Scrivere con i piedi: fenomenologia della letteratura calcistica

giugno 4, 2012 § Lascia un commento

Perché i capolavori di Baggio, Ibrahimovic e Del Piero sono le novità letterarie più interessanti degli ultimi vent’anni


Il grande laboratorio culturale dello stivale italico si è sempre imposto, nel corso dei secoli, nel mondo “occidentale”, ancora prima dell’esistenza stessa di un mondo occidentale. Sembra una tesi di difficile sostenibilità, e andrebbe sicuramente meglio argomentata, ma tale operazione prevederebbe una ricerca ben più approfondita di questo breve articolo. Vi basti, quindi, sapere che la mia mamma dice che sono bello e commenta con simpatici buffetti questa come altre teorie.

In Italia la letteratura sta imponendo un nuovo genere letterario, di avanzata ricercata decostruttiva e che pone l’artista, badate bene artista, non scrittore, in una nuova dimensione di contaminazione tra diverse forme d’arte. Anzi, in una dimensione in cui non esistono più né forme né arte. Feroce amante e crudele distruttore della forma letteraria. Dimenticatevi poeti, drammaturghi, novellisti, saggisti, giornalisti e scrittori. La nuova forma della parola scritta è affidata a chi ha raggiunto le più alte vette artistiche né con le mani, né con la voce, ma con i piedi.
Il nuovo risorgimento della letteratura italiana è affidata ai calciatori, delle cui invenzioni letterarie sentivamo tutti bisogno.

Prima di passarne velocemente in rassegna i principali capolavori, voglio spendere qualche parola su questo nuovo genere letterario.Contrariamente a quanto succede per altre categorie professionali che si dedicano in un secondo momento alla scrittura, i calciatori rimangono calciatori anche, e soprattutto, mentre scrivono. Non come dei banali presentatori televisivi o degli attori qualsiasi. Loro non imitano gli scrittori, non producono romanzi né inventano eroi del noir. Rimangono calciatori che scrivono. Spesso fantasisti che inventano un nuovo spazio di fantasia, strappandolo al mondo della comunicazione mediatica e degli sponsor.Non cadono nemmeno nella facile trappola del saggio dell’esperto del settore: sì, si parla di calcio nelle loro produzioni, ma mai manuali di calcio o saggi. Sono di solito autobiografie, perché il calciatore-creatore sa che quello che i suoi lettori vogliono: la narrazione dall’eroe delle proprie gesta, come se la società dello spettacolo chiedesse a Odisseo di reinventare il proprio mito e di sostituire la tavola di Alcinoo con il best-seller da scaffale. Poche autobiografie nella storia della letteratura risultano altrettanto sincere, con una tale sovrapposizione tra autore che si racconta, personaggio e percezione del personaggio da parte dei lettori. Allora troveremo un Cassano, autore non di uno, ma di due libri, impegnato a difendere la sua immagine e il suo bisogno di narrare se stesso come un Pierino pestifero e geniale, un Baggio, vero padre di questo genere letterario, a distribuire sorrisi ed ascetismo fin dal titolo. Ma addentriamoci meglio, seppur brevemente, in questo genere letterario.

Roberto Baggio

L’Omero della letteratura calcistica. Autore da aforisma prima ancora del suo debutto letterario, genio indiscusso e indiscutibile del calcio e padre di un genere letterario. L’umanità non può esaurire la sua gratitudine verso questo personaggio, per certi versi controverso, con il solo pallone d’oro. La sua celebre affermazione: “I rigori li sbaglia solo chi ha il coraggio di tirarli” ha da tempo superato, almeno nel mondo italofono, le migliori citazioni di Wilde o Schopenauer. Ricordiamo solo come sia stata ripresa da Claudio Riccio nel suo struggente addio alla politica, per dimostrare come le parole di Baggio siano entrate nell’immaginario collettivo. E se i più crudeli e ingrati hanno ricordato al vecchio portavoce della Rete della Conoscenza come i tifosi di mezza Italia apostrofassero il fantasista con il celebre coro “Baggio puttana hai fatto tutto per la grana”, non possiamo non riprendere questo episodio come simbolo dell’assunzione artistico-calcistica del grandissimo calciatore nell’Olimpo dei grandi della Storia.
Perle di saggezza, riflessioni da buddista occidentale, amore per il calcio, ma anche per le polemiche con gli allenatori della propria carriera. Ironia, sorrisi e lacrime distribuiti con saggezza e una affabulazione sorniona: “Una porta nel cielo” contiene già tutti gli ingredienti che verranno ripesi da quanti ripercorreranno sul campo e nella scrittura i passi del codino più famoso della storia dello sport.

Francesco Totti

Saggiamente il Francesco nazionale sceglie di non raccontare la propria biografia, ma di lasciare che l’intento del libro faccia emergere il proprio Io umano, artistico e calcistico. Come i veri creatori del mercato d’arte Totti legge e sfrutta il momento storico in cui la sua opera nasce e si dispiega: mentre il mondo mediatico crudelmente lo bolla come illetterato coatto, egli, er Pupone, si fa rapsodo di se stesso e raccoglie i frutti di questo crudele ritratto di lui dal mondo dello spettacolo creato: raccoglie tutte le barzellette su di sé e ne fa un libro.
Geniale il titolo del libro. Davvero, ho sempre apprezzato i titoli che raccontano chiaramente, senza inganni, a cosa il lettore sta per andare incontro: “Tutte le barzellette su Totti (raccolte da me)”. Fa uscire con forza l’autore-rapsodo, e l’immagine che vuole trasmettere di sé nell’opera, anche forse nell’intento benefico dell’opera. L’Unicef, ovviamente. Istituzionale ed universale, e poi a tutti piacciono i bambini.

Antonio Cassano

Autore di due opere, nulla fa emergere la struggente bellezza dell’invenzione del mito del meridione, del Sud del Mondo, come la penna dell’irriverente barese. “Dico tutto” sottotitolo: e se fa caldo gioco all’ombra, scritto con la collaborazione (supervisione? correzione grammaticale?) di Pierluigi Pardo, è un ritratto irriverente, ma sinceramente genuino e buono di questo ragazzo, riscattatosi da una condizione di disagio e povertà con il pallone (e la scrittura, ovviamente). Lo stile nella sua semplicità e nei suoi rimandi al linguaggio più colloquiale ammicca ai grandi narratori americani e ai primi libri di Culicchia e Brizzi. Nella sua seconda opera, “Le mattine non servono a niente, e altre 364 cassanate in forma di aforisma per vivere un anno da fantasista”, scritto sempre con la collaborazione di Pardo, l’autore rinnova l’immagine di un sé fantasioso prima ancora che fantasista cimentandosi, però, in un nuovo genere letterario, quello appunto dell’aforisma. Inarrivabile e rinnovatore di se stesso… quanti “scrittori colti” del panorama italiano dovrebbero guardare alla bibliografia di Cassano con umiltà!

