TFF – Sarà dedicato a Miguel Gomes l’omaggio della sezione “Onde”

settembre 11, 2012 § Lascia un commento

Riceviamo e pubblichiamo

Sarà il regista portoghese Miguel Gomes il protagonista dell’Omaggio della sezione Onde per la 30ma edizione del Torino Film Festival. Col suo cinema imprevedibile e poetico, questo giovane autore si è imposto ben presto all’attenzione della critica internazionale come una delle personalità più forti e promettenti della recente cinematografia lusitana.

Salutato col suo film più recente, Tabu, come l’autore rivelazione della Berlinale 2012 (dove ha conquistato sia il Premio Alfred Bauer che il Premio FIPRESCI), Miguel Gomes sarà al Torino Film Festival per presentare l’integrale della sua Opera, dai cortometraggi (Entretanto,1999, suo lavoro d’esordio; Inventário de Natal, 2000; Kalkitos, 2002; 31, 2003; Cántico das criaturas, 2006), ai lunghi A cara que mereces (2004), Aquele querido mês de Agosto (2008, che, presentato alla Quinzaine des Réalisateurs di Cannes, lo impose all’attenzione internazionale), sino al  recente Tabu (2012) che sarà  distribuito in Italia da Satine Film – Archibald.

Nato a Lisbona nel 1972, Miguel Gomes studia alla Escola Superior de Teatro e Cinema della sua città e, dopo essersi fatto notare come giovane critico dalle idee molto chiare, si lancia assieme ad alcuni compagni di studi nella realizzazione di un cinema che rientra fermamente nella tradizione cinematografica portoghese, spingendone però con disinvoltura la traccia storica e antropologica in una direzione più libera e imprevedibile.

I suoi film si muovono sul filo di un rapporto surreale con la realtà, dove i protagonisti sono una variabile impazzita tra età adulta e infanzia, la narrazione ondeggia tra documentario e finzione, tableaux vivants e gusto della miniatura, ricerca dell’estetica vintage e rigore pittorico. Dotato di un’ironia naturale e mai esibita, che gli permette di spiazzare ogni possibile aspettativa, Miguel Gomes è di sicuro uno degli autori più sorprendenti e creativi della sua generazione, capace di dialogare con un pubblico insolitamente ampio, sempre catturato dal fascino delle sue opere.

A Ken Loach il Gran Premio Torino della 30^ edizione del TFF

giugno 29, 2012 § Lascia un commento

Ken Loach è il regista a cui è andrà il Gran Premio Torino della 30^ edizione del Torino Film Festival. Ken Loach sarà presente a Torino insieme allo sceneggiatore Paul Laverty per ricevere il premio e per presentare l’anteprima italiana di The Angels’ Share, una commedia su un gruppo di giovani disoccupati di Glasgow che trovano la salvezza e una vita migliore grazie al più puro malto scozzese. Distribuito in Italia da Bim, The Angels’ Share ha vinto il Premio della giuria all’ultimo festival di Cannes.

I Gran Premio Torino è stato istituito a partire dall’edizione del 2009 del TFF. Il riconoscimento viene assegnato ogni anno ai cineasti che, dall’emergere delle nouvelles vagues in poi, hanno contribuito al rinnovamento del linguaggio cinematografico, alla creazione di nuovi modelli estetici, alla diffusione di nuove tendenze contemporanee.

Nel 2011, il premio è stato assegnato a Aki Kaurismäki, per il rigore e la pulizia del suo linguaggio, la sensibilità della sua rappresentazione del mondo contemporaneo, la comprensione e l’ironia con cui si avvicina a un’umanità normale, sempre più sola, confusa e in cerca di rapporti veri.

A presiedere la giuria del Concorso Internazionale Lungometraggi del 30° Torino Film Festival sarà invece Paolo Sorrentino, regista e scrittore, tra i più stimolanti autori italiani contemporanei.

Della Violenza: “Diaz – Don’t clean up this blood”

