut, The Raid (TFF 29)

novembre 30, 2011 § 2 commenti

Stasera (martedì 29 novembre) Gianni Amelio ha presentato Serbian Maut, The Raid, di Gareth Evans, regista gallese naturalizzato indonesiano. Davanti al pubblico del Reposi, ha sciorinato le proprie opinioni sul film.

Primo: si tratta di un film che non dovrebbe assolutamente essere in concorso. “Non sono per nulla d’accordo riguardo alla candidatura di questo film al mio Festival”, dichiara il direttore. Pensavamo li scegliessi tu i film, rispondono sottovoce dalla platea. Ma Amelio non ha ancora finito.
Secondo: “Quello di Evans è un film di genere, e i film di genere o si fanno bene o si fanno male”. Perentorio, il Gianni, ci sorprende ancora: lo lasciamo continuare.
Terzo: “Nel film non vi è esaltazione della violenza: si tratta di un film purissimo, dove il sangue che scorre a fiumi non è affatto esaltato come tale. Vi accorgerete di quanto candida sia la regia di Evans”.
Prendiamo le parole del direttore del festival come spunto per l’analisi del film; lascerò la prima affermazione, che è decisiva, per ultima.
Il film di Evans è, indubbiamente, un ottimo film di genere. Si tratta di un film low-budget che riesce a coordinare benissimo i pochi elementi in gioco (poliziotti iperaddestrati, incastrati in un vecchio edificio che pullula di esaltati esperti di arti marziali). Il ritmo serratissimo, i calci, i pugni, le esplosioni e qualche pacchianata splatter: Evans lavora bene e riproduce in minatura tutti i clichées del cinema nipponico e americano.
Essendo un buon film d’azione, The Raid non può non lavorare sull’estetizzazione della violenza. Amelio parla di purezza, ma nel film non c’è niente di puro: assistiamo a una pellicola torbidissima, violenta all’estremo, con la telecamera che indugia sui particolari – le strisce di sangue, un tizio decapitato da una porta, i pezzi di cervello spalmati sul muro.
Quella di Amelio sulla purezza del film è una bugia diplomatica, che ben presto si trasforma in una barzelletta: alle prime frasi esaltate dei supermilitari, in platea si ridacchia, e quando si arriva alle prime boiate splatter il pubblico non tiene più le risa, e applaude non senza una vena di sarcasmo.
Resta da svolgere la prima delle affermazioni di Amelio: il film non era da candidare. Su questo il nostro regista ha perfettamente ragione: non solo il film non rappresenta nessuno di quegli “apporti innovativi del cinema indipendente” che il TFF dovrebbe premiare, ma non è assolutamente adatto alla maggioranza del pubblico di cinefili del Festival, che difatti si diverte, ma perché trova la pellicola ridicola.
Il film di Evans, inoltre, è di una piattezza disarmante, non un’occasione è colta per lasciare un messaggio, tracciare un percorso di significato. Le uniche morali della pellicola (l’amore fraterno è più forte delle contrapposizioni sociali, la polizia è corrotta e ingiusta quanto i criminali) sono delle tautologie così totalizzanti da denunciare la propria superficialità. Chi ha fatto pressione, allora, per far entrare un film come The Raid in concorso? La risposta ce la dà sempre il buon Amelio: “Salutate Jacono, il distributore italiano del film. Un applauso, perfavore”.
Clap.
Clap.
Clap.

Benning – Twenty Cigarettes (TFF29)

novembre 30, 2011 § Lascia un commento

Mi siedo, sono comodo sulla mia poltrona di velluto blu, non sono allo Slow Club ma quasi, mi preparo scambiando qualche battuta arguta con i miei vicini, guardo la sala per farmi una mappatura mentale, signore calvo, donna grassa, ragazza piacente, persone che non voglio salutare, maschere, mica male le maschere di questo cinema, guardo più volte il telefono più per vizio che per vezzo, ecco le luci si abbassano, questo sarà il mio film rivelazione quest’anno, alla faccia di Francis, con un titolo e un cappello così come può non esserlo, ultimo saluto con la coda dell’occhio alla maschera, mangio delle noccioline portate da casa, silenzio nella mia testa.

primasigaretta
ok, potrebbe essere geniale come non esserlo, dai dai dai che Benning ti stupirà, dai dai dai mi muovo dalla sedia cercando una nuova posizione comoda, chissà se dopo riuscirò a cenare,

secondasigaretta
ok uguale alla prima, ok smorfie, linguaggio del corpo, ok citazioni colte, ok chi non ama Andy, ok i più deboli iniziano ad uscire, ok,

terzasigaretta
trovo più emozionante fissare l’omino dell’uscita di sicurezza che fissare lo schermo, le battute argute non sono nemmeno più sussurrate,

quartasigaretta
la metà dei partecipanti escono, alcuni vanno in bagno, rifare l’ avanguardia è essere conservatori, basta trito e ritrito, non è sperimentalismo è un pavoneggiamento inutile ammantato da qualche studio sul linguaggio del corpo,

