Della Violenza: “Diaz – Don’t clean up this blood”

Maggio 21, 2012 § 7 commenti

Recensione hegeliana in tre atti

Il cavallo di Troia

Diaz- Don’t clean up this blood, è uno dei film più discussi del momento. È perciò inutile ricordare l’importanza che una pellicola del genere riveste nel panorama culturale italiano, a livello di memoria storica. Il regista, Vicari, ha senza dubbio prodotto un’ottima pellicola, esplorando sapientemente il confine fra testimonianza storica e finzione. Ci ha regalato un film al contempo fruibile e struggente, che è insieme una rievocazione fedele e un pugno dritto allo stomaco dello spettatore – per non dimenticare. Le scene di violenza sono girate come nel migliore dei film d’azione, e dalle sale siamo usciti commossi, afflitti. Vicari ha accontentato tutti: Diaz offre suspense e denuncia politica, love stories e azione, ragazzine in deshabillé e crani fracassati, e catapulta lo spettatore indietro fino ai fatti del G8, rievocando le ragioni degli indignati. Un cocktail perfetto.
Fin dal principio del film, però, dalla mia poltroncina in fintapelle ho subodorato che qualcosa non andava. È cominciato tutto con un fastidio impercettibile, un prurito fastidioso e indistinto. Cos’era? Forse che, banalmente, mi indispettiva la spettacolarizzazione dei fatti del G8? No, non era quello. Certo, in Diaz la narrazione è affrontata utilizzando gli stessi canoni cinematografici del cinema di mercato capitalista, ovvero quel cinema che promuove da sempre l’ideologia borghese contro cui stava combattendo chi si era rifugiato alla Diaz. Ma la causa del mio attacco pruriginoso non era la patina di plastica e di inautenticità simulacrale che avvolgeva le immagini.
Riflettendoci durante la proiezione ho ritenuto, al contrario, di considerare tale specificità un pregio. Si tratta, verosimilmente, di un mezzo astuto per raggiungere il grande pubblico, e diffondere su larga scala la memoria storica dei fatti del G8. La copertina patinata e la sfavillanza hollywoodiana assurgono in Diaz al ruolo del moderno cavallo di Troia, sono uno strumento resistenza contro l’esecrabile silenzio dei media durante questi anni.
Se una valutazione del genere può sembrare inusitata, è per via di una fallacia tipica della critica cinematografica, che portiamo tutti nel cuore: l’idea è che il cinema di denuncia non può criticare la società senza criticare i linguaggi con cui la società stessa si descrive e si promuove. Secondo gli intellettuali e i grandi esperti di cinema, non si può spettacolarizzare la critica della società dello spettacolo, perché si cadrebbe in contraddizione, perché sarebbe ipocrita. Ma i risultati di questo approccio sono tristemente noti: decenni e decenni di cinema di denuncia inintelligibile al grande pubblico. Oggi qualcosa è cambiato. Ma se è vero che siamo al tramonto dell’epoca del cripticismo e dell’avanguardismo gratuito, allora è proprio Diaz il film paradigmatico che leva il sipario della nuova era, l’era di un nuovo cinema italiano, all’insegna di uno stile narrativo più democratico – più vicino al telefilm che al cinema d’essai: un cinema costellato di ossa rotte, fichette in tiro e ralenti commoventi.

La sindrome di Pontecorvo

   

Dopo un primo tentativo di riscattare Diaz, ho prestamente cambiato idea. Non ci si può autoingannare per più di dieci minuti, guardando un film del genere – il prurito resta, insistente. Certo, bisogna ammettere (contro la vulgata) che sulla spettacolarizzazione cinematografica della violenza si può chiudere un occhio. È vero, la sequenza dei pestaggi all’interno della Diaz e quella delle violenze nella caserma di Bolzaneto sono crude, pornografiche. Ma un po’ di sangue e una decina di minuti di manganellate col “tonfo” erano inevitabili: è la Storia.
Ciò che non convince in Diaz, piuttosto, sono gli espedienti retorici, la violenza espressiva e il patetismo con cui si incorniciano gli eventi del G8 in una prospettiva sommaria e monolitica. È vero, talvolta si apre uno spiraglio per il confronto dialettico: lo sguardo si sposta dietro gli scudi degli sbirri, o si insinua nelle caserme, per scoprire i timori dei responsabili del blitz: “Fate come volete”, dice uno di loro, “Ma io i miei non li tengo più”. Un tipo responsabile, ci diciamo, e lungimirante: non erano tutti cattivi, allora. Tuttavia, salvo questi brevi barlumi di polifonia Diaz è un film dove suona un solo strumento: un lungo a solo di indignata compassione – Vicari, in breve, se la suona e se la canta.
È per questo che uscito dalla sala ho ripensato al noto e citassimo articolo di Jacques Rivette, uscito sulle pagine dei Cahiers du Cinéma sotto il titolo “De l’abjection”. Chi lo conosce ricorderà che vi si denunciava l’eccesso di forza espressiva di una carrellata del film Kapò di Gillo Pontecorvo: l’inquadratura incriminata dipinge il suicidio di una prigioniera di un campo di concentramento nazista. L’articolo recitava più o meno così:

Vedete dunque in Kapò il piano dove Riva si suicida, gettandosi contro il filo elettrificato: l’uomo che decide, in quel momento, di fare un carrello avanti per inquadrare il cadavere dal basso verso l’alto, avendo cura di inserire la mano rimasta in alto esattamente in un angolo dell’inquadratura, quest’uomo non ha diritto che al più profondo disprezzo.