Maggio 21, 2012 § 7 commenti

Recensione hegeliana in tre atti

Il cavallo di Troia

Diaz- Don’t clean up this blood, è uno dei film più discussi del momento. È perciò inutile ricordare l’importanza che una pellicola del genere riveste nel panorama culturale italiano, a livello di memoria storica. Il regista, Vicari, ha senza dubbio prodotto un’ottima pellicola, esplorando sapientemente il confine fra testimonianza storica e finzione. Ci ha regalato un film al contempo fruibile e struggente, che è insieme una rievocazione fedele e un pugno dritto allo stomaco dello spettatore – per non dimenticare. Le scene di violenza sono girate come nel migliore dei film d’azione, e dalle sale siamo usciti commossi, afflitti. Vicari ha accontentato tutti: Diaz offre suspense e denuncia politica, love stories e azione, ragazzine in deshabillé e crani fracassati, e catapulta lo spettatore indietro fino ai fatti del G8, rievocando le ragioni degli indignati. Un cocktail perfetto.
Fin dal principio del film, però, dalla mia poltroncina in fintapelle ho subodorato che qualcosa non andava. È cominciato tutto con un fastidio impercettibile, un prurito fastidioso e indistinto. Cos’era? Forse che, banalmente, mi indispettiva la spettacolarizzazione dei fatti del G8? No, non era quello. Certo, in Diaz la narrazione è affrontata utilizzando gli stessi canoni cinematografici del cinema di mercato capitalista, ovvero quel cinema che promuove da sempre l’ideologia borghese contro cui stava combattendo chi si era rifugiato alla Diaz. Ma la causa del mio attacco pruriginoso non era la patina di plastica e di inautenticità simulacrale che avvolgeva le immagini.
Riflettendoci durante la proiezione ho ritenuto, al contrario, di considerare tale specificità un pregio. Si tratta, verosimilmente, di un mezzo astuto per raggiungere il grande pubblico, e diffondere su larga scala la memoria storica dei fatti del G8. La copertina patinata e la sfavillanza hollywoodiana assurgono in Diaz al ruolo del moderno cavallo di Troia, sono uno strumento resistenza contro l’esecrabile silenzio dei media durante questi anni.
Se una valutazione del genere può sembrare inusitata, è per via di una fallacia tipica della critica cinematografica, che portiamo tutti nel cuore: l’idea è che il cinema di denuncia non può criticare la società senza criticare i linguaggi con cui la società stessa si descrive e si promuove. Secondo gli intellettuali e i grandi esperti di cinema, non si può spettacolarizzare la critica della società dello spettacolo, perché si cadrebbe in contraddizione, perché sarebbe ipocrita. Ma i risultati di questo approccio sono tristemente noti: decenni e decenni di cinema di denuncia inintelligibile al grande pubblico. Oggi qualcosa è cambiato. Ma se è vero che siamo al tramonto dell’epoca del cripticismo e dell’avanguardismo gratuito, allora è proprio Diaz il film paradigmatico che leva il sipario della nuova era, l’era di un nuovo cinema italiano, all’insegna di uno stile narrativo più democratico – più vicino al telefilm che al cinema d’essai: un cinema costellato di ossa rotte, fichette in tiro e ralenti commoventi.

La sindrome di Pontecorvo

   

Dopo un primo tentativo di riscattare Diaz, ho prestamente cambiato idea. Non ci si può autoingannare per più di dieci minuti, guardando un film del genere – il prurito resta, insistente. Certo, bisogna ammettere (contro la vulgata) che sulla spettacolarizzazione cinematografica della violenza si può chiudere un occhio. È vero, la sequenza dei pestaggi all’interno della Diaz e quella delle violenze nella caserma di Bolzaneto sono crude, pornografiche. Ma un po’ di sangue e una decina di minuti di manganellate col “tonfo” erano inevitabili: è la Storia.
Ciò che non convince in Diaz, piuttosto, sono gli espedienti retorici, la violenza espressiva e il patetismo con cui si incorniciano gli eventi del G8 in una prospettiva sommaria e monolitica. È vero, talvolta si apre uno spiraglio per il confronto dialettico: lo sguardo si sposta dietro gli scudi degli sbirri, o si insinua nelle caserme, per scoprire i timori dei responsabili del blitz: “Fate come volete”, dice uno di loro, “Ma io i miei non li tengo più”. Un tipo responsabile, ci diciamo, e lungimirante: non erano tutti cattivi, allora. Tuttavia, salvo questi brevi barlumi di polifonia Diaz è un film dove suona un solo strumento: un lungo a solo di indignata compassione – Vicari, in breve, se la suona e se la canta.
È per questo che uscito dalla sala ho ripensato al noto e citassimo articolo di Jacques Rivette, uscito sulle pagine dei Cahiers du Cinéma sotto il titolo “De l’abjection”. Chi lo conosce ricorderà che vi si denunciava l’eccesso di forza espressiva di una carrellata del film Kapò di Gillo Pontecorvo: l’inquadratura incriminata dipinge il suicidio di una prigioniera di un campo di concentramento nazista. L’articolo recitava più o meno così:

Vedete dunque in Kapò il piano dove Riva si suicida, gettandosi contro il filo elettrificato: l’uomo che decide, in quel momento, di fare un carrello avanti per inquadrare il cadavere dal basso verso l’alto, avendo cura di inserire la mano rimasta in alto esattamente in un angolo dell’inquadratura, quest’uomo non ha diritto che al più profondo disprezzo.