Zlatan Ibrahimovic

Il più grande tra tutti i protagonisti di questo genere, e probabilmente tra gli autori viventi. “Io, Ibra” è un libro da mettere nella vostra biblioteca a fianco ai grandi scrittori del Novecento. Uomo della strada, cresciuto tra il freddo e i campi di cemento di Rosemberg, il ghetto dell’isola di Malomoe con tanti bambini dell’Est come lui. Nelle pagine il giocatore svedese, assieme a Lagercrantz David, fa rivivere una vita non solo di disagio e povertà, ma anche di cattiveria. Con un realismo che pochi altri hanno saputo raggiungere e che lo collocano di diritto nel Paradiso dei Narratori della Sfiga, tra Zola e Verga.Una scrittura fatta di rivalsa, muscolare, che non risparmia critiche né fa sconti a compagni e allenatori. Un uomo che ringrazia sempre solo sé stesso, le sue gambe e il suo cuore. Che per servire sé stesso non ha mai esitato a cambiare continuamente squadra, nazione, lingua e vita. E non solo seguendo ingaggi più alti, anzi, ma sempre alla ricerca di nuove sfide e nuove opportunità. Tante bandiere, nessuna bandiera. Anarchia e sudore.

 

Alessandro Del Piero

Giochiamo ancora”, scritto con Crosetti Maurizio (anche se, contrariamente a quanto fanno gli altri scrittori-calciatori, non cita il coautore in copertina), ci presenta un Del Piero inaspettatamente flaubertiano, che ammicca al romanzo borghese. Uomo della provincia bene dell’operoso Nordest. Famiglia borghese, scuole calcio accompagnato dal papà, quei bambini buoni e simpatici che si fanno ben volere da tutti. Scrittura pulita, elegante addirittura, quasi leziosa. La ricercatezza della struttura nella divisione dei capitoli: il ricorrere al numero dieci, a sottolineare l’identificazione con la squadra, l’essere bandiera e simbolo della stessa, non abbandonarla mai, nemmeno nei momenti difficili. Anche quando vuol dire rinunciare alle grandi sfide, al Calcio con la C maiuscola per dedicarsi al alla B. Quell’elargire consigli da padre di famiglia e buonismi. Un po’ Coelho vecchia maniera, un po’ debutto letterario di Baggio. 
Minchia se ti odio Del Piero.

In realtà l’elenco di calciatori-autori è ancora lungo: Buffon, Inzaghi, Stankovic, Eto’o e molti altri, ma sono tutti riconducibili in qualche modo agli autori qui analizzati: autobiografia, autoironia e autopromozione del mito di sé. Perché nell’era dello spettacolo l’eroe non ha solo il dovere di essere eroe, ma deve farsi promotore del suo più alto valore morale: la creazione di sé stessi come oggetto di consumo. Forse solo la scrittura sudata e feroce di Ibra e la sua sfacciataggine sanno far emergere le contraddizioni di questo modello letterario: questi eroi-calciatori-narratori del mondo dello spettacolo sportivo che li ha creati.

Pivo Andrić

Nota dell’Autore:
L’autore vuole condividere con i lettori dell’Ode la gioia per il ritorno del Torino in serie A.

 

Della Violenza: “Diaz – Don’t clean up this blood”

Maggio 21, 2012 § 7 commenti

Recensione hegeliana in tre atti

Il cavallo di Troia

Diaz- Don’t clean up this blood, è uno dei film più discussi del momento. È perciò inutile ricordare l’importanza che una pellicola del genere riveste nel panorama culturale italiano, a livello di memoria storica. Il regista, Vicari, ha senza dubbio prodotto un’ottima pellicola, esplorando sapientemente il confine fra testimonianza storica e finzione. Ci ha regalato un film al contempo fruibile e struggente, che è insieme una rievocazione fedele e un pugno dritto allo stomaco dello spettatore – per non dimenticare. Le scene di violenza sono girate come nel migliore dei film d’azione, e dalle sale siamo usciti commossi, afflitti. Vicari ha accontentato tutti: Diaz offre suspense e denuncia politica, love stories e azione, ragazzine in deshabillé e crani fracassati, e catapulta lo spettatore indietro fino ai fatti del G8, rievocando le ragioni degli indignati. Un cocktail perfetto.
Fin dal principio del film, però, dalla mia poltroncina in fintapelle ho subodorato che qualcosa non andava. È cominciato tutto con un fastidio impercettibile, un prurito fastidioso e indistinto. Cos’era? Forse che, banalmente, mi indispettiva la spettacolarizzazione dei fatti del G8? No, non era quello. Certo, in Diaz la narrazione è affrontata utilizzando gli stessi canoni cinematografici del cinema di mercato capitalista, ovvero quel cinema che promuove da sempre l’ideologia borghese contro cui stava combattendo chi si era rifugiato alla Diaz. Ma la causa del mio attacco pruriginoso non era la patina di plastica e di inautenticità simulacrale che avvolgeva le immagini.
Riflettendoci durante la proiezione ho ritenuto, al contrario, di considerare tale specificità un pregio. Si tratta, verosimilmente, di un mezzo astuto per raggiungere il grande pubblico, e diffondere su larga scala la memoria storica dei fatti del G8. La copertina patinata e la sfavillanza hollywoodiana assurgono in Diaz al ruolo del moderno cavallo di Troia, sono uno strumento resistenza contro l’esecrabile silenzio dei media durante questi anni.
Se una valutazione del genere può sembrare inusitata, è per via di una fallacia tipica della critica cinematografica, che portiamo tutti nel cuore: l’idea è che il cinema di denuncia non può criticare la società senza criticare i linguaggi con cui la società stessa si descrive e si promuove. Secondo gli intellettuali e i grandi esperti di cinema, non si può spettacolarizzare la critica della società dello spettacolo, perché si cadrebbe in contraddizione, perché sarebbe ipocrita. Ma i risultati di questo approccio sono tristemente noti: decenni e decenni di cinema di denuncia inintelligibile al grande pubblico. Oggi qualcosa è cambiato. Ma se è vero che siamo al tramonto dell’epoca del cripticismo e dell’avanguardismo gratuito, allora è proprio Diaz il film paradigmatico che leva il sipario della nuova era, l’era di un nuovo cinema italiano, all’insegna di uno stile narrativo più democratico – più vicino al telefilm che al cinema d’essai: un cinema costellato di ossa rotte, fichette in tiro e ralenti commoventi.