Un simile e legittimo disprezzo lo si prova, in Diaz, in più occasioni: nel vedere uscire dalla scuola i corpi macellati, fasciati dentro le barelle e cullati dalle note commoventi del violino di Balanescu. Lo si prova sul primo piano della bellissima Alma che, reduce dei pestaggi della caserma, si presenta sdentata, denutrita, umiliata, col culo sporco di merda, ma nonostante tutto truccatissima e stupenda, i capelli che ondeggiano nel vento accompagnati dal suono languido del pianoforte.
Simili inquadrature, oltre a sfiorare il patetismo più aberrante, suscitano a tutti gli effetti “il più profondo disprezzo” di cui parla Rivette.

Il gioco della bottiglia

Sia lode al dubbio!
Vi consiglio, salutate 
serenamente e con rispetto
chi 
come moneta infida pesa la vostra parola!
Vorrei che foste accorti,
che non deste 
con troppa fiducia la vostra parola.

Ho concluso sull’idioletto di Vicari, sul suo stile personale. Resta da valutare il messaggio del film, e ho già rammentato l’indiscussa importanza di una ricostruzione tanto rigorosa dei fatti di Genova. Vorrei perciò spendere le mie parole conclusive per segnalare alcune interpretazioni controverse a cui la pellicola ci invita.
Tutti ricorderanno che la sequenza di apertura registra il volo di una bottiglia che va a frantumarsi su un marciapiede. È la bottiglia lanciata durante un assalto che alcuni ragazzi della Diaz improvvisano contro una jeep della polizia. La bottiglia è la chiave di volta del film: lo apre e lo chiude. Qual è il suo perché?
La bottiglia serve a ricordare allo spettatore come sia stata una bravata (fatale) a innescare gli episodi di violenza del 21 luglio. Ma non si tratta di asserire che tutto è avvenuto per una marachella presa troppo sul serio. Non è l’idea di Vicari, il quale, per non lasciare spazio a derive interpretative, ha inserito nel finale una scena significativa che intendo ricordare.

Etienne (di professione incendiario di cassonetti e intrepido black block) e la sua amica Cecile entrano nella scuola devastata dal blitz e si rendono conto di cos’è accaduto. Mentre la biondissima Cecile, sconvolta, appende il cartello di cui il sottotitolo del film (don’t clean up this blood), Etienne ha un’intuizione sconvolgente e davvero singolare, perché si mette a correre a rotta di collo fuori dalla palestra, oltre il portone e il cancello, fino nella strada. Cecile, che è una ragazza ragionevole, lo insegue per interrogarlo. Lui risponde lapidario: “È noi che cercavano”. Estrae dalla tasca la maschera antigas che gli ha regalato il suo compagno di scorribande e la getta teatralmente a terra, per volgersi e camminare verso un orizzonte luminoso. È redento: ha finalmente compreso che la violenza è sbagliata, perché porta solo alla violenza.

La morale di Diaz è semplice: sui black block grava la responsabilità della repressione e della violenza condotte dalla polizia italiana contro gli ospiti della scuola – repressione che, se da un lato è cieca e ingiustificata, dall’altro ha la sua origine nei cassonetti incendiati, nelle bottiglie lanciate contro le camionette, nel comportamento irresponsabile e sconsiderato dei “ragazzi violenti”.
In Diaz, come in ogni film americano, ci sono i buoni e i cattivi. Alcuni cattivi (i poliziotti) sono certo più cattivi di altri (i black block). Ma la denuncia di Diaz non si estende solo ai primi, e lascia intendere con faciloneria che i ragazzi che hanno incendiato Genova siano la causa prima di quanto accaduto alla Diaz. Certamente vi è una parte di verità – ma la realtà non è così semplice come nei film.
In definitiva, il film di Vicari, più che un film sulla violenza, o un film contro la violenza, o un film con della violenza, va a ragione classificato come un film violento: violento nell’impugnare il bisturi con cui divide il bene dal male, e violento negli espedienti retorici (le carrellate à la Pontecorvo, i ralenti commoventi, le note soffuse della colonna sonora) che impongono un’unica interpretazione, un’unica prospettiva di fruizione per lo spettatore. Diaz, come ogni buon film americano, dipinge tutto o di bianco o di nero. Si tratta di un film pericoloso: per il suo messaggio e per il suo stile, è un arma a doppio taglio, una bomba a orologeria. Bisogna auspicarsi che non faccia scuola, e che questo cinema di denuncia patinato, superficiale e inflessibile non si imponga su un “Altro” cinema, quello che lascia ancora respiro alle domande destinate a rimanere aperte. Perché stordire lo spettatore con sangue, biondine nude e melodie ipnotiche non è fare cinema di denuncia – al massimo, è fare cinema di regime, o cinema hollywoodiano di serie B.

Andrea Bacino

Il movimento NoTav, i teoremi e la politica che crede ancora in Dio

marzo 4, 2012 § 3 commenti

Questo articolo parla di NoTav e di letteratura. Della convinzione che gli “eventi-NoTav” delle ultime settimane si possano comprendere di più attraverso la letteratura. Nulla di più odioso, a prima vista: non ho vissuto i fatti in prima persona, sono in università e ho speso tutta la mattina a scrivere questo articolo. Sulla letteratura. Eppure credo ancora in lei e poiché la mia esperienza di queste settimane è avvenuta solo a distanza, vorrei comunque cercare di dare il mio contributo.