Un simile e legittimo disprezzo lo si prova, in Diaz, in più occasioni: nel vedere uscire dalla scuola i corpi macellati, fasciati dentro le barelle e cullati dalle note commoventi del violino di Balanescu. Lo si prova sul primo piano della bellissima Alma che, reduce dei pestaggi della caserma, si presenta sdentata, denutrita, umiliata, col culo sporco di merda, ma nonostante tutto truccatissima e stupenda, i capelli che ondeggiano nel vento accompagnati dal suono languido del pianoforte.
Simili inquadrature, oltre a sfiorare il patetismo più aberrante, suscitano a tutti gli effetti “il più profondo disprezzo” di cui parla Rivette.

Il gioco della bottiglia

Sia lode al dubbio!
Vi consiglio, salutate 
serenamente e con rispetto
chi 
come moneta infida pesa la vostra parola!
Vorrei che foste accorti,
che non deste 
con troppa fiducia la vostra parola.

Ho concluso sull’idioletto di Vicari, sul suo stile personale. Resta da valutare il messaggio del film, e ho già rammentato l’indiscussa importanza di una ricostruzione tanto rigorosa dei fatti di Genova. Vorrei perciò spendere le mie parole conclusive per segnalare alcune interpretazioni controverse a cui la pellicola ci invita.
Tutti ricorderanno che la sequenza di apertura registra il volo di una bottiglia che va a frantumarsi su un marciapiede. È la bottiglia lanciata durante un assalto che alcuni ragazzi della Diaz improvvisano contro una jeep della polizia. La bottiglia è la chiave di volta del film: lo apre e lo chiude. Qual è il suo perché?
La bottiglia serve a ricordare allo spettatore come sia stata una bravata (fatale) a innescare gli episodi di violenza del 21 luglio. Ma non si tratta di asserire che tutto è avvenuto per una marachella presa troppo sul serio. Non è l’idea di Vicari, il quale, per non lasciare spazio a derive interpretative, ha inserito nel finale una scena significativa che intendo ricordare.

Etienne (di professione incendiario di cassonetti e intrepido black block) e la sua amica Cecile entrano nella scuola devastata dal blitz e si rendono conto di cos’è accaduto. Mentre la biondissima Cecile, sconvolta, appende il cartello di cui il sottotitolo del film (don’t clean up this blood), Etienne ha un’intuizione sconvolgente e davvero singolare, perché si mette a correre a rotta di collo fuori dalla palestra, oltre il portone e il cancello, fino nella strada. Cecile, che è una ragazza ragionevole, lo insegue per interrogarlo. Lui risponde lapidario: “È noi che cercavano”. Estrae dalla tasca la maschera antigas che gli ha regalato il suo compagno di scorribande e la getta teatralmente a terra, per volgersi e camminare verso un orizzonte luminoso. È redento: ha finalmente compreso che la violenza è sbagliata, perché porta solo alla violenza.

La morale di Diaz è semplice: sui black block grava la responsabilità della repressione e della violenza condotte dalla polizia italiana contro gli ospiti della scuola – repressione che, se da un lato è cieca e ingiustificata, dall’altro ha la sua origine nei cassonetti incendiati, nelle bottiglie lanciate contro le camionette, nel comportamento irresponsabile e sconsiderato dei “ragazzi violenti”.
In Diaz, come in ogni film americano, ci sono i buoni e i cattivi. Alcuni cattivi (i poliziotti) sono certo più cattivi di altri (i black block). Ma la denuncia di Diaz non si estende solo ai primi, e lascia intendere con faciloneria che i ragazzi che hanno incendiato Genova siano la causa prima di quanto accaduto alla Diaz. Certamente vi è una parte di verità – ma la realtà non è così semplice come nei film.
In definitiva, il film di Vicari, più che un film sulla violenza, o un film contro la violenza, o un film con della violenza, va a ragione classificato come un film violento: violento nell’impugnare il bisturi con cui divide il bene dal male, e violento negli espedienti retorici (le carrellate à la Pontecorvo, i ralenti commoventi, le note soffuse della colonna sonora) che impongono un’unica interpretazione, un’unica prospettiva di fruizione per lo spettatore. Diaz, come ogni buon film americano, dipinge tutto o di bianco o di nero. Si tratta di un film pericoloso: per il suo messaggio e per il suo stile, è un arma a doppio taglio, una bomba a orologeria. Bisogna auspicarsi che non faccia scuola, e che questo cinema di denuncia patinato, superficiale e inflessibile non si imponga su un “Altro” cinema, quello che lascia ancora respiro alle domande destinate a rimanere aperte. Perché stordire lo spettatore con sangue, biondine nude e melodie ipnotiche non è fare cinema di denuncia – al massimo, è fare cinema di regime, o cinema hollywoodiano di serie B.