La sindrome di Pontecorvo

   

Dopo un primo tentativo di riscattare Diaz, ho prestamente cambiato idea. Non ci si può autoingannare per più di dieci minuti, guardando un film del genere – il prurito resta, insistente. Certo, bisogna ammettere (contro la vulgata) che sulla spettacolarizzazione cinematografica della violenza si può chiudere un occhio. È vero, la sequenza dei pestaggi all’interno della Diaz e quella delle violenze nella caserma di Bolzaneto sono crude, pornografiche. Ma un po’ di sangue e una decina di minuti di manganellate col “tonfo” erano inevitabili: è la Storia.
Ciò che non convince in Diaz, piuttosto, sono gli espedienti retorici, la violenza espressiva e il patetismo con cui si incorniciano gli eventi del G8 in una prospettiva sommaria e monolitica. È vero, talvolta si apre uno spiraglio per il confronto dialettico: lo sguardo si sposta dietro gli scudi degli sbirri, o si insinua nelle caserme, per scoprire i timori dei responsabili del blitz: “Fate come volete”, dice uno di loro, “Ma io i miei non li tengo più”. Un tipo responsabile, ci diciamo, e lungimirante: non erano tutti cattivi, allora. Tuttavia, salvo questi brevi barlumi di polifonia Diaz è un film dove suona un solo strumento: un lungo a solo di indignata compassione – Vicari, in breve, se la suona e se la canta.
È per questo che uscito dalla sala ho ripensato al noto e citassimo articolo di Jacques Rivette, uscito sulle pagine dei Cahiers du Cinéma sotto il titolo “De l’abjection”. Chi lo conosce ricorderà che vi si denunciava l’eccesso di forza espressiva di una carrellata del film Kapò di Gillo Pontecorvo: l’inquadratura incriminata dipinge il suicidio di una prigioniera di un campo di concentramento nazista. L’articolo recitava più o meno così:

Vedete dunque in Kapò il piano dove Riva si suicida, gettandosi contro il filo elettrificato: l’uomo che decide, in quel momento, di fare un carrello avanti per inquadrare il cadavere dal basso verso l’alto, avendo cura di inserire la mano rimasta in alto esattamente in un angolo dell’inquadratura, quest’uomo non ha diritto che al più profondo disprezzo.

Un simile e legittimo disprezzo lo si prova, in Diaz, in più occasioni: nel vedere uscire dalla scuola i corpi macellati, fasciati dentro le barelle e cullati dalle note commoventi del violino di Balanescu. Lo si prova sul primo piano della bellissima Alma che, reduce dei pestaggi della caserma, si presenta sdentata, denutrita, umiliata, col culo sporco di merda, ma nonostante tutto truccatissima e stupenda, i capelli che ondeggiano nel vento accompagnati dal suono languido del pianoforte.
Simili inquadrature, oltre a sfiorare il patetismo più aberrante, suscitano a tutti gli effetti “il più profondo disprezzo” di cui parla Rivette.

Il gioco della bottiglia

Sia lode al dubbio!
Vi consiglio, salutate 
serenamente e con rispetto
chi 
come moneta infida pesa la vostra parola!
Vorrei che foste accorti,
che non deste 
con troppa fiducia la vostra parola.

Ho concluso sull’idioletto di Vicari, sul suo stile personale. Resta da valutare il messaggio del film, e ho già rammentato l’indiscussa importanza di una ricostruzione tanto rigorosa dei fatti di Genova. Vorrei perciò spendere le mie parole conclusive per segnalare alcune interpretazioni controverse a cui la pellicola ci invita.
Tutti ricorderanno che la sequenza di apertura registra il volo di una bottiglia che va a frantumarsi su un marciapiede. È la bottiglia lanciata durante un assalto che alcuni ragazzi della Diaz improvvisano contro una jeep della polizia. La bottiglia è la chiave di volta del film: lo apre e lo chiude. Qual è il suo perché?
La bottiglia serve a ricordare allo spettatore come sia stata una bravata (fatale) a innescare gli episodi di violenza del 21 luglio. Ma non si tratta di asserire che tutto è avvenuto per una marachella presa troppo sul serio. Non è l’idea di Vicari, il quale, per non lasciare spazio a derive interpretative, ha inserito nel finale una scena significativa che intendo ricordare.

Etienne (di professione incendiario di cassonetti e intrepido black block) e la sua amica Cecile entrano nella scuola devastata dal blitz e si rendono conto di cos’è accaduto. Mentre la biondissima Cecile, sconvolta, appende il cartello di cui il sottotitolo del film (don’t clean up this blood), Etienne ha un’intuizione sconvolgente e davvero singolare, perché si mette a correre a rotta di collo fuori dalla palestra, oltre il portone e il cancello, fino nella strada. Cecile, che è una ragazza ragionevole, lo insegue per interrogarlo. Lui risponde lapidario: “È noi che cercavano”. Estrae dalla tasca la maschera antigas che gli ha regalato il suo compagno di scorribande e la getta teatralmente a terra, per volgersi e camminare verso un orizzonte luminoso. È redento: ha finalmente compreso che la violenza è sbagliata, perché porta solo alla violenza.

La morale di Diaz è semplice: sui black block grava la responsabilità della repressione e della violenza condotte dalla polizia italiana contro gli ospiti della scuola – repressione che, se da un lato è cieca e ingiustificata, dall’altro ha la sua origine nei cassonetti incendiati, nelle bottiglie lanciate contro le camionette, nel comportamento irresponsabile e sconsiderato dei “ragazzi violenti”.
In Diaz, come in ogni film americano, ci sono i buoni e i cattivi. Alcuni cattivi (i poliziotti) sono certo più cattivi di altri (i black block). Ma la denuncia di Diaz non si estende solo ai primi, e lascia intendere con faciloneria che i ragazzi che hanno incendiato Genova siano la causa prima di quanto accaduto alla Diaz. Certamente vi è una parte di verità – ma la realtà non è così semplice come nei film.
In definitiva, il film di Vicari, più che un film sulla violenza, o un film contro la violenza, o un film con della violenza, va a ragione classificato come un film violento: violento nell’impugnare il bisturi con cui divide il bene dal male, e violento negli espedienti retorici (le carrellate à la Pontecorvo, i ralenti commoventi, le note soffuse della colonna sonora) che impongono un’unica interpretazione, un’unica prospettiva di fruizione per lo spettatore. Diaz, come ogni buon film americano, dipinge tutto o di bianco o di nero. Si tratta di un film pericoloso: per il suo messaggio e per il suo stile, è un arma a doppio taglio, una bomba a orologeria. Bisogna auspicarsi che non faccia scuola, e che questo cinema di denuncia patinato, superficiale e inflessibile non si imponga su un “Altro” cinema, quello che lascia ancora respiro alle domande destinate a rimanere aperte. Perché stordire lo spettatore con sangue, biondine nude e melodie ipnotiche non è fare cinema di denuncia – al massimo, è fare cinema di regime, o cinema hollywoodiano di serie B.