Due fatti: gli arresti emessi dalla Procura di Torino a fine gennaio in seguito agli scontri  di quest’estate; gli sgomberi iniziati in Valle l’ultimo lunedì di febbraio. Mi chiedo: esiste una connessione fra i due eventi? É verosimile che esista: ventisei militanti NoTav (fra cui alcuni leader di una certa rilevanza) vengono arrestati ed esclusi dall’azione politica. Le ordinanze sono scattate tre settimane prima degli sgomberi, tre settimane prima della resistenza e degli scontri di questi giorni. Mentre i blocchi vengono forzati dalla polizia, il movimento conta fra le sue fila ventisei militanti in meno: il disegno è lineare, fin semplice nei suoi tratti.
Perino, uno dei portavoce più influenti del movimento, non componeva ragionamenti molto diversi all’indomani delle ordinanze cautelari: “è una cosa preordinata”, comunicava ai giornali, “un segnale chiarissimo a tutti quelli che stanno cercando di alzare la testa in Italia e che prendono il movimento NoTav come esempio: vogliono dire a camionisti, pescatori, e così via di stare tranquilli altrimenti si finisce tutti in galera. Si vuole criminalizzare il movimento.” Una cosa preordinata, un disegno: qualcuno – lo Stato, i poteri forti – ha causato gli arresti per ottenere un fine determinato: indebolire il movimento. Caselli, allora, è un esecutore del disegno, o teorema giudiziario.
Tutto era stato già scritto – e non lo afferma solo Perino. I giornali autorevoli e le istituzioni hanno proposto un’analisi del passato ritornante: “state attenti”, dicono, “che nel movimento si sta infiltrando l’antagonismo e vi ricordate cosa significa, vi ricordate gli anni Settanta? Il piombo, il piombo!” Il presente si legge come una scrittura del passato, un disegno finalistico dove tutto si tiene. E anche le scritte sui muri di Via Po è come se fossero già scritte: il linguaggio non sembra cambiare di molto dalle parole di un tempo. É allora perfettamente verosimile che lo Stato abbia applicato il suo teorema (il teorema giudiziario) e che lo abbia applicato perché il movimento è ormai pronto ad avviare il suo Settantasette. Tutti scrivono – sui giornali, sui muri – e le loro scritture sono in fondo lineari, credibili. Preordinate, direbbe Perino.
Il teorema – come ogni teoria del complotto – mi ricorda la Provvidenza di Manzoni, il Disegno di Dio. (Ecco la letteratura che avevo annunciato.) Tutto è scritto nelle stelle, tutto segue il suo corso. Tutto è perfettamente verosimile e comprensibile perché è stato già scritto. Il Grande Vecchio si sostituisce a Dio, ma da un punto di vista narrativo le carte in tavola non cambiano di molto: i paradigmi di interpretazione della politica e del giornalismo sono manzoniani e provvidenziali – e c’era da aspettarselo alla luce della cultura letteraria insegnata a scuola e dal nostro intrinseco cattolicesimo.
Ma Manzoni è morto, e dopo lui altri son venuti. La letteratura è cambiata e ha pensato e scritto diversamente: senza Provvidenza e senza fatti preordinati. Propongo di trascinare quest’altra letteratura nel contesto attuale  – i nostri “eventi-NoTav” – con la speranza di dischiudere riflessioni e interpretazioni più convincenti dell’esistente, e più rivoluzionarie.
Dopo Manzoni, i fatti non stanno più insieme e il mondo è un’accozzaglia i cui eventi sono spesso privi di spiegazione. Viene a mancare il grande paradigma che teneva assieme il senso del mondo: Dio – o il complotto. I fatti non si connettono armoniosamente uno all’altro, ma si disperdono, ed è estremamente faticoso recuperare dei fili sottili nel guazzabuglio. La realtà si riduce a una serie di eventi discontinui, una complessità di cause il cui motore è spesso aleatorio.
Ribalto allora quanto affermato finora dai protagonisti di queste settimane. Caselli non ha agito secondo un teorema, come vorrebbe Perino. Il movimento non è una riproposizione degli anni di piombo, come desidererebbero certi giornalisti e tutori dell’ordine. Non esiste una connessione diretta e lineare fra gli arresti di Caselli e la repressione di questi giorni durante gli sgomberi valligiani. Poste queste prime ipotesi sperimentali, si possono tentare le prime congetture, le prime riflessioni.
La Procura di Torino ha ricevuto gli incartamenti dalla polizia e ha lavorato seguendo un normale iter legale, senza infrangere in modo evidente lo stato di diritto democratico. Questa riflessione ne può aprire un’altra: cosa si intende per legalità? Un insieme di scritture determinate da un codice? O un insieme di regole che di volta in volta si incarnano nella contingenza, nei corpi che si muovono e agiscono negli spazi? E, ancora, che rapporto c’è fra la legalità e l’azione politica di movimento? Come si deve porre il movimento nei confronti delle leggi? Credo siano domande molto più interessanti, che non potrebbero essere poste se si definisse l’azione di Caselli uno strumento in mano a uno stato repressivo, quindi intrinsecamente fascista. L’attuale contesto è molto più intricato e solo i Wu Ming possono ancora credere che il mondo si divida linearmente fra buoni e cattivi (loro sì, sono manzoniani, ma forse non lo sanno).
Anche in questo anfratto del pensiero, la letteratura, in quanto scrittura agita, può tornare utile. Non riconoscere le leggi come una scrittura assoluta e preordinata, ma come un complesso di regole da porre sempre in discussione, da modificare e da riscrivere creativamente potrebbe essere una via interessante per un movimento che voglia interrogarsi sul rapporto fra azione politica e diritto. In fondo sono riflessioni non del tutto mie, e traggono spunto da un’altra scrittura originata nell’area del pensiero antagonista – una scrittura molto più interessante delle scritture stantie sui muri di Via Po. (Qui il link).
Questo filo di pensieri nato da Caselli e confluito nel dibattito su violenza, legge e giustizia può essere uno dei tanti percorsi in cui insinuarsi nel momento in cui venga disconnesso il Disegno. Un altro territorio interessante potrebbe essere quello del movimento NoTav stesso: senza il paradigma-anni-Settanta, come si può comprendere quanto sta accadendo in valle? La Stampa e La Repubblica avrebbero i loro problemi di scrittura e di interpretazione.
Vorrei che si torcesse il collo alla retorica e ci si liberasse delle frasi fatte e delle letture preconfezionate (“Manganelli lo aveva detto – lo aveva scritto – che ci sarebbe scappato il morto!”). Vorrei vedere la fine di uno spettacolo in cui a una lettura stupida – Manganelli su tutti – si risponda con altrettante interpretazioni stupide. La fine delle sceneggiature verosimili, che, gira e rigira, finiscono costantemente per avvantaggiare chi esiste già e mai chi non esiste ancora, o chi potrebbe esistere.
I fatti spesso non si legano mai bene assieme e, se qualche volta si incontrano, dietro di loro si nasconde un’infinità di cause complessa e variegata. E poi ci sono i fatti apparentemente insignificanti, inutili e casuali che possono dischiudere deboli connessioni di senso, ma impreviste: la vita di un ragazzo in carcere, i movimenti della polizia fra le due e le tre del pomeriggio, gli sguardi di un valligiano rivolti al suolo e le pause nei monologhi di un anarchico (ma era anarchico?) che catechizza uno sbirro.
Fatterelli assurdi, lo so. Ma è inevitabile che sia così: non posso ora cogliere il pulviscolo di fatterelli da cui avviare altre riflessioni, meno assurde. Io sono qui, in università, leggo le notizie dell’ultim’ora e sullo schermo del computer mi arrivano solo le sceneggiature – e i disegni della Provvidenza.