Andrea Bacino

ACAB (2011) – Sinossi del film

febbraio 1, 2012 § 1 Commento

Acab è un piccolo capolavoro del cinema italiano. Torinese, autoprodotto, fresco fresco di uscita. Si tratta di una favola metropolitana che immortala il percorso di formazione di Pino, giovane valsusino, ricostruendo gli ultimi atti di antagonismo che hanno scombussolato la nostra cara urbe. Riportiamo qui la recensione pubblicata sul “Venerdì di Repubblica” (30/1/12), che apprezziamo per la sua neutralità. Per esigenze di stringatezza l’abbiamo ridotta, attinendoci al modello di sinossi wikipediano.

Pino, studente sbarbatello, si dirige a scuola con un amico, quando i due vengono fermati da un poliziotto rasato con un Uzi che chiede loro i documenti. Pino mostra la sua carta mentre l’altro, non trovando la propria, tenta di scappare. Il poliziotto s’incazza e lo pesta, ma non riesce ad immobilizzarlo del tutto, finendo per lasciarselo scappare. Dopo un breve ma inutile inseguimento, lo sbirro acchiappa un gatto di passaggio: lo apre in due per berne il sangue e si tinge di rosso una svastica sulla testa. Booom! Titolo di apertura: “ACAB”. Sullo sfondo una serie di scene di pestaggi ad opera della polizia sui manifestanti locali. Nel mezzo anche alcune scene tratte dal film 1984 basato sul famoso libro di Orwell.

Dissolvenza. Scena a luci basse ambientata nelle sedi della polizia.

Siedono a un tavolo, rispettivamente, un inquietante generale con un bottone al posto di un occhio dall’accento fortemente tedesco, il maiale Napoleone, Rasputin, Jafar ed il Commisario Basettoni. I cinque cattivoni cantano vecchie e gloriose canzoni fasciste, mentre giocano a freccette con una foto di Mahatma Ghandi. Entra un marine, trascinando un bambino addormentato, completamente nudo. Jafar lo scuoia vivo invocando la potenza del Sistema. Un lampo di luce ed il bambino scompare. Nel frattempo Pino, all’esterno dell’edificio in una manifestazione NOTAV, sviene. In un mondo indistinto, fatto di corpi senza volti, gli appare l’immagine di Carlo Giuliani, vestito di bianco e con un bellissimo paio di ali. Carlo gli intima di seguire l’uovo bianco. Pino si alza e prende un uovo dalla cesta delle uove lanciabili e la lancia verso la finestra. L’uovo finisce in mezzo alla sede della polizia ed esplode, distruggendo tutto l’edificio. La profezia è avverata. I NOTAV hanno vinto. L’ASKA ha vinto. I SI all’esterno si piangono addosso per l’abuso di violenza. Tra la folla, il direttore dell’Ode esamina il tutto affascinato sotto effetto di DMT.

Si scopre così che Pino è l’Eletto, e viene ribattezzato Jaco-pino. La gente ricomincia a credere nella lotta al Sistema, e tutti confidano nelle potenzialità di Jac. Il giorno dopo, mentre Pino è all’università per seguire un corso, un poliziotto gli spara nei bagni e lo rapisce.
Il film si chiude con l’immagine di Jacopino col pugno alzato. Acab II: Reloaded saprà raccontarci il resto.

Acab (2011) – Scheda Tecnica

REGIA: Antonio Negri & Michael Hardt
SCENEGGIATURA: Lorenzo Cesarano, Barbara Petronio, Leonardo Marsili
ATTORI: Pierfrancesco Favino, Marco Giallini, Antonio Negri, Domenico Diele, Andrea Sartoretti, Roberta Spagnuolo, Eugenio Mastrandrea, Eradis Josende Oberto
Ruoli ed Interpreti

FOTOGRAFIA: Paolo Carnera
MONTAGGIO: Patrizio Marone
PRODUZIONE: Mamma e Papà
PAESE: Italia 2012
GENERE: Drammatico
DURATA: 112 Min
FORMATO: Colore

Laurenti – Il Corpo del Duce (TFF 29)

dicembre 3, 2011 § Lascia un commento

All’uscita del cinema, con la testa in sala e l’incazzatura crescente, la prima cosa che colpisce è la dicotomia fra l’attonito silenzio della sala e i campanelli di persone che fuori vociferano e vociferano e vociferano e vociferano.

  • Sporco Fascista torna nella fogna (gridato e ripetuto come sottofondo costante)
  • Sta citu tu hai visto che gli hanno fatto?bravi i tuoi eh!
  • Come hanno fatto a selezionarlo, ma poi a Torino, nella città più antifascista d’Italia.
  • Io mi ricordo quei giorni
  • non avevo mai notato la somiglianza di Mussolini con il protagonista dei Goonies.

