Laurenti – Il Corpo del Duce (TFF 29)

dicembre 3, 2011 § Lascia un commento

All’uscita del cinema, con la testa in sala e l’incazzatura crescente, la prima cosa che colpisce è la dicotomia fra l’attonito silenzio della sala e i campanelli di persone che fuori vociferano e vociferano e vociferano e vociferano.

  • Sporco Fascista torna nella fogna (gridato e ripetuto come sottofondo costante)
  • Sta citu tu hai visto che gli hanno fatto?bravi i tuoi eh!
  • Come hanno fatto a selezionarlo, ma poi a Torino, nella città più antifascista d’Italia.
  • Io mi ricordo quei giorni
  • non avevo mai notato la somiglianza di Mussolini con il protagonista dei Goonies.

 

Tutte queste voci, tutte queste voci nella mia testa mi fanno pensare, se fosse proprio questo il significato? E se il linguaggio, le immagini le esagerazioni fossero tese a Questo?
Uno schiaffo per reagire.
Ecco partirò da questo per l’analisi del Corpo del Duce, e anzi cercherò di essere il più obbiettivo possibile, Io sono di parte e quindi la mia critica sarà opera di parte. Laurenti mi è capitato numerose volte d’incontrarlo in questo festival, mi trovo a scrutarlo dopo le proiezioni con un cappotto troppo grande per la sua esigua figura. Ecco se mi dovessi prefigurare un italiano, un fascista tipo lo immaginerei così, lui è l’emblema lui è il corpo. Il corpo di Mussolini non è il corpo di un adone è un corpo tipo, virile certo ma non eccessivamente, atletico certo ma di quell’atletico propri del popolo. Il corpo del capo è un corpo in carne, quella carne sognata e agognata in un periodo di fame è un corpo che suda, ma è anche un corpo mitico costruito è un corpo che diventa simulacro esso diventa stato e statua.
I morti puzzano si decompongono gonfiano mutano sciolgono seccano accorciano sgretolano perdono rimangono e poi, prima o poi i corpi scompaiono quello che rimane sono le tombe, pallidi ricordi gelati.
Il nazionalsocialismo fu un regime di morte e per la morte, come segni, come richiami come parole fu qualcosa di profondo, d’antico e se mi si concederà il temine, mi scusino gli amici d’oltre il Reno fu un regime profondamente barbaro. Il fascismo fu dalle origini qualcosa di differente,esso fu rancoroso, vitalistico, s’ammantò di quella forza terribile che è la forza del sangue, della vendetta della rabbia cieca degli umili plasmata e fatta maturare in tutte le sue componenti.

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Il documentario crede in un capo cristo e cesare, dio in terra, obbedisce al corpo e combatte per la sua sopravvivenza, su quel corpo sono fondate tutte le parole che è capace d’esprimere. Ci svela i retroscena è implacabile nel delineare il corso degli eventi, interpreta e reinterpreta la storia è chiaro quando ci fornisce un punto di vista, il punto di vista di sognatori che ancora non riescono a non smettere di pensare che tutto sia perso sia finito, polvere alla polvere. Il suo discorso si fa chiaro, c’incuriosisce, cerca l’effetto cerca la pietà mostrando la fine d’un sogno per alcuni e d’un incubo per altri, non si rassegna alla volubilità del popolo e implacabile lo condanna. Documenta l’esistenza di questi, i riti e i ritmi, ci mostra i feticci, le reliquie, i pellegrinaggi la religione che fa del corpo vittorioso l’oggetto del culto e aspetta la nuova venuta.
Santo Benito da Predappio, concedimi la mano ferma contro i miei nemici, l’occhio vigile e illuminami la strada verso un nuovo futuro attraverso le tue parole. Santo Benito prega per noi.
Più nascondi una cosa più sviluppi un’attrazione fatale verso questa.
Certo il corpo del Duce a Piazza Loreto venne mostrato e rimostrato per dimostrare che tutto era finalmente finito gattopardianamente; le scene note, più a noi che hai nostri padri, fecero presto il giro del mondo, ma proprio la vicenda che ne seguì e il silenzio riportarono in vita quei corpi rendendoli immortali, fino ad ora. Nascosto, trafugato, riesumato, mostrato poi occultato, conteso, diventa mito religione di un mondo in rovina. Quello che il documentario invece ci mostra è qualcosa di nettamente differente, è un corpo morto che non ha più le sembianze e la forza che ostentava con virile maestria prima, non è il corpo eroico del capo popolo è il segno della storia e del tempo. Nel mostrare quelle immagini ricade su se stesso, abbassa a un livello infimo quello che prima era qualcosa di divino, caduto il corpo quello che rimane è operetta, è teatro, grottesche rappresentazioni vuote.
Anche lui finalmente è morto , ne abbiamo le prove, il fascismo vive e non vive nei vecchi canuti nutriti di nostalgia e ricordi, ne nei giovani assetati di sangue con le suonerie d’antan , ma vive nelle persone comuni che non sanno di risentire ancora di vent’anni di fascismo e della sua macchina comunicativa, vive nei poteri forti e nello stato vero corpo del capo, esso vive.
Non è finita a piazza Loreto.
Ma no che non é finita
piazza Loreto
si é vinta una battaglia
ma non la guerra
perché il taglio di una pianta
non é completo
finché le radici restano
sotto terra.