François Milieu

Il gioco delle sedie e le borse EDiSU

febbraio 27, 2012 § Lascia un commento

Questa mattina, sveglio dopo undici ore di sonno, immergendo i biscotti nel caffelatte, ho avuto l’occasione di imbattermi in un borsista idoneo e beneficiario, una categoria bistrattata di questi tempi, una cerchia di privilegiati destinata ad estinguersi: vivo infatti con uno di quei pochi studenti borsisti che è riuscito a trovare una sedia quando Cota ha spento la musica.

Quando facevo la materna, le elementari forse, andava di gran moda per le feste di compleanno all’oratorio, il gioco delle sedie, stupido ed elementare ma allo stesso tempo crudele e darwiniano: ti veniva imposto infatti di correre intorno ad un cerchio di sedie con i tuoi compagni, pronto a scaraventarti a peso morto sulla prima sedia libera quando la mamma del festeggiato spegneva la musica. Al primo giro le sedie erano tante quante i bambini se non di più; dal secondo in poi la suddetta mamma o chi per essa si premurava di togliere una o due sedie determinando così l’esclusione di quei bambini che non avrebbero trovato posto al tacere della musica.

Questa mattina, mentre facevo colazione con il mio raro esemplare di borsista idoneo beneficiario, costui mi raccontava di come la sua amica Pina, straniera, non avesse ricevuto il rimborso della prima rata e di come questo rischiasse di compromettere, meglio, stroncare la sua carriera scolastica. Prima di fermare la musica infatti, il Presidente Cota si era infatti premurato di togliere il ben più dei due terzi delle sedie.

Sicuramente il Presidente della Regione Piemonte non ha avuto occasione di imparare il gioco delle sedie per come l’ho conosciuto io: la versione federalista pare molto più selettiva.

Così questa stessa mattina, mentre io bevevo il caffelatte con il beneficiario e la sua amica Pina (che il suo nome sia inventato non significa che non si possa raccontare lo stesso la sua storia), un confronto tra Atenei e Regione ha provato a stabilire le regole per il prossimo anno, a disporre le sedie prima di far partire di nuovo la musica. Il lavoro per la definizione del bando per le borse di studio universitarie del prossimo anno si è subito arenato sulla questione finanziaria: i fondi stanziati al momento basterebbero infatti a malapena a garantire la seconda rata delle borse di quest’anno, lasciando questa voce del bilancio a secco per la copertura delle borse dell’anno prossimo.

La stretta imposta sulle risorse ha portato il dibattito a focalizzarsi sulla questione del merito di modo da poter portare a frutto tutte le borse erogate senza perdere neanche un centesimo sugli studenti non meritevoli. Di fronte dunque ad un investimento limitato per un numero di studenti (e di conseguenti circoli virtuosi) potenzialmente illimitato si è fatta ancora una volta la scelta più facile: invece di aumentare le risorse per andare incontro alla domanda, si è deciso di rendere l’accesso a tali risorse ancora più difficile e selettivo di modo da poter poi magari vantare un successo nella copertura di tutte le borse di studio.

Le sedie saranno sempre meno, e quando si fermerà la musica la prossima volta rischia di non sedersi nessuno.

Girlson Film
Foto: mirko isaia photography

Quale futuro per l’università?

febbraio 21, 2012 § 3 commenti

Proprio come fanno le persone a capodanno, l’Europa ha fatto i suoi fioretti per l’inizio millennio. “Diventare l’economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo, in grado di realizzare una crescita economica sostenibile con nuovi e migliori posti di lavoro e una maggiore coesione sociale” (documento conclusivo del Consiglio di Lisbona, marzo 2000). E proprio come le persone, anche l’Europa ha prontamente disatteso le sue promesse.