 

Tutte queste voci, tutte queste voci nella mia testa mi fanno pensare, se fosse proprio questo il significato? E se il linguaggio, le immagini le esagerazioni fossero tese a Questo?
Uno schiaffo per reagire.
Ecco partirò da questo per l’analisi del Corpo del Duce, e anzi cercherò di essere il più obbiettivo possibile, Io sono di parte e quindi la mia critica sarà opera di parte. Laurenti mi è capitato numerose volte d’incontrarlo in questo festival, mi trovo a scrutarlo dopo le proiezioni con un cappotto troppo grande per la sua esigua figura. Ecco se mi dovessi prefigurare un italiano, un fascista tipo lo immaginerei così, lui è l’emblema lui è il corpo. Il corpo di Mussolini non è il corpo di un adone è un corpo tipo, virile certo ma non eccessivamente, atletico certo ma di quell’atletico propri del popolo. Il corpo del capo è un corpo in carne, quella carne sognata e agognata in un periodo di fame è un corpo che suda, ma è anche un corpo mitico costruito è un corpo che diventa simulacro esso diventa stato e statua.
I morti puzzano si decompongono gonfiano mutano sciolgono seccano accorciano sgretolano perdono rimangono e poi, prima o poi i corpi scompaiono quello che rimane sono le tombe, pallidi ricordi gelati.
Il nazionalsocialismo fu un regime di morte e per la morte, come segni, come richiami come parole fu qualcosa di profondo, d’antico e se mi si concederà il temine, mi scusino gli amici d’oltre il Reno fu un regime profondamente barbaro. Il fascismo fu dalle origini qualcosa di differente,esso fu rancoroso, vitalistico, s’ammantò di quella forza terribile che è la forza del sangue, della vendetta della rabbia cieca degli umili plasmata e fatta maturare in tutte le sue componenti.

.CredereobbedirecombattereCredereobbedirecombattereCredereobbedirecombattereCredereobbedirecombattereCredereobbedirecombattereCredereobbedirecombattereCredereobbedirecombattere.

Il documentario crede in un capo cristo e cesare, dio in terra, obbedisce al corpo e combatte per la sua sopravvivenza, su quel corpo sono fondate tutte le parole che è capace d’esprimere. Ci svela i retroscena è implacabile nel delineare il corso degli eventi, interpreta e reinterpreta la storia è chiaro quando ci fornisce un punto di vista, il punto di vista di sognatori che ancora non riescono a non smettere di pensare che tutto sia perso sia finito, polvere alla polvere. Il suo discorso si fa chiaro, c’incuriosisce, cerca l’effetto cerca la pietà mostrando la fine d’un sogno per alcuni e d’un incubo per altri, non si rassegna alla volubilità del popolo e implacabile lo condanna. Documenta l’esistenza di questi, i riti e i ritmi, ci mostra i feticci, le reliquie, i pellegrinaggi la religione che fa del corpo vittorioso l’oggetto del culto e aspetta la nuova venuta.
Santo Benito da Predappio, concedimi la mano ferma contro i miei nemici, l’occhio vigile e illuminami la strada verso un nuovo futuro attraverso le tue parole. Santo Benito prega per noi.
Più nascondi una cosa più sviluppi un’attrazione fatale verso questa.
Certo il corpo del Duce a Piazza Loreto venne mostrato e rimostrato per dimostrare che tutto era finalmente finito gattopardianamente; le scene note, più a noi che hai nostri padri, fecero presto il giro del mondo, ma proprio la vicenda che ne seguì e il silenzio riportarono in vita quei corpi rendendoli immortali, fino ad ora. Nascosto, trafugato, riesumato, mostrato poi occultato, conteso, diventa mito religione di un mondo in rovina. Quello che il documentario invece ci mostra è qualcosa di nettamente differente, è un corpo morto che non ha più le sembianze e la forza che ostentava con virile maestria prima, non è il corpo eroico del capo popolo è il segno della storia e del tempo. Nel mostrare quelle immagini ricade su se stesso, abbassa a un livello infimo quello che prima era qualcosa di divino, caduto il corpo quello che rimane è operetta, è teatro, grottesche rappresentazioni vuote.
Anche lui finalmente è morto , ne abbiamo le prove, il fascismo vive e non vive nei vecchi canuti nutriti di nostalgia e ricordi, ne nei giovani assetati di sangue con le suonerie d’antan , ma vive nelle persone comuni che non sanno di risentire ancora di vent’anni di fascismo e della sua macchina comunicativa, vive nei poteri forti e nello stato vero corpo del capo, esso vive.
Non è finita a piazza Loreto.
Ma no che non é finita
piazza Loreto
si é vinta una battaglia
ma non la guerra
perché il taglio di una pianta
non é completo
finché le radici restano
sotto terra.