Andrea Bacino

Laurenti – Il Corpo del Duce (TFF 29)

dicembre 3, 2011 § Lascia un commento

All’uscita del cinema, con la testa in sala e l’incazzatura crescente, la prima cosa che colpisce è la dicotomia fra l’attonito silenzio della sala e i campanelli di persone che fuori vociferano e vociferano e vociferano e vociferano.

  • Sporco Fascista torna nella fogna (gridato e ripetuto come sottofondo costante)
  • Sta citu tu hai visto che gli hanno fatto?bravi i tuoi eh!
  • Come hanno fatto a selezionarlo, ma poi a Torino, nella città più antifascista d’Italia.
  • Io mi ricordo quei giorni
  • non avevo mai notato la somiglianza di Mussolini con il protagonista dei Goonies.

 

Tutte queste voci, tutte queste voci nella mia testa mi fanno pensare, se fosse proprio questo il significato? E se il linguaggio, le immagini le esagerazioni fossero tese a Questo?
Uno schiaffo per reagire.
Ecco partirò da questo per l’analisi del Corpo del Duce, e anzi cercherò di essere il più obbiettivo possibile, Io sono di parte e quindi la mia critica sarà opera di parte. Laurenti mi è capitato numerose volte d’incontrarlo in questo festival, mi trovo a scrutarlo dopo le proiezioni con un cappotto troppo grande per la sua esigua figura. Ecco se mi dovessi prefigurare un italiano, un fascista tipo lo immaginerei così, lui è l’emblema lui è il corpo. Il corpo di Mussolini non è il corpo di un adone è un corpo tipo, virile certo ma non eccessivamente, atletico certo ma di quell’atletico propri del popolo. Il corpo del capo è un corpo in carne, quella carne sognata e agognata in un periodo di fame è un corpo che suda, ma è anche un corpo mitico costruito è un corpo che diventa simulacro esso diventa stato e statua.
I morti puzzano si decompongono gonfiano mutano sciolgono seccano accorciano sgretolano perdono rimangono e poi, prima o poi i corpi scompaiono quello che rimane sono le tombe, pallidi ricordi gelati.
Il nazionalsocialismo fu un regime di morte e per la morte, come segni, come richiami come parole fu qualcosa di profondo, d’antico e se mi si concederà il temine, mi scusino gli amici d’oltre il Reno fu un regime profondamente barbaro. Il fascismo fu dalle origini qualcosa di differente,esso fu rancoroso, vitalistico, s’ammantò di quella forza terribile che è la forza del sangue, della vendetta della rabbia cieca degli umili plasmata e fatta maturare in tutte le sue componenti.

.CredereobbedirecombattereCredereobbedirecombattereCredereobbedirecombattereCredereobbedirecombattereCredereobbedirecombattereCredereobbedirecombattereCredereobbedirecombattere.

Il documentario crede in un capo cristo e cesare, dio in terra, obbedisce al corpo e combatte per la sua sopravvivenza, su quel corpo sono fondate tutte le parole che è capace d’esprimere. Ci svela i retroscena è implacabile nel delineare il corso degli eventi, interpreta e reinterpreta la storia è chiaro quando ci fornisce un punto di vista, il punto di vista di sognatori che ancora non riescono a non smettere di pensare che tutto sia perso sia finito, polvere alla polvere. Il suo discorso si fa chiaro, c’incuriosisce, cerca l’effetto cerca la pietà mostrando la fine d’un sogno per alcuni e d’un incubo per altri, non si rassegna alla volubilità del popolo e implacabile lo condanna. Documenta l’esistenza di questi, i riti e i ritmi, ci mostra i feticci, le reliquie, i pellegrinaggi la religione che fa del corpo vittorioso l’oggetto del culto e aspetta la nuova venuta.
Santo Benito da Predappio, concedimi la mano ferma contro i miei nemici, l’occhio vigile e illuminami la strada verso un nuovo futuro attraverso le tue parole. Santo Benito prega per noi.
Più nascondi una cosa più sviluppi un’attrazione fatale verso questa.
Certo il corpo del Duce a Piazza Loreto venne mostrato e rimostrato per dimostrare che tutto era finalmente finito gattopardianamente; le scene note, più a noi che hai nostri padri, fecero presto il giro del mondo, ma proprio la vicenda che ne seguì e il silenzio riportarono in vita quei corpi rendendoli immortali, fino ad ora. Nascosto, trafugato, riesumato, mostrato poi occultato, conteso, diventa mito religione di un mondo in rovina. Quello che il documentario invece ci mostra è qualcosa di nettamente differente, è un corpo morto che non ha più le sembianze e la forza che ostentava con virile maestria prima, non è il corpo eroico del capo popolo è il segno della storia e del tempo. Nel mostrare quelle immagini ricade su se stesso, abbassa a un livello infimo quello che prima era qualcosa di divino, caduto il corpo quello che rimane è operetta, è teatro, grottesche rappresentazioni vuote.
Anche lui finalmente è morto , ne abbiamo le prove, il fascismo vive e non vive nei vecchi canuti nutriti di nostalgia e ricordi, ne nei giovani assetati di sangue con le suonerie d’antan , ma vive nelle persone comuni che non sanno di risentire ancora di vent’anni di fascismo e della sua macchina comunicativa, vive nei poteri forti e nello stato vero corpo del capo, esso vive.
Non è finita a piazza Loreto.
Ma no che non é finita
piazza Loreto
si é vinta una battaglia
ma non la guerra
perché il taglio di una pianta
non é completo
finché le radici restano
sotto terra.