La strategia di Lisbona, piano unitario di sviluppo europeo per il decennio 2000-2010, prevedeva di portare la conoscenza al centro dell’agenda della società e dell’economia europea. Nonostante i buoni propositi, l’Europa ha dovuto ammettere di non aver affatto raggiunto i propri obiettivi (valutati con appositi indicatori statistici). E nonostante il progetto Europa 2020 rilanci con obiettivi ambiziosi sui piani dell’occupazione e della conoscenza (aumentare l’occupazione della fascia di età dai 20 ai 64 anni al 75%, portare l’investimento in ricerca e sviluppo al 3% del PIL o portare al 40% il numero di 30-34enni in possesso di titolo di studio), oggi è quanto mai difficile crederci.

Cosa è andato storto?
Si è fatto un gran parlare di società ed economia della conoscenza. Molta retorica politica del ‘900 predica l’avanzamento scientifico (leggi tecnologico) come un indispensabile volano di sviluppo e di crescita economica. Sebbene sia ancora lungi dal potersi definire un bene pubblico perfetto, nel Novecento la conoscenza ha fatto passi da gigante in quella direzione. Uno dei ruoli chiave di questa diffusione e democratizzazione del sapere è stato sicuramente giocato dall’avvento della così detta “università di massa”.
Nel nostro paese, la percentuale di studenti universitari sul totale della popolazione è passato dall’inizio alla fine del ventesimo secolo da meno di 1 su 1000 ad un 3% circa, con una brusca accelerazione nel secondo dopoguerra. A oggi il numero di studenti universitari in Italia, su una popolazione di circa 60 milioni di abitanti, si è assestato tra il milione e sette e il milione e ottocentomila, con una decrescita negli ultimissimi anni.
Complice anche l’alto tasso di abbandoni, l’output di giovani laureati nell’università italiana risulta spaventosamente basso se lo accostiamo a quello di altre nazioni: con il 20% della popolazione di età tra i 30 ai 34 anni in possesso di titoli di studio di terzo livello ci collochiamo al terzultimo posto tra i paesi OCSE, subito dopo il Messico, ben lungi da paesi come gli USA o la Francia, la cui percentuale è più del doppio della nostra, per non parlare della Corea, paese che sta vivendo una crescita economica senza paragoni, dove quasi due giovani su tre sono laureati.
Eppure, nonostante l’esiguo numero, assistiamo al dilagante aumento della disoccupazione tra i giovani laureati. Insomma, i giovani laureati in Italia sono pochi, eppure sono troppi – almeno dalla prospettiva del mercato del lavoro.
Se il sistema economico non sa che farsene dei giovani laureati, a che pro illudere dei ragazzi con la solfa stantia della “classe dirigente del futuro”, quando invece la loro laurea in lettere non farà che render loro più difficile l’accesso al call center? Se sforniamo più laureati di quelli le cui legittime aspirazioni riusciamo a soddisfare, a che pro destinare così tanti fondi alla spesa pubblica in istruzione invece di liberarli ad esempio per la sanità o per i servizi sociali? A che scopo investire sulla formazione di talentuosi dottorandi che non potremo riassorbire in alcuna professione di ricerca, regalando così intelligenze formate a qualche paese straniero o semplicemente sprecandole?
In questa chiave di lettura trovano una loro legittimità tutte le manovre politiche (e ancor prima culturali) volte ad alleggerire un sistema universitario sovrabbondante rispetto alle esigenze della società. Certo, nessuno (nemmeno il governo dei tecnici con la sua fiera indifferenza a velleità quali il consenso popolare) oserebbe affermare pubblicamente qualcosa di così scomodo come “rottamiamo l’università”: si parla più elegantemente di meritocrazia e razionalizzazione (Gelmini), si invita al ritorno ai lavori manuali (Tremonti), si additano come sfigati coloro che studiano ancora a ventotto anni (Martone, che essendo un tecnico non ha bisogno di essere elegante).
Questo governo si trova così a dover ridimensionare un sistema universitario ipertrofico, un edificio eretto con ingenuo ottimismo sulle fondamenta della retorica utopica della società della conoscenza, rimpiazzandolo con un edificio più snello ed efficiente, sostenuto dalle solide fondamenta del sistema economico.