Raz Rubb II

Randall Cole – 388 Arletta Avenue (TFF29)

dicembre 3, 2011 § Lascia un commento

James e Amy conducono una vita normale in un tranquillo quartiere di Toronto, ma  già dalla prima inquadratura sappiamo che le cose sono destinate a cambiare: qualcuno li sta spiando. Randall Cole mette in scena un thriller psicologico tesissimo, noi lo seguiamo svolgersi attraverso le numerose telecamere che uno stalker ha nascosto per tormentare la coppia.
388 Arletta Avenue è la storia di un gatto che gioca col topo: il misterioso maniaco piazza diverse telecamere nell’edificio, quindi s’intrufola in casa loro per vedere come reagiscono ai suoi sadici dispetti. Provocherà prima piccoli e inspiegabili disagi (una sveglia che suona troppo presto, un misterioso disco nella macchina a tutto volume), quindi passerà alle maniere pesanti rapendo la moglie di James, conducendolo pazientemente al crollo nervoso.
Si tratta di un dramma psicologico ben orchestrato: nell’impossibilità di dare un senso agli avvenimenti, e costretti ad interpretazioni paranoidi dell’accaduto, i personaggi si scagliano l’uno contro l’altro.  Cole gioca bene il suo thriller minimalista, ed esplora un territorio di confine dove s’incontrano il thriller, il reality show e il dramma psicologico. Le telecamere nascoste sono al contempo una costrizione e uno stimolo creativo. I grandangoli dei micro-obiettivi, le angolature improbabili delle telecamere nascoste, la sgranatura vintage della vecchia macchina da presa usata dallo stalker e i riflessi delle microcamere incastrate negli schermi del computer: tutte scelte espressive che rendono le immagini estremamente eterogenee, e trasformano il film in un percorso di ricerca formale in un territorio vergine della cinematografia.
Cole si muove sul confine fra fiction e reality-show, ma si allontana da quest’ultimo a sufficienza da tenere vivo il piano della narrazione. Il montaggio serrato, con lo sguardo che si sposta continuamente da una telecamera nascosta all’altra, è la chiave del distacco dal linguaggio dei realities: seguiamo il protagonista in macchina, in ufficio e in casa attraverso prospettive multiple, scivolando dall’una all’altra quasi senza renderci conto che stiamo assistendo alla scena dal punto di vista traballante di chi spia, e non di chi filma su set.
Nel finale, l’anonimo stalker esporta il filmato che abbiamo appena finito di vedere, per riporre il DVD in una vasta collezione. Forse il regista poteva investire di più sull’effetto di realtà, e rielaborare questa scena per convincerci che non abbiamo assistito a uno spettacolo di finzione, ma a dei fatti. C’erano tutte le carte in regola per farlo (ogni singola ripresa viene da una telecamera nascosta, ogni sguardo ha una giustificazione intradiegetica) e in tal modo gli svantaggi del linguaggio formale del reality avrebbero avuto una contropartita in termini di ambiguità veridittiva.
388 Arletta Avenue come thriller non spaventa e come reality non è realistico; forse riesce solo come dramma psicologico, nell’esplorare la paranoia, del cinismo e della disperazione solipsistica. Una narrazione riuscita a metà, ma anche e soprattutto l’esplorazione coraggiosa di un linguaggio cinematografico radicalmente innovativo, di cui probabilmente coglieremo i frutti nel cinema degli anni a venire.

Parenti e D’Ambrosio – Il Castello (TFF29)

dicembre 3, 2011 § Lascia un commento

Il Castello è un’opera di meccanismi e di movimenti. Il meccanismo non ha mai un inizio, perché funziona costante e non può mai arrestarsi. Il movimento inizia sempre, improvviso palpita per un attimo, poi scompare: è intermittente. Ogni giorno, a Malpensa, alcuni movimenti si insinuano nel meccanismo – spesso nessuno li nota.

 

 

Il meccanismo vive di amministrazione burocratica e di leggi internazionali (chi ha il diritto di entrare in Italia e chi no), si ramifica nei controlli (contro la droga, contro il rischio di attentati), si materializza nel dominio fisico della polizia sui viaggianti sospetti e nell’intimidazione psicologica delle perquisizioni. Il meccanismo deve essere impeccabile nella gestione del traffico aereo e deve eliminare tutte le interferenze – come le voci degli uccelli quando scivolano nelle comunicazioni radio.