Raz Rubb II

Randall Cole – 388 Arletta Avenue (TFF29)

dicembre 3, 2011 § Lascia un commento

James e Amy conducono una vita normale in un tranquillo quartiere di Toronto, ma  già dalla prima inquadratura sappiamo che le cose sono destinate a cambiare: qualcuno li sta spiando. Randall Cole mette in scena un thriller psicologico tesissimo, noi lo seguiamo svolgersi attraverso le numerose telecamere che uno stalker ha nascosto per tormentare la coppia.
388 Arletta Avenue è la storia di un gatto che gioca col topo: il misterioso maniaco piazza diverse telecamere nell’edificio, quindi s’intrufola in casa loro per vedere come reagiscono ai suoi sadici dispetti. Provocherà prima piccoli e inspiegabili disagi (una sveglia che suona troppo presto, un misterioso disco nella macchina a tutto volume), quindi passerà alle maniere pesanti rapendo la moglie di James, conducendolo pazientemente al crollo nervoso.
Si tratta di un dramma psicologico ben orchestrato: nell’impossibilità di dare un senso agli avvenimenti, e costretti ad interpretazioni paranoidi dell’accaduto, i personaggi si scagliano l’uno contro l’altro.  Cole gioca bene il suo thriller minimalista, ed esplora un territorio di confine dove s’incontrano il thriller, il reality show e il dramma psicologico. Le telecamere nascoste sono al contempo una costrizione e uno stimolo creativo. I grandangoli dei micro-obiettivi, le angolature improbabili delle telecamere nascoste, la sgranatura vintage della vecchia macchina da presa usata dallo stalker e i riflessi delle microcamere incastrate negli schermi del computer: tutte scelte espressive che rendono le immagini estremamente eterogenee, e trasformano il film in un percorso di ricerca formale in un territorio vergine della cinematografia.
Cole si muove sul confine fra fiction e reality-show, ma si allontana da quest’ultimo a sufficienza da tenere vivo il piano della narrazione. Il montaggio serrato, con lo sguardo che si sposta continuamente da una telecamera nascosta all’altra, è la chiave del distacco dal linguaggio dei realities: seguiamo il protagonista in macchina, in ufficio e in casa attraverso prospettive multiple, scivolando dall’una all’altra quasi senza renderci conto che stiamo assistendo alla scena dal punto di vista traballante di chi spia, e non di chi filma su set.
Nel finale, l’anonimo stalker esporta il filmato che abbiamo appena finito di vedere, per riporre il DVD in una vasta collezione. Forse il regista poteva investire di più sull’effetto di realtà, e rielaborare questa scena per convincerci che non abbiamo assistito a uno spettacolo di finzione, ma a dei fatti. C’erano tutte le carte in regola per farlo (ogni singola ripresa viene da una telecamera nascosta, ogni sguardo ha una giustificazione intradiegetica) e in tal modo gli svantaggi del linguaggio formale del reality avrebbero avuto una contropartita in termini di ambiguità veridittiva.
388 Arletta Avenue come thriller non spaventa e come reality non è realistico; forse riesce solo come dramma psicologico, nell’esplorare la paranoia, del cinismo e della disperazione solipsistica. Una narrazione riuscita a metà, ma anche e soprattutto l’esplorazione coraggiosa di un linguaggio cinematografico radicalmente innovativo, di cui probabilmente coglieremo i frutti nel cinema degli anni a venire.

Parenti e D’Ambrosio – Il Castello (TFF29)

dicembre 3, 2011 § Lascia un commento

Il Castello è un’opera di meccanismi e di movimenti. Il meccanismo non ha mai un inizio, perché funziona costante e non può mai arrestarsi. Il movimento inizia sempre, improvviso palpita per un attimo, poi scompare: è intermittente. Ogni giorno, a Malpensa, alcuni movimenti si insinuano nel meccanismo – spesso nessuno li nota.

 

 

Il meccanismo vive di amministrazione burocratica e di leggi internazionali (chi ha il diritto di entrare in Italia e chi no), si ramifica nei controlli (contro la droga, contro il rischio di attentati), si materializza nel dominio fisico della polizia sui viaggianti sospetti e nell’intimidazione psicologica delle perquisizioni. Il meccanismo deve essere impeccabile nella gestione del traffico aereo e deve eliminare tutte le interferenze – come le voci degli uccelli quando scivolano nelle comunicazioni radio.

Il movimento sorge nelle pieghe del meccanismo e nelle sue falle: è la contingenza di un volto, la casualità dischiusa da un’aragosta che si libera dalla scatola dove per ore è rimasta imprigionata, l’imprevisto di un gesto non conforme ai protocolli. Il movimento è la contingenza che trova un varco nella necessità del meccanismo. Il Castello riesce nello stesso tempo a descrivere il meccanismo e a cogliere il movimento.

Come è possibile che il potere si lasci osservare, manifestando le dinamiche profonde che lo costituiscono? Gli autori rispondono che spesso le immagini sfuggono via – proprio attraverso le pieghe dei movimenti – a patto di riuscire a cogliere il loro apparire improvviso. Coglierlo prima che l’aragosta abbassi le chele e la scatola sia di nuovo chiusa. La cattura dell’immagine-movimento richiede una costanza ostinata, ai limiti dell’ascetismo estetico: un anno di lavoro, una pausa di due settimane dedicata al montaggio ogni quindici giorni di riprese. Le illuminazioni immediate diventano opera solo attraverso un costante lavorio di accumulo, levigatura e sottrazione.

Denunciare l’enormità del potere e della sua amministrazione capillare ha sempre un rischio: se hai ragione – se la tua teoria vince – allora hai perso tutto: al controllo non c’è via di fuga, tutto è soffocato. Il Castello evita la totalità e l’assoluto (una vittoria teorica totale che si rovescia in una sconfitta politica altrettanto totale) e va alla riconquista delle fratture, degli spazi vuoti. È vero, il sistema è perfetto, ma non del tutto: forme di resistenza ci sono ancora, e vanno colte.

Una signora vive in aeroporto, come l’edera si abbarbica al luogo. Nel bagno ha collegato un fornello elettrico e nella pentola calda adagia i tranci di pollo su un soffritto di lardo e cipolla. Nei lavandini si taglia i capelli, si fa la tinta. L’utopia si apre quando i luoghi vengono vissuti al di là delle strategie di chi li ha realizzati. Oltre i comportamenti previsti e programmati. La resistenza – in un certo senso – sta nell’usare le cose del mondo in modo imprevedibile. Malgrado tutto, le lacerazioni ci sono anche a Malpensa.