A brave new world?
I piani per la demolizione, abbozzati dal team di Gelmini e migliorati dal tecnico Profumo, sono già avviati su molti fronti.
Oggi in Italia c’è circa 1 professore strutturato ogni 30 studenti: un numero particolarmente basso, che si traduce nell’affollamento delle strutture e nella superficialità con cui vengono “somministrati” certi corsi o seguiti certi tesisti. In Svezia questo numero è quasi il doppio. Per riportare a livelli accettabili questa proporzione, a beneficio della qualità della didattica, due sono le strade percorribili: aumentare i docenti o diminuire gli studenti.
In Italia circa 10.000 dei poco meno di 60.000 docenti e ricercatori italiani andranno in pensione nei prossimi dieci anni. Con un’azione legislativa di attuazione la legge Gelmini, il Ministero ha fissato rigidi criteri finanziari per le assunzioni, che non potranno mai superare un’assunzione per ogni due pensionamenti. A tappare le falle provvederà presumibilmente quello stuolo di “accademici usa e getta”, giovani brillanti e precari che battono alle porte dell’università sperando di non rimanere fuori dall’imbuto, e il cui numero oramai supera quello dei docenti strutturati.
A fronte di un questo calo del personale si farà allora urgente la necessità di abbattere il numero degli studenti, a cominciare dagli improduttivi fuoricorso che, secondo l’opinione diffusa dei politici e dei media, stanno sprecando il loro tempo e stanno parassitando risorse pubbliche.
Il Decreto Ministeriale 17 del 2007, promulgato dal governo Prodi-Mussi, ma che solo negli ultimi mesi sta venendo applicato, sancisce una serie di regole auree quali ad esempio il limite massimo di studenti per docente in base a specifici corsi di laurea. Pensato forse in origine come una chiave per aprire gli accessi a nuovo personale docente, oggi sta venendo impugnato dall’altra parte, favorendo in molte università l’adozione del numero chiuso.
Ma le misure più efficaci per ridurre il numero di studenti e/o per scaricare su di loro parte gli ingiustificabilmente alti costi dell’università pubblica devono ancora manifestarsi. Alcuni politici, economisti ed accademici guardano infatti a quanto è avvenuto nel Regno Unito con l’implementazione del rapporto Browne: le rette universitarie imponibili dagli atenei (e di fatto imposte dalla maggior parte) sono passate da 3000 a 9000£. Agli studenti è stato offerto per farvi fronte lo strumento dei “prestiti d’onore”. In Italia, dove il vecchio sistema di diritto allo studio fondato sulle borse di studio sta venendo lasciato morire di atrofia di finanziamenti, questo sistema potrebbe permettere l’accesso agli studi agli studenti “migliori”, che potrebbero altresì scegliersi gli atenei “migliori” operando così una selezione naturale in un contesto di competizione che porterebbe loro un sacco di iscritti e dunque soldi come “premio” per la loro qualità.
E se anche accadesse, come sta avvenendo nel Regno Unito, che molti studenti migrassero per studiare all’estero, che importanza avrebbe, visto che il sistema economico non sa che farsene di tutti questi laureati? Inoltre il prestito avrebbe il vantaggio di spostare i costi dell’università su chi beneficia dell’istruzione, solo se guadagnerà abbastanza da potersi permettere di ripagarlo; se non potesse allora sarebbe colpa dell’università, che avrebbe formato un professionista inutile o incapace, quindi a lei spetterebbe di pagarne i costi. Insomma, un sistema che moltiplica il denaro, e che rischierebbe di trasformarsi in una bolla finanziaria esplosiva solo nel caso in cui si arrestasse la crescita del PIL (opzione che i sostenitori del prestito d’onore ritengono semplicemente impossibile a fronte delle leggi del mercato, poco importano le dichiarazioni di recessione recentemente fatte dall’ISTAT!).
Infine, all’eccessivo numero di corsi, sedi e atenei metterà presto un freno l’ANVUR, l’agenzia di valutazione nazionale, vero e proprio braccio armato del Ministero. Un decreto di recente scrittura attribuisce infatti all’agenzia il potere e dovere di “accreditare” le strutture che soddisfano certi requisiti da essa sanciti ovvero di “sopprimere” quelle che non li rispettano. Una mossa volta a promuovere la competizione tra atenei premiandoli con la sopravvivenza, liberando la politica dallo scomodo ruolo di giudice e boia per affidarlo alle capaci mani “tecniche” dell’ANVUR.
Queste sono le incisive misure che il presente governo sta attuando per riportare l’università dall’iperuranio onirico della “società della conoscenza” alle necessità concrete del sistema economico. Promuovendo la ricerca applicata e il trasferimento tecnologico, così come l’apertura dei CdA agli esterni all’accademia, la politica si è rivendicata il ruolo del Cupido nella meravigliosa storia d’amore tra la CRUI (Conferenza dei Rettori delle Università Italiane) e Confindustria.
Il risultato da qui a dieci anni dovrebbe essere un’università ridimensionata, con una costellazione di atenei di medio-bassa qualità che erogheranno una formazione adeguata alla richiesta di maestrine, ingegneri e azzeccagarbugli; su questi svetteranno dei poli di eccellenza che accetteranno solo pochi studenti “migliori”, addestrati per diventare (questa volta per davvero!) la classe dirigente del futuro, a cui quindi sarà perfettamente legittimo chiedere di pagare i costi dell’istruzione di alta qualità che riceveranno.
Gli ultrà dell’università pubblica di massa di alta qualità non potranno allora che rassegnarsi alla logica lineare sottesa a questo teorema: si tratta del risultato migliore possibile dato questo sistema economico. L’università così com’è sta al sistema industriale italiano, col suo scarso appetito di laureati, come le case abusive alle pendici dell’Etna: è un edificio irragionevole rispetto alla morfologia su cui poggia.

Una prospettiva diversa
C’è una premessa implicita su cui si regge tutto il ragionamento: l’analogia tra il sistema economico e la conformazione del territorio. Se accettiamo che il sistema produttivo sia un dato inemendabile di cui la politica debba prendere atto per modellare sopra a questo un sistema di società allora il ragionamento non fa una grinza. Ma c’è un altra prospettiva per vedere la cosa, spesso messa in ombra dalla prassi oggi inveterata di considerare l’economia una scienza descrittiva di uno stato di cose non modificabile. Pur concedendo che un cambiamento del sistema universitario non possa prescindere da una maggiore permeabilità del mondo economico e della società tutta verso la conoscenza, invece di dismettere gli investimenti sul sistema formativo (che già non è sufficiente per sprigionare appieno tutto il potenziale cognitivo della nostra generazione) potremmo ripensare una società ed un mondo del lavoro capaci di assorbire il valore aggiunto di tutto quel capitale umano che ad oggi stiamo sprecando o esportando.