Il movimento sorge nelle pieghe del meccanismo e nelle sue falle: è la contingenza di un volto, la casualità dischiusa da un’aragosta che si libera dalla scatola dove per ore è rimasta imprigionata, l’imprevisto di un gesto non conforme ai protocolli. Il movimento è la contingenza che trova un varco nella necessità del meccanismo. Il Castello riesce nello stesso tempo a descrivere il meccanismo e a cogliere il movimento.

Come è possibile che il potere si lasci osservare, manifestando le dinamiche profonde che lo costituiscono? Gli autori rispondono che spesso le immagini sfuggono via – proprio attraverso le pieghe dei movimenti – a patto di riuscire a cogliere il loro apparire improvviso. Coglierlo prima che l’aragosta abbassi le chele e la scatola sia di nuovo chiusa. La cattura dell’immagine-movimento richiede una costanza ostinata, ai limiti dell’ascetismo estetico: un anno di lavoro, una pausa di due settimane dedicata al montaggio ogni quindici giorni di riprese. Le illuminazioni immediate diventano opera solo attraverso un costante lavorio di accumulo, levigatura e sottrazione.

Denunciare l’enormità del potere e della sua amministrazione capillare ha sempre un rischio: se hai ragione – se la tua teoria vince – allora hai perso tutto: al controllo non c’è via di fuga, tutto è soffocato. Il Castello evita la totalità e l’assoluto (una vittoria teorica totale che si rovescia in una sconfitta politica altrettanto totale) e va alla riconquista delle fratture, degli spazi vuoti. È vero, il sistema è perfetto, ma non del tutto: forme di resistenza ci sono ancora, e vanno colte.

Una signora vive in aeroporto, come l’edera si abbarbica al luogo. Nel bagno ha collegato un fornello elettrico e nella pentola calda adagia i tranci di pollo su un soffritto di lardo e cipolla. Nei lavandini si taglia i capelli, si fa la tinta. L’utopia si apre quando i luoghi vengono vissuti al di là delle strategie di chi li ha realizzati. Oltre i comportamenti previsti e programmati. La resistenza – in un certo senso – sta nell’usare le cose del mondo in modo imprevedibile. Malgrado tutto, le lacerazioni ci sono anche a Malpensa.

Ricetta per fare un film di Sion Sono (TFF 29)

novembre 30, 2011 § Lascia un commento

 

Ingredienti

– un paio di VHS dei migliori drammi psicologici di Cassavetes
– due DVD dei più estetizzanti barocchismi cromatici di Jodorowski
– Volumi II, III e IV de La Volontà di Potenza di Friedrich Nietzsche
– tabù sessuali infranti
– mutilazioni e suicidi
– giovani donne asiatiche con grosse tette

I VHS di Cassavetes lessateli, spremeteli e passateli dal setaccio. I DVD di Jodorwski scottateli, poi tritateli con la mezzaluna e infine aggiungeteli all’impasto . Prendete uno stampo di rame fatto a forma di bombetta, ungetelo bene con burro e riempitelo prima colle giovani donne asiatiche dalle grosse tette, quindi coi tabù sessuali infranti. Montate a neve le mutilazioni e i suicidi finché non diventano più grosse del resto dell’impasto; aggiungete a tutto il resto e fate restringere nella forma, a bagno maria. Sfornate caldo e riempitelo nel mezzo con un intingolo di Volumi di Nietzsche, facendo in modo che riesca piccante, e vedrete che questo piatto farà bellissima figura con gli intellettuali e sarà lodato.

Pellegrino Artusi

Gareth Evans – Serbian Maut, The Raid (TFF 29)

novembre 30, 2011 § 2 commenti

Stasera (martedì 29 novembre) Gianni Amelio ha presentato Serbian Maut, The Raid, di Gareth Evans, regista gallese naturalizzato indonesiano. Davanti al pubblico del Reposi, ha sciorinato le proprie opinioni sul film.