Gareth Evans – Serbian Maut, The Raid (TFF 29)

novembre 30, 2011 § 2 commenti

Stasera (martedì 29 novembre) Gianni Amelio ha presentato Serbian Maut, The Raid, di Gareth Evans, regista gallese naturalizzato indonesiano. Davanti al pubblico del Reposi, ha sciorinato le proprie opinioni sul film.

Primo: si tratta di un film che non dovrebbe assolutamente essere in concorso. “Non sono per nulla d’accordo riguardo alla candidatura di questo film al mio Festival”, dichiara il direttore. Pensavamo li scegliessi tu i film, rispondono sottovoce dalla platea. Ma Amelio non ha ancora finito.
Secondo: “Quello di Evans è un film di genere, e i film di genere o si fanno bene o si fanno male”. Perentorio, il Gianni, ci sorprende ancora: lo lasciamo continuare.
Terzo: “Nel film non vi è esaltazione della violenza: si tratta di un film purissimo, dove il sangue che scorre a fiumi non è affatto esaltato come tale. Vi accorgerete di quanto candida sia la regia di Evans”.
Prendiamo le parole del direttore del festival come spunto per l’analisi del film; lascerò la prima affermazione, che è decisiva, per ultima.
Il film di Evans è, indubbiamente, un ottimo film di genere. Si tratta di un film low-budget che riesce a coordinare benissimo i pochi elementi in gioco (poliziotti iperaddestrati, incastrati in un vecchio edificio che pullula di esaltati esperti di arti marziali). Il ritmo serratissimo, i calci, i pugni, le esplosioni e qualche pacchianata splatter: Evans lavora bene e riproduce in minatura tutti i clichées del cinema nipponico e americano.
Essendo un buon film d’azione, The Raid non può non lavorare sull’estetizzazione della violenza. Amelio parla di purezza, ma nel film non c’è niente di puro: assistiamo a una pellicola torbidissima, violenta all’estremo, con la telecamera che indugia sui particolari – le strisce di sangue, un tizio decapitato da una porta, i pezzi di cervello spalmati sul muro.
Quella di Amelio sulla purezza del film è una bugia diplomatica, che ben presto si trasforma in una barzelletta: alle prime frasi esaltate dei supermilitari, in platea si ridacchia, e quando si arriva alle prime boiate splatter il pubblico non tiene più le risa, e applaude non senza una vena di sarcasmo.
Resta da svolgere la prima delle affermazioni di Amelio: il film non era da candidare. Su questo il nostro regista ha perfettamente ragione: non solo il film non rappresenta nessuno di quegli “apporti innovativi del cinema indipendente” che il TFF dovrebbe premiare, ma non è assolutamente adatto alla maggioranza del pubblico di cinefili del Festival, che difatti si diverte, ma perché trova la pellicola ridicola.
Il film di Evans, inoltre, è di una piattezza disarmante, non un’occasione è colta per lasciare un messaggio, tracciare un percorso di significato. Le uniche morali della pellicola (l’amore fraterno è più forte delle contrapposizioni sociali, la polizia è corrotta e ingiusta quanto i criminali) sono delle tautologie così totalizzanti da denunciare la propria superficialità. Chi ha fatto pressione, allora, per far entrare un film come The Raid in concorso? La risposta ce la dà sempre il buon Amelio: “Salutate Jacono, il distributore italiano del film. Un applauso, perfavore”.
Clap.
Clap.
Clap.

Benning – Twenty Cigarettes (TFF29)

novembre 30, 2011 § Lascia un commento

Mi siedo, sono comodo sulla mia poltrona di velluto blu, non sono allo Slow Club ma quasi, mi preparo scambiando qualche battuta arguta con i miei vicini, guardo la sala per farmi una mappatura mentale, signore calvo, donna grassa, ragazza piacente, persone che non voglio salutare, maschere, mica male le maschere di questo cinema, guardo più volte il telefono più per vizio che per vezzo, ecco le luci si abbassano, questo sarà il mio film rivelazione quest’anno, alla faccia di Francis, con un titolo e un cappello così come può non esserlo, ultimo saluto con la coda dell’occhio alla maschera, mangio delle noccioline portate da casa, silenzio nella mia testa.

primasigaretta
ok, potrebbe essere geniale come non esserlo, dai dai dai che Benning ti stupirà, dai dai dai mi muovo dalla sedia cercando una nuova posizione comoda, chissà se dopo riuscirò a cenare,

secondasigaretta
ok uguale alla prima, ok smorfie, linguaggio del corpo, ok citazioni colte, ok chi non ama Andy, ok i più deboli iniziano ad uscire, ok,

terzasigaretta
trovo più emozionante fissare l’omino dell’uscita di sicurezza che fissare lo schermo, le battute argute non sono nemmeno più sussurrate,

quartasigaretta
la metà dei partecipanti escono, alcuni vanno in bagno, rifare l’ avanguardia è essere conservatori, basta trito e ritrito, non è sperimentalismo è un pavoneggiamento inutile ammantato da qualche studio sul linguaggio del corpo,

quintasigaretta
vanità dlle vanità tutto è vanità, tre quarti delle persone sono uscite, ancora una sigaretta, diamogli l’ultima sigaretta

sestasigaretta
ok alla sigaretta, noia noia, la gente si tiene la sedia stretta, magari potrei dormire per non uscire,

settimasigaretta
sono deciso, esco, usciamo in tanti, anche le maschere ridono, ora uscendo fumerò o non fumerò

ottavasigaretta
venti persone ancora in sala, dieci guardano, due amoreggiano, una si gira una sigaretta, tre rispondono al cellulare, quattro dormono. Credo che mi farò raccontare il seguito.
 

Durata totale novanta minuti
durata personale venti minuti
una sigaretta fumata all’uscita
10  persone disperate trovate nei bagni il giorno dopo
 

Benning, caro ragazzo hai studiato bene,
ma non è abbastanza, non lo è affatto
applicati di più la prossima volta.

Vergiss dein Ende (Way Home) – A. Kannegiesser (TFF 29)

novembre 30, 2011 § Lascia un commento

Vergiss dein Ende ha un Mondo, un’Isola dei Morti e un Istituto di Igiene. Nel Mondo le persone nascono e crescono, si incontrano e magari mettono su famiglia: trovano la via di casa. Nel Mondo gli anni si aggiungono uno sull’altro e appesantiscono le spalle dei suoi abitanti; quando le persone invecchiano la vita è sempre più irta di ostacoli e sofferenze. La strada più facile per uscire dal Mondo conduce all’Istituto di Igiene: i capelli bianchi e la pensione spalancano le sue porte e l’Istituto attende i pazienti fra bianche pareti, in letti morbidi e in cortili senza rumori. L’Istituto ha un perimetro da cui non si può uscire – se non per morire.