Marco Viola


L’individualismo ai tempi dell’austerity

febbraio 13, 2012 § 2 commenti

Lo spread sale, lo spread scende, lo spread decide il buongoverno. I giornali sono pieni di paroloni e articoli che hanno tutta l’intenzione di non farsi leggere. In tv gli spot invitano tutti a comprare, giocare, investire e richiedere mutui. Nei dibattiti televisivi gli esperti di questo e quello passano il loro tempo a ripetersi che la politica ha fallito e lo confermano gli stessi politici nelle interviste. Qualsiasi gesto compiuto da una controparte, un partito, un movimento, un gruppo di attivisti non viene più discusso nel merito, qualsiasi giudizio viene espresso per screditare l’avversario e accreditare la propria fazione, non si può più parlare di nulla. Esistono solo giusto e sbagliato, ognuno si erige a giudice supremo: questo è il livello di dibattito che la classe politica attuale, più che la politica, ha portato nel nostro paese.
Viviamo una situazione drammatica, nella quale ogni aspetto della nostra vita, dallo stipendio alla pensione, viene messo continuamente in discussione dalle scelte politiche imposte da una precisa ideologia economica, eppure nel quotidiano sembra non accadere nulla di diverso da ciò che era prima, ma gli stravolgimenti sociali, si sa, avvengono per piccoli passi.
Ognuno di noi gode, per lo più inconsapevolmente, di agevolazioni, servizi, diritti, senza sapere come sono stati conquistati.
Nel momento in cui il costo di un determinato servizio aumenta e non ne riceviamo più i vantaggi, ci sentiamo isolati, traditi e impotenti. Come se avessimo perso un privilegio e non un diritto.
Guardandoci intorno non troviamo alcun luogo in cui poter esprimere il nostro disagio, nessuno a cui rivolgerci e con cui costruire qualcosa per poterci riappropriare di quello che ci viene tolto, nessun meccanismo che dia la possibilità alla collettività per riscattarsi e muoversi, dal basso.
Nella società attuale, gli spazi di aggregazione in cui poter condividere queste battaglie sono pressoché nulli.
Una valida eccezione è l’Università, dove la comunità studentesca ha la possibilità di confrontarsi, scambiare opinioni, criticità, pensieri. Lì si possono costruire dei veri e propri gruppi solidali in grado di portare avanti battaglie comuni, che vanno da come ripristinare gli appelli al funzionamento dell’intera Università.
La dinamica di ciò che accade in questi luoghi ha poche analogie con quello che accade in altri ambienti, forse ancora un poco nella fabbriche o nei teatri, ma decisamente non negli ambienti lavorativi contemporanei, come i call center, le catene commerciali di fast food, abbigliamento…
Ciò che ci accomuna al resto del mondo lavorativo è la frequente tendenza a non condividere i problemi, o almeno a non cercare soluzioni a questi problemi con i nostri colleghi o compagni di corso. E spesso non ci rendiamo conto che quasi tutti i nostri problemi sono generati da una stessa matrice, la crisi.
Sto vivendo una crisi, c’è sempre una crisi nel momento in cui qualcosa non va.” (cit. Bluvertigo)
Lungi da me tentare spiegare qui cos’è la crisi e come è stata generata, dirò soltanto che le scelte fatte in tempo di crisi non sono casuali: tagliare gli stipendi, abbassare drasticamente le risorse delle Regioni, quindi imporre un aumento dei costi dei servizi pubblici, portare la gestione dei beni comuni nelle mani di privati, derogare all’articolo 18, istituendo i licenziamenti liberi, sono tutte scelte politiche; se poi queste scelte sono imposte da un governo che si definisce “tecnico” per coprirsi le spalle, in nome della coesione nazionale, e per sentirsi legittimato a compiere una vera e propria macelleria sociale, peggio ancora.
Teoricamente lo Stato dovrebbe farsi garante della salute e del benessere dei propri cittadini, per cui in una situazione di crisi come questa, dovrebbe provvedere a sanare le richieste di aiuto, con una maggiore offerta di servizi e agevolazioni.
Ciò che sta accadendo è l’esatto contrario.
Quest’anno la situazione drammatica delle famiglie italiane ha fatto sì che le richieste di borse di studio Edisu aumentassero, come di contro-risposta la Regione ha stanziato molti meno fondi dell’anno scorso. È ormai palese l’accordo tra Regione e fondazioni bancarie per far fallire il sistema di erogazione delle borse di studio e sostituirlo, già dal prossimo anno, con i prestiti d’onore. Come risultato di tali scelte quest’anno il 70% degli idonei non riceverà alcun aiuto economico per poter studiare e, con ogni probabilità, dovrà tornarsene a casa.
Tutto ciò, probabilmente, è da ricondurre alla propensione dello Stato italiano per un welfare familistico, piuttosto che per la tutela del singolo cittadino: così chi ha una famiglia alle spalle con un reddito dignitoso sarà molto più agevolato degli altri nell’entrare in Università, così come nel permettersi una casa in affitto e poi a laurearsi.
Ciò che ci rende simili è la nostra condizione sociale, quella di cittadini, per cui ad una determinata azione politica dello Stato corrisponde una conseguenza per tutti.
La classe politica degli ultimi anni, nei suoi disastri e nelle sue miserie, ha fatto sì che si sviluppasse in Italia una forte ondata di “antipolitica”, volta ad allontanare le persone dal porsi le giuste domande, a svilire il senso del dibattito politico trasformandolo in mera cagnara tra tifoserie, a svuotare gli organismi decisionali, come il Parlamento, di ogni significato politico e a delegittimare qualsiasi forma di politica. Per troppo tempo ci hanno fatto credere che i problemi della collettività non fossero responsabilità di questi personaggi. Troppo a lungo ci hanno fatto credere che i problemi sociali fossero questioni puramente individuali di qualche disagiato e che i problemi individuali di un singolo parlamentare fossero problemi sociali. Troppo a lungo la classe parlamentare ha dettato al popolo l’agenda politica, i temi d’interesse, sollevando dibattito solamente laddove fosse strumentale al perseguimento dell’interesse “di casta”, è ora che venga innescano un meccanismo contrario, per sviluppare dibattito laddove la collettività ne senta realmente la necessità.
In questo periodo abbiamo capito che questo modo di amministrare l’economia danneggia tutti, specie se l’economia si svincola dai paletti che la politica dovrebbe porle.
Se ci lamentiamo di questa classe politica incapace di rappresentare quelle che sono le vere richieste delle persone, poiché si organizza in modo troppo verticista per poterlo fare, dobbiamo essere noi in primis a rimetterci in gioco e a ripensare collettivamente ciò che direttamente ci riguarda.
Per fare ciò non possiamo permetterci più di giocare una partita uno contro tutti, dobbiamo necessariamente abbattere le barriere di categoria che il “dividi et impera” più che mai attuale ha posto tra di noi e ricostruire una rete di pensiero che possa in un futuro molto prossimo riappropriarsi dei diritti che ci spettano, di una condizione dignitosa della vita, del lavoro e della formazione, nessuno escluso, in nome del bene comune e non dell’utile individuale.