quintasigaretta
vanità dlle vanità tutto è vanità, tre quarti delle persone sono uscite, ancora una sigaretta, diamogli l’ultima sigaretta

sestasigaretta
ok alla sigaretta, noia noia, la gente si tiene la sedia stretta, magari potrei dormire per non uscire,

settimasigaretta
sono deciso, esco, usciamo in tanti, anche le maschere ridono, ora uscendo fumerò o non fumerò

ottavasigaretta
venti persone ancora in sala, dieci guardano, due amoreggiano, una si gira una sigaretta, tre rispondono al cellulare, quattro dormono. Credo che mi farò raccontare il seguito.
 

Durata totale novanta minuti
durata personale venti minuti
una sigaretta fumata all’uscita
10  persone disperate trovate nei bagni il giorno dopo
 

Benning, caro ragazzo hai studiato bene,
ma non è abbastanza, non lo è affatto
applicati di più la prossima volta.

Vergiss dein Ende (Way Home) – A. Kannegiesser (TFF 29)

novembre 30, 2011 § Lascia un commento

Vergiss dein Ende ha un Mondo, un’Isola dei Morti e un Istituto di Igiene. Nel Mondo le persone nascono e crescono, si incontrano e magari mettono su famiglia: trovano la via di casa. Nel Mondo gli anni si aggiungono uno sull’altro e appesantiscono le spalle dei suoi abitanti; quando le persone invecchiano la vita è sempre più irta di ostacoli e sofferenze. La strada più facile per uscire dal Mondo conduce all’Istituto di Igiene: i capelli bianchi e la pensione spalancano le sue porte e l’Istituto attende i pazienti fra bianche pareti, in letti morbidi e in cortili senza rumori. L’Istituto ha un perimetro da cui non si può uscire – se non per morire.

Qualche anziano si accorge di non essere più adatto al Mondo – perché non fa più bene l’amore, perché non ha più un compagno, perché gli mancano le energie – e sente che forse è giunto il momento di uscire di scena. Qualche anziano, però, ha una santa paura dell’Istituto e per nessuna ragione entrerebbe in quel grande edificio dove tutti i pavimenti sono lucidi. Per i vecchi amanti della libertà esiste l’Isola dei Morti, un brandello di terra in mezzo al mare: l’uomo del traghetto parte ogni giorno. Sull’Isola dei Morti ci vai per suicidarti, oppure per scoprire di poter ancora affrontare il Mondo e spostare la fine un poco più in là.

Hannelore è donna ormai anziana, costretta ad occuparsi del marito Klaus malato di Alzheimer. Il loro figlio vorrebbe mandare il vecchio nell’Istituto ma Hannelore si oppone e ogni giorno lava e nutre Klaus: lo tiene al Mondo. All’imporvviso la donna non si sente più in grado di reggere la quotidianità soffocante e scappa con Gunther, il vicino, sull’Isola dei Morti. Klaus finisce nell’Istituto (ha il suo letto, la sua camera bianca) mentre Gunther ed Hannelore provano a farla finita sull’isola al di là del mare, dove la pace della natura accompagna la fine della percezione. I due si renderanno conto di non essere ancora pronti per la morte: un gruppo di uomini del Mondo li recuperano su una barca di salvataggio.

Il titolo del film suona, in italiano: dimentica la tua fine. Klaus l’ha dimenticata, insieme a tutto il resto – non riconosce nemmeno Hannelore – e quando la moglie gli propone di fuggire dall’Istituto Igienico lui non sembra volere olterpassare i confini: senza memoria si vive bene fra pareti bianche. Gli abitanti degli Istituti – lo ricorda sempre l’ingegnere Kastorp – hanno sempre un rapporto sfasato con il tempo del Mondo.

Vergiss dein Ende mi è sembrato finora il migliore della rassegna. Un sapiente uso del colore delle immagini e un accurato lavoro sui tempi delle vite (anche nel Mondo il tempo non è così lineare) permettono alla pellicola di non scadere mai nella retorica e Kannegiesser dimostra di essere un regista marittimo, in grado di cogliere la realtà che oscilla fra le coste del Mondo e le Isole fuori da esso.

Farid al-Migliani

Woody Allen – Midnight in Paris (TFF29)

novembre 29, 2011 § 4 commenti

A Woody.

Dove sei finito Woody?

O Woody mio Woody, maestro di parola, ispirazione per molti, fonte di luce divina, sperma dello sperma d’ogni rabbino d’ America.
Oh Woody dalle fluente chioma e dallo sguardo perso e scanzonato;
Woody che ha fatto l’amore, piccolo topino circonciso, con ogni donna d’ogni latitudine; rachitico adone ti prego torna.

(anonima poesia trovata dalla maschera Giuseppina Khoo lavoratrice Rear del Reposi e gentilmente donatami alla fine della proiezione.)