Primo: si tratta di un film che non dovrebbe assolutamente essere in concorso. “Non sono per nulla d’accordo riguardo alla candidatura di questo film al mio Festival”, dichiara il direttore. Pensavamo li scegliessi tu i film, rispondono sottovoce dalla platea. Ma Amelio non ha ancora finito.
Secondo: “Quello di Evans è un film di genere, e i film di genere o si fanno bene o si fanno male”. Perentorio, il Gianni, ci sorprende ancora: lo lasciamo continuare.
Terzo: “Nel film non vi è esaltazione della violenza: si tratta di un film purissimo, dove il sangue che scorre a fiumi non è affatto esaltato come tale. Vi accorgerete di quanto candida sia la regia di Evans”.
Prendiamo le parole del direttore del festival come spunto per l’analisi del film; lascerò la prima affermazione, che è decisiva, per ultima.
Il film di Evans è, indubbiamente, un ottimo film di genere. Si tratta di un film low-budget che riesce a coordinare benissimo i pochi elementi in gioco (poliziotti iperaddestrati, incastrati in un vecchio edificio che pullula di esaltati esperti di arti marziali). Il ritmo serratissimo, i calci, i pugni, le esplosioni e qualche pacchianata splatter: Evans lavora bene e riproduce in minatura tutti i clichées del cinema nipponico e americano.
Essendo un buon film d’azione, The Raid non può non lavorare sull’estetizzazione della violenza. Amelio parla di purezza, ma nel film non c’è niente di puro: assistiamo a una pellicola torbidissima, violenta all’estremo, con la telecamera che indugia sui particolari – le strisce di sangue, un tizio decapitato da una porta, i pezzi di cervello spalmati sul muro.
Quella di Amelio sulla purezza del film è una bugia diplomatica, che ben presto si trasforma in una barzelletta: alle prime frasi esaltate dei supermilitari, in platea si ridacchia, e quando si arriva alle prime boiate splatter il pubblico non tiene più le risa, e applaude non senza una vena di sarcasmo.
Resta da svolgere la prima delle affermazioni di Amelio: il film non era da candidare. Su questo il nostro regista ha perfettamente ragione: non solo il film non rappresenta nessuno di quegli “apporti innovativi del cinema indipendente” che il TFF dovrebbe premiare, ma non è assolutamente adatto alla maggioranza del pubblico di cinefili del Festival, che difatti si diverte, ma perché trova la pellicola ridicola.
Il film di Evans, inoltre, è di una piattezza disarmante, non un’occasione è colta per lasciare un messaggio, tracciare un percorso di significato. Le uniche morali della pellicola (l’amore fraterno è più forte delle contrapposizioni sociali, la polizia è corrotta e ingiusta quanto i criminali) sono delle tautologie così totalizzanti da denunciare la propria superficialità. Chi ha fatto pressione, allora, per far entrare un film come The Raid in concorso? La risposta ce la dà sempre il buon Amelio: “Salutate Jacono, il distributore italiano del film. Un applauso, perfavore”.
Clap.
Clap.
Clap.

Benning – Twenty Cigarettes (TFF29)

novembre 30, 2011 § Lascia un commento

Mi siedo, sono comodo sulla mia poltrona di velluto blu, non sono allo Slow Club ma quasi, mi preparo scambiando qualche battuta arguta con i miei vicini, guardo la sala per farmi una mappatura mentale, signore calvo, donna grassa, ragazza piacente, persone che non voglio salutare, maschere, mica male le maschere di questo cinema, guardo più volte il telefono più per vizio che per vezzo, ecco le luci si abbassano, questo sarà il mio film rivelazione quest’anno, alla faccia di Francis, con un titolo e un cappello così come può non esserlo, ultimo saluto con la coda dell’occhio alla maschera, mangio delle noccioline portate da casa, silenzio nella mia testa.

primasigaretta
ok, potrebbe essere geniale come non esserlo, dai dai dai che Benning ti stupirà, dai dai dai mi muovo dalla sedia cercando una nuova posizione comoda, chissà se dopo riuscirò a cenare,

secondasigaretta
ok uguale alla prima, ok smorfie, linguaggio del corpo, ok citazioni colte, ok chi non ama Andy, ok i più deboli iniziano ad uscire, ok,

terzasigaretta
trovo più emozionante fissare l’omino dell’uscita di sicurezza che fissare lo schermo, le battute argute non sono nemmeno più sussurrate,

quartasigaretta
la metà dei partecipanti escono, alcuni vanno in bagno, rifare l’ avanguardia è essere conservatori, basta trito e ritrito, non è sperimentalismo è un pavoneggiamento inutile ammantato da qualche studio sul linguaggio del corpo,

quintasigaretta
vanità dlle vanità tutto è vanità, tre quarti delle persone sono uscite, ancora una sigaretta, diamogli l’ultima sigaretta

sestasigaretta
ok alla sigaretta, noia noia, la gente si tiene la sedia stretta, magari potrei dormire per non uscire,

settimasigaretta
sono deciso, esco, usciamo in tanti, anche le maschere ridono, ora uscendo fumerò o non fumerò

ottavasigaretta
venti persone ancora in sala, dieci guardano, due amoreggiano, una si gira una sigaretta, tre rispondono al cellulare, quattro dormono. Credo che mi farò raccontare il seguito.
 

Durata totale novanta minuti
durata personale venti minuti
una sigaretta fumata all’uscita
10  persone disperate trovate nei bagni il giorno dopo
 

Benning, caro ragazzo hai studiato bene,
ma non è abbastanza, non lo è affatto
applicati di più la prossima volta.

Dove sono?

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