Camilo 2.0

Call for Riot

gennaio 30, 2012 § 1 Commento

ODE lancia un appello ai movimenti, ai rivoltosi, ai rivoluzionari di strada, ai facinorosi, alle teste calde, agli intellettuali di sinistra, ai poeti delle sommosse, ai nostalgici delle avanguardie, ai resistenti, agli antagonisti e agli utopisti.

Vi invitiamo a immaginare nuove pratiche di lotta nelle piazze e nelle strade, a descrivere tecniche di sommossa alternative, a inventare tattiche inedite da contrapporre alle oscure forse della reazione. Le migliori invenzioni verranno pubblicate sul prossimo numero del giornale e sui nostri mezzi di informazione dispersi sul web (anche quelli occulti).

Questa è una Call for Riot. A differenza delle tradizionali call for papers (noiose competizioni per la pubblicazione di soporiferi testi accademici valutati da commissioni di dotti esperti dal bianco pelo), noi vogliamo dei progetti in grado di figurare sotterfugi sovversivi per inediti tumulti.

Noi vogliamo scardinare la grammatica dei corpi in protesta. Vogliamo rilanciare nuovi linguaggi, promuovere una rivoluzione dei gesti e incentivare la creatività immaginosa delle proteste. Immaginare tecniche di rivolta possibili è il primo ciottolo sul sentiero della realtà a venire.

L’Orizzonte degli Eventi mette a disposizione le sue pagine centrali. I migliori progetti di immaginarie pratiche di lotta troveranno degna esposizione nelle nostre pagine, prima sul numero cartaceo in uscita a marzo, e più avanti su una pubblicazione online.

Per la pubblicazione su cartaceo Inviate entro e non oltre il 15 febbraio i vostri progetti all’indirizzo redazione.ode@gmail.com
Per la pubblicazione online (quindi per i più pigri) saranno accettati anche progetti pervenuti entro il 15 marzo.
Per ulteriori informazioni odiolode.wordpress.com

La notte buia dei NoTav: 26 arresti

gennaio 26, 2012 § 2 commenti

Raffica di arresti tra attivisti NoTav

(di Ivan Crivellaro)

Nella mattinata la polizia ha arrestato circa una quarantina di attivisti NoTav, in riferimento agli scontri avvenuti durante la manifestazione in val Susa del 3 luglio 2011. L’operazione è avvenuta in varie province italiane, oltre che in alcuni comuni della valle Susa, e anche in territorio francese.
Ad ora si ha notizia di 26 ordinanze di custodia cautelare in carcere, 1 persona ai domiciliari e 15 obblighi di dimora. I reati contestati sono resistenza, violenza, lesioni, danneggiamento aggravati in concorso.
Questa operazione è l’ennesima prova di forza delle autorità contro chi si oppone alla realizzazione di un opera inutile e dannosa per il territorio, che richiede enormi spese che vengono tolte al diritto allo studio, sanità, lavoro, etc..
Alcune delle ragioni di chi protesta contro il TAV sono le seguenti.
Dal punto di vista economico, il TAV viene sempre difeso come “opera necessaria per l’Italia per il suo sviluppo economico”, in realtà la val Susa dispone già di una rete ferroviaria utilizzata ben al di sotto della sua capacità. Un altro dato che smentisce questo concetto è che con la apertura del traforo del San Gottardo in Svizzera, buona parte del traffico merci lo utilizzerà, rendendo di fatto inutile la costruzione del TAV. Ma soprattutto ha senso realizzare, nella situazione di crisi attuale, un opera che costerà all’Italia almeno 40 miliardi di euro, circa 5000 euro al cm?
Sempre da questo punto di vista si devono aggiungere le spese dell’enorme schieramento di forze dell’ordine presente ogni giorno in val Susa, si è stimata una cifra di circa 90000 euro al giorno.
Si tenga anche conto che dal punto di vista ambientale la Val Susa è già fortemente antropizzata (al momento attuale sono presenti una autostrada, una ferrovia e due importanti strade statali), la costruzione di un opera come il TAV prevede la realizzazione di un tunnel di base lungo oltre 50km. Ciò comporterà un spostamento enorme di materiale di scarto e modificherà il già precario habitat naturale della valle e anche a molti disagi per i residenti della valle (il tempo stimato di costruzione dell’opera supera i 15 anni).
Alle 14.30 è prevista una conferenza stampa, mentre stasera ci sarà una fiaccolata in solidarietà con gli arrestati alle ore 20.30 davanti alla stazione di Bussoleno.
Per sabato 28 gennaio invece è confermato il presidio in piazza Carlo Felice a Torino.

www.notav.eu/article5859.html

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