Raz Rubb II

Randall Cole – 388 Arletta Avenue (TFF29)

dicembre 3, 2011 § Lascia un commento

James e Amy conducono una vita normale in un tranquillo quartiere di Toronto, ma  già dalla prima inquadratura sappiamo che le cose sono destinate a cambiare: qualcuno li sta spiando. Randall Cole mette in scena un thriller psicologico tesissimo, noi lo seguiamo svolgersi attraverso le numerose telecamere che uno stalker ha nascosto per tormentare la coppia.
388 Arletta Avenue è la storia di un gatto che gioca col topo: il misterioso maniaco piazza diverse telecamere nell’edificio, quindi s’intrufola in casa loro per vedere come reagiscono ai suoi sadici dispetti. Provocherà prima piccoli e inspiegabili disagi (una sveglia che suona troppo presto, un misterioso disco nella macchina a tutto volume), quindi passerà alle maniere pesanti rapendo la moglie di James, conducendolo pazientemente al crollo nervoso.
Si tratta di un dramma psicologico ben orchestrato: nell’impossibilità di dare un senso agli avvenimenti, e costretti ad interpretazioni paranoidi dell’accaduto, i personaggi si scagliano l’uno contro l’altro.  Cole gioca bene il suo thriller minimalista, ed esplora un territorio di confine dove s’incontrano il thriller, il reality show e il dramma psicologico. Le telecamere nascoste sono al contempo una costrizione e uno stimolo creativo. I grandangoli dei micro-obiettivi, le angolature improbabili delle telecamere nascoste, la sgranatura vintage della vecchia macchina da presa usata dallo stalker e i riflessi delle microcamere incastrate negli schermi del computer: tutte scelte espressive che rendono le immagini estremamente eterogenee, e trasformano il film in un percorso di ricerca formale in un territorio vergine della cinematografia.
Cole si muove sul confine fra fiction e reality-show, ma si allontana da quest’ultimo a sufficienza da tenere vivo il piano della narrazione. Il montaggio serrato, con lo sguardo che si sposta continuamente da una telecamera nascosta all’altra, è la chiave del distacco dal linguaggio dei realities: seguiamo il protagonista in macchina, in ufficio e in casa attraverso prospettive multiple, scivolando dall’una all’altra quasi senza renderci conto che stiamo assistendo alla scena dal punto di vista traballante di chi spia, e non di chi filma su set.
Nel finale, l’anonimo stalker esporta il filmato che abbiamo appena finito di vedere, per riporre il DVD in una vasta collezione. Forse il regista poteva investire di più sull’effetto di realtà, e rielaborare questa scena per convincerci che non abbiamo assistito a uno spettacolo di finzione, ma a dei fatti. C’erano tutte le carte in regola per farlo (ogni singola ripresa viene da una telecamera nascosta, ogni sguardo ha una giustificazione intradiegetica) e in tal modo gli svantaggi del linguaggio formale del reality avrebbero avuto una contropartita in termini di ambiguità veridittiva.
388 Arletta Avenue come thriller non spaventa e come reality non è realistico; forse riesce solo come dramma psicologico, nell’esplorare la paranoia, del cinismo e della disperazione solipsistica. Una narrazione riuscita a metà, ma anche e soprattutto l’esplorazione coraggiosa di un linguaggio cinematografico radicalmente innovativo, di cui probabilmente coglieremo i frutti nel cinema degli anni a venire.