Qualche anziano si accorge di non essere più adatto al Mondo – perché non fa più bene l’amore, perché non ha più un compagno, perché gli mancano le energie – e sente che forse è giunto il momento di uscire di scena. Qualche anziano, però, ha una santa paura dell’Istituto e per nessuna ragione entrerebbe in quel grande edificio dove tutti i pavimenti sono lucidi. Per i vecchi amanti della libertà esiste l’Isola dei Morti, un brandello di terra in mezzo al mare: l’uomo del traghetto parte ogni giorno. Sull’Isola dei Morti ci vai per suicidarti, oppure per scoprire di poter ancora affrontare il Mondo e spostare la fine un poco più in là.

Hannelore è donna ormai anziana, costretta ad occuparsi del marito Klaus malato di Alzheimer. Il loro figlio vorrebbe mandare il vecchio nell’Istituto ma Hannelore si oppone e ogni giorno lava e nutre Klaus: lo tiene al Mondo. All’imporvviso la donna non si sente più in grado di reggere la quotidianità soffocante e scappa con Gunther, il vicino, sull’Isola dei Morti. Klaus finisce nell’Istituto (ha il suo letto, la sua camera bianca) mentre Gunther ed Hannelore provano a farla finita sull’isola al di là del mare, dove la pace della natura accompagna la fine della percezione. I due si renderanno conto di non essere ancora pronti per la morte: un gruppo di uomini del Mondo li recuperano su una barca di salvataggio.

Il titolo del film suona, in italiano: dimentica la tua fine. Klaus l’ha dimenticata, insieme a tutto il resto – non riconosce nemmeno Hannelore – e quando la moglie gli propone di fuggire dall’Istituto Igienico lui non sembra volere olterpassare i confini: senza memoria si vive bene fra pareti bianche. Gli abitanti degli Istituti – lo ricorda sempre l’ingegnere Kastorp – hanno sempre un rapporto sfasato con il tempo del Mondo.

Vergiss dein Ende mi è sembrato finora il migliore della rassegna. Un sapiente uso del colore delle immagini e un accurato lavoro sui tempi delle vite (anche nel Mondo il tempo non è così lineare) permettono alla pellicola di non scadere mai nella retorica e Kannegiesser dimostra di essere un regista marittimo, in grado di cogliere la realtà che oscilla fra le coste del Mondo e le Isole fuori da esso.

Farid al-Migliani

Woody Allen – Midnight in Paris (TFF29)

novembre 29, 2011 § 4 commenti

A Woody.

Dove sei finito Woody?

O Woody mio Woody, maestro di parola, ispirazione per molti, fonte di luce divina, sperma dello sperma d’ogni rabbino d’ America.
Oh Woody dalle fluente chioma e dallo sguardo perso e scanzonato;
Woody che ha fatto l’amore, piccolo topino circonciso, con ogni donna d’ogni latitudine; rachitico adone ti prego torna.

(anonima poesia trovata dalla maschera Giuseppina Khoo lavoratrice Rear del Reposi e gentilmente donatami alla fine della proiezione.)

Partirò da questo urlo d’amore disperato, capitato nelle mie mani più per caso che per desio, affronto l’ultimo lavoro del nostro. Certamente l’ Allen di questo lungometraggio, converranno appassionati, critici e acritici, non è l’Allen d’oro, genio vulcanico e inaspettato, ma è ormai un Allen-altro, meno straordinario e più ordinario. Con questo voglio marcare nettamente la distinzione fra pre e post, in modo da dividere e scindere i personaggi in entità differenti per poter affrontare il film con spirito non appesantito dai ricordi terribili del tempo che ormai non è più.
Quindi miei prodi sono lieto di presentarvi un giovane autore che ho avuto l’ onore d’intervistare in merito al suo Ultimo film presentato in concorso al Torino film festival, il giovane Allen-altro.

– Buongiorno Signor Allen-altro e grazie d’esser venuto appositamente a farsi intervistare dal paese di Città Laggù.
– Buona sera vorrà dire;è un piacere essere intervistato da un importante giornale come il vostro, devo anche rivelarvi che da dopo l’ operazione è la prima intervista che rilascio.
– Operazione?
– Si finalmente quest’anno ho preso la decisone definitiva e ho capito che per lavorare al mio film..
– Midnight in Paris?
– Si si proprio Midnigt in Paris, dovevo farlo, eliminare quella parte di me, ormai era solamente ingombrante e inutile; ovunque andassi la gente continuava a dire “Buongiorno Signor Allen quand’è che farà un film come Zelig?” oppure “o Woody, finalmente questo nuovo film magnifico!”, capisce anche lei che non potevo più andar avanti così, ero distrutto, diviso, parcellizzato, con un ospite ingombrante dentro di me, io.
– E allora, ci dica che ha fatto?
– Ho fatto quello che ogni persona malata avrebbe fatto, sono andato in clinica e ho profumatamente chiesto che mi venisse asportato.
– Asportato cosa?
– Aspetti aspetti che arrivo;i dottori erano scettici ma entrambi noi eravamo d’ accordo non potevamo più coesistere pacificamente, quello che è stato e potrebbe essere, il vecchio Woody, e questo nuovo, non erano fatti per coabitare lo stesso corpo e nome. Certo avevamo paura ma già altri lo avevano fatto prima di noi.
– Altri chi?
– Mi spiace ma questo non posso dirlo, la scissione è qualcosa di molto intimo e alcuni se ne vergognano oppure se ne pentono, ma tornare indietro è impossibile.
– Allora la prego, riprendiamo da dove eravamo rimasti, stava parlando dell’operazione.
– Si l’operazione lunga e dolorosa i nostri corpi vennero divisi in due metà speculari, una Woddy fiera nel suo antico retaggio ma bloccata e paurosa e io, L’ Allen altro prolifico e fine paroliere ma senza la ricerca stressante e spossante che prima mi contrastingueva.
– Ci parli di cosa è cambiato in lei
– Ora ad esempio nella creazione di questo film, mi sono principalmente basato sui gusti del mio pubblico abituale e non su me stesso, ad esempio ho rielaborato l’ idea originaria avuta da Woddy ma tarandola sul pubblico medio dei giorni nostri, è mestiere non arte, l’ esperienza mi fa dire ” Questo li farà ridere”, ” questo no”. So benissimo, e lo sanno anche loro, lo sapete anche voi, che il pubblico vuole una cosa sola ridere ma il mio pubblico ne vuole una in più far finta di pensare, avere la percezione d’ intelligenza.
– Ma lei è felice? il suo altro che ne pensa?
– Felicità, cosa è la felicità, con un film all’anno e milioni di dollari cosa vuole che sia la felicità? Ora sono più felice, ho finalmente rivelato al mondo l’ altro me stesso, non devo più nascondermi, la gente che si aspettava altro da me, di più, di ragionare, ridere consapevolmente, non lo farà e io sarò finalmente libero da quel terribile complesso d’inferiorità che provavo verso me stesso.
– Collaborerà ancora in futuro con Woody?
– Devo dire che anche in questo film, per alcune battute s’ intende mi sono avvalso del suo prezioso aiuto. Io non avrei mai pensato a dei rinoceronti.
-La ringraziamo e siamo felici che sia venuto e la salutiamo augurandole salute e prosperità per i suoi futuri film.
– Grazie a voi e buona visione.