Partirò da questo urlo d’amore disperato, capitato nelle mie mani più per caso che per desio, affronto l’ultimo lavoro del nostro. Certamente l’ Allen di questo lungometraggio, converranno appassionati, critici e acritici, non è l’Allen d’oro, genio vulcanico e inaspettato, ma è ormai un Allen-altro, meno straordinario e più ordinario. Con questo voglio marcare nettamente la distinzione fra pre e post, in modo da dividere e scindere i personaggi in entità differenti per poter affrontare il film con spirito non appesantito dai ricordi terribili del tempo che ormai non è più.
Quindi miei prodi sono lieto di presentarvi un giovane autore che ho avuto l’ onore d’intervistare in merito al suo Ultimo film presentato in concorso al Torino film festival, il giovane Allen-altro.

– Buongiorno Signor Allen-altro e grazie d’esser venuto appositamente a farsi intervistare dal paese di Città Laggù.
– Buona sera vorrà dire;è un piacere essere intervistato da un importante giornale come il vostro, devo anche rivelarvi che da dopo l’ operazione è la prima intervista che rilascio.
– Operazione?
– Si finalmente quest’anno ho preso la decisone definitiva e ho capito che per lavorare al mio film..
– Midnight in Paris?
– Si si proprio Midnigt in Paris, dovevo farlo, eliminare quella parte di me, ormai era solamente ingombrante e inutile; ovunque andassi la gente continuava a dire “Buongiorno Signor Allen quand’è che farà un film come Zelig?” oppure “o Woody, finalmente questo nuovo film magnifico!”, capisce anche lei che non potevo più andar avanti così, ero distrutto, diviso, parcellizzato, con un ospite ingombrante dentro di me, io.
– E allora, ci dica che ha fatto?
– Ho fatto quello che ogni persona malata avrebbe fatto, sono andato in clinica e ho profumatamente chiesto che mi venisse asportato.
– Asportato cosa?
– Aspetti aspetti che arrivo;i dottori erano scettici ma entrambi noi eravamo d’ accordo non potevamo più coesistere pacificamente, quello che è stato e potrebbe essere, il vecchio Woody, e questo nuovo, non erano fatti per coabitare lo stesso corpo e nome. Certo avevamo paura ma già altri lo avevano fatto prima di noi.
– Altri chi?
– Mi spiace ma questo non posso dirlo, la scissione è qualcosa di molto intimo e alcuni se ne vergognano oppure se ne pentono, ma tornare indietro è impossibile.
– Allora la prego, riprendiamo da dove eravamo rimasti, stava parlando dell’operazione.
– Si l’operazione lunga e dolorosa i nostri corpi vennero divisi in due metà speculari, una Woddy fiera nel suo antico retaggio ma bloccata e paurosa e io, L’ Allen altro prolifico e fine paroliere ma senza la ricerca stressante e spossante che prima mi contrastingueva.
– Ci parli di cosa è cambiato in lei
– Ora ad esempio nella creazione di questo film, mi sono principalmente basato sui gusti del mio pubblico abituale e non su me stesso, ad esempio ho rielaborato l’ idea originaria avuta da Woddy ma tarandola sul pubblico medio dei giorni nostri, è mestiere non arte, l’ esperienza mi fa dire ” Questo li farà ridere”, ” questo no”. So benissimo, e lo sanno anche loro, lo sapete anche voi, che il pubblico vuole una cosa sola ridere ma il mio pubblico ne vuole una in più far finta di pensare, avere la percezione d’ intelligenza.
– Ma lei è felice? il suo altro che ne pensa?
– Felicità, cosa è la felicità, con un film all’anno e milioni di dollari cosa vuole che sia la felicità? Ora sono più felice, ho finalmente rivelato al mondo l’ altro me stesso, non devo più nascondermi, la gente che si aspettava altro da me, di più, di ragionare, ridere consapevolmente, non lo farà e io sarò finalmente libero da quel terribile complesso d’inferiorità che provavo verso me stesso.
– Collaborerà ancora in futuro con Woody?
– Devo dire che anche in questo film, per alcune battute s’ intende mi sono avvalso del suo prezioso aiuto. Io non avrei mai pensato a dei rinoceronti.
-La ringraziamo e siamo felici che sia venuto e la salutiamo augurandole salute e prosperità per i suoi futuri film.
– Grazie a voi e buona visione.

Le parole di Allen-altro ci lasciano soli e pensosi, molte sono le domande che ci poniamo, sarà vero? sarà l’ennesimo scherzo?cosa farà in futuro? e Woody altro? Per ora non ci sono risposte ma solo mille porte che si aprono e mille specchi che si riflettono incessanti. Una cosa si può ancora dire di questo film è un muffin sgonfiato tolto troppo precocemente dal frigo. Un’atto d’amore verso una città e il suo spirito, ma a parer nostro più che amore sa di onanismo, dell’ottimo onanismo.

Raz – Rub II

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