Parenti e D’Ambrosio – Il Castello (TFF29)

dicembre 3, 2011 § Lascia un commento

Il Castello è un’opera di meccanismi e di movimenti. Il meccanismo non ha mai un inizio, perché funziona costante e non può mai arrestarsi. Il movimento inizia sempre, improvviso palpita per un attimo, poi scompare: è intermittente. Ogni giorno, a Malpensa, alcuni movimenti si insinuano nel meccanismo – spesso nessuno li nota.

 

 

Il meccanismo vive di amministrazione burocratica e di leggi internazionali (chi ha il diritto di entrare in Italia e chi no), si ramifica nei controlli (contro la droga, contro il rischio di attentati), si materializza nel dominio fisico della polizia sui viaggianti sospetti e nell’intimidazione psicologica delle perquisizioni. Il meccanismo deve essere impeccabile nella gestione del traffico aereo e deve eliminare tutte le interferenze – come le voci degli uccelli quando scivolano nelle comunicazioni radio.

Il movimento sorge nelle pieghe del meccanismo e nelle sue falle: è la contingenza di un volto, la casualità dischiusa da un’aragosta che si libera dalla scatola dove per ore è rimasta imprigionata, l’imprevisto di un gesto non conforme ai protocolli. Il movimento è la contingenza che trova un varco nella necessità del meccanismo. Il Castello riesce nello stesso tempo a descrivere il meccanismo e a cogliere il movimento.

Come è possibile che il potere si lasci osservare, manifestando le dinamiche profonde che lo costituiscono? Gli autori rispondono che spesso le immagini sfuggono via – proprio attraverso le pieghe dei movimenti – a patto di riuscire a cogliere il loro apparire improvviso. Coglierlo prima che l’aragosta abbassi le chele e la scatola sia di nuovo chiusa. La cattura dell’immagine-movimento richiede una costanza ostinata, ai limiti dell’ascetismo estetico: un anno di lavoro, una pausa di due settimane dedicata al montaggio ogni quindici giorni di riprese. Le illuminazioni immediate diventano opera solo attraverso un costante lavorio di accumulo, levigatura e sottrazione.

Denunciare l’enormità del potere e della sua amministrazione capillare ha sempre un rischio: se hai ragione – se la tua teoria vince – allora hai perso tutto: al controllo non c’è via di fuga, tutto è soffocato. Il Castello evita la totalità e l’assoluto (una vittoria teorica totale che si rovescia in una sconfitta politica altrettanto totale) e va alla riconquista delle fratture, degli spazi vuoti. È vero, il sistema è perfetto, ma non del tutto: forme di resistenza ci sono ancora, e vanno colte.

Una signora vive in aeroporto, come l’edera si abbarbica al luogo. Nel bagno ha collegato un fornello elettrico e nella pentola calda adagia i tranci di pollo su un soffritto di lardo e cipolla. Nei lavandini si taglia i capelli, si fa la tinta. L’utopia si apre quando i luoghi vengono vissuti al di là delle strategie di chi li ha realizzati. Oltre i comportamenti previsti e programmati. La resistenza – in un certo senso – sta nell’usare le cose del mondo in modo imprevedibile. Malgrado tutto, le lacerazioni ci sono anche a Malpensa.

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