Le parole di Allen-altro ci lasciano soli e pensosi, molte sono le domande che ci poniamo, sarà vero? sarà l’ennesimo scherzo?cosa farà in futuro? e Woody altro? Per ora non ci sono risposte ma solo mille porte che si aprono e mille specchi che si riflettono incessanti. Una cosa si può ancora dire di questo film è un muffin sgonfiato tolto troppo precocemente dal frigo. Un’atto d’amore verso una città e il suo spirito, ma a parer nostro più che amore sa di onanismo, dell’ottimo onanismo.

Raz – Rub II

Coulin e Coulin – 17 filles (TFF 29)

novembre 28, 2011 § Lascia un commento

Seguirò il commento delle registe Coulin riguardo il loro film, e farò di volta in volta le mie considerazioni. Recupero il testo dalle righe presenti nel megalibrone del TFF dato in dotazione agli accreditati. “Nel momento un cui abbiamo sentito parlare di questa storia ci siamo rese conto che era intrigante.” Ecco. Intrigante. Intrigante perché? È intrigante il fatto che 17 adolescenti decidano di rimanere incinte tutte assieme come segno di solidarietà verso un’amica che, per un colpo di sfiga (banalmente il preservativo rotto), è rimasta incinta? Ammettiamo che la cosa possa stuzzicare qualche cordicella, ma andiamo avanti col commento “e che nello stesso tempo poteva anche dire molto sulla società di oggi.” Ecco, giusto! Ma cosa? Perché francamente dal film non si capisce. Insomma, una ragazzina rimane incinta, contro l’opinione della madre e il generico e generale parere del mondo adulto, decide di tenere il bambino, riuscendo nel frattempo a creare una cricca di pseudo-madri diciassettenni che sognano una comune materna, non hippie (sia mai, troppo poco cool, e nemmeno vintage), in cui i figli cresceranno insieme, e dove i rapporti madri-figli risulteranno limpidi e amichevoli, aiutati dall’assenza del gap generazionale che, chiaramente, è solo un fatto di età. Insomma, sono queste le 17 figure che dovrebbero rappresentare un aspetto della nostra società?

Continuo con le citazioni “Le scelte disponibili sono poche per gli adolescenti e né i genitori né gli insegnanti o nessun altro trova un modo per offrire loro un’altra prospettiva.” Primo, la prospettiva altra, in realtà, non bisognerebbe aspettarla servita dal servo su un vassoio d’argento, la si dovrebbe creare. Ma va beh. Sarà poi vero che sono loro l’armata delle amazzoni che presenta le caratteristiche per ribaltare la nostra società? Francamente, a me, sembrano 17 cretine, e il film non fa che presentarci un’armata di 17 macchiette, senza alcun spessore psicologico e, anzi, qualsivoglia chance di scontro viene risolto senza spiegarlo. Ad esempio, il rapporto conflittuale tra la protagonista e sua madre, avrebbe potuto dirci qualcosa di più riguardo la decisione, da parte della protagonista, di tenere il figlio e fondare un Falansterio materno; invece, tempo qualche scena, e SBAM! madre e figlia ridono e scherzano, e magicamente la questione si risolve. Evviva!

Ma c’è un altro aspetto, il più grave, a mio modo di vedere, ed è l’assenza di una figura maschile reale, forte, autorevole o autoritaria. Manca il padre, manca l’uomo. E anche questo goal a porta vuota le registe riescono a mancarlo mirabilmente, spedendo il pallone sugli spalti. Infatti, mi sta bene parlare dell’assenza del maschio, e il film presenta tutte le carte in regola per poterlo fare: ma non c’è nessun approfondimento, nessuno sguardo critico su questa assenza, il che mi fa sospettare che le registe abbiano pagato i guardialinee e giochino in costante fuori gioco: ossia, per eliminare anche un ulteriore elemento di problematicità, il maschio, fanno che rimuoverlo. Ma il rimosso ritorna. La protagonista vive con la madre, e la figura paterna è incarnata dal fratello: del padre non ci viene detto niente. Perché non c’è? Che fa, dov’è? Boh? Come sono rimaste incinte le ragazze? In tutto questo, i rispettivi compagni sono cazzi eiaculanti, e basta: la paternità è esclusa totalmente dal discorso, senza che però venga fornita alcuna motivazione di questa esclusione.

Il film, in generale, è ipocrita. Le registe sembrano fin dall’inizio solidali con le 17 ragazzine, solidarietà che si rivela in tutta la sua inautenticità nel finale quando, la ragazza, leader delle madri adolescenziali, a seguito di un incidente, perde il figlio e lascia la città, abbandonando a loro stesse le altre madri-ragazze. A questo punto ha inizio un monologo, che definirei banale e del cazzo, in cui stringi stringi la morale è “ragazze, va bene, volevate i bambini, ma noi ve l’avevamo detto che erano solo capricci.” Ma anche qui, su calcio piazzato, le registe mancano la porta e addirittura si fanno autogol, perché in realtà non hanno nemmeno il coraggio di dire da quale parte stanno, ossia dalla parte degli adulti, dei grandi, che sanno che i figli non sono feticci, non sono oggetti che si portano a spasso per la città come simbolo della propria emancipazione perché per quello esistono le All Star. Ecco, no, niente di tutto ciò. La frase finale recita “una ragazza che sogna non si può fermare” o una stronzata simile. Della serie “sogna sogna, tanto sei un treno destinato a infrangersi contro il muro della realtà.”

Un film godibile, ma che lascia tutto invariato. Come le 17 isteriche.

Simone Traversa

Dove sono?

Stai esplorando le voci con il tag recensione su odiolode.