I beni comuni fra Napoli e Roma, terza parte. Democrazia diretta e scrittura partecipata delle regole.

luglio 13, 2012 § Lascia un commento

Roma, Via Cavour. Sabato 23 giugno, primo pomeriggio.

Sono con Simone – la mia guida romana – sotto il sole del giugno romano, i piedi sentono il calore raccolto e sputato dall’asfalto. Un carro colorato traballa in fondo alla via, viene verso di noi; sopra vedo decine di uomini e di donne: ballano, saltano, le braccia tese verso la strada. Noi percepiamo il tremolio ovattato dei bassi che ancora timido ci accarezza lo stomaco: il carro è lontano e arranca lento, come appesantito – corpi incandescenti e indefiniti sembrano inseguire la dance sparata dalle casse. Il silenzio accaldato della città attende di essere inondato dalla musica del Pride e l’effetto è un poco straniante: un mondo assorto e surriscaldato si prepara ad un’esplosione di vita e di sudore variopinto, di occhi spalancati e di arti incrociati – prima della fine.

«Oggi c’è il Pride, attraverserà tutto il centro», ci hanno detto, la mattina, due ragazze del Valle. Sui divanetti dell’ingresso abbiamo parlato di spettacolo e di lavoro, di occupazione e di gestione del teatro. La discussione è stata interrotta, a un tratto: «dobbiamo fare lo striscione per oggi pomeriggio. Perché non venite? Possiamo incontrarci lì, nelle strade.»

Così ci troviamo in Via Cavour. Intorno sfilano migliaia di persone, i colori accessi sferzano l’aria e giocano con le ombre dei palazzi e i fasci di luce a picco del meriggio. Scrutiamo le scritte e gli striscioni, aspettiamo di incontrare le ragazze e i ragazzi del Valle. Finalmente scorgo un lenzuolo bianco, leggo “Teatro Valle occupato” tracciato lungo il margine inferiore. Amiamo le pratiche orizzontali. È una scritta in stampatello di un rosso granata e attraversa lenta la via.

Amiamo le pratiche orizzontali.

«Come prendete le decisioni?»

«Abbiamo un’assemblea ogni settimana. Vi partecipano tutti i soggetti che vivono questo posto o contribuiscono attivamente al progetto del Valle.»

«Ci sono passaggi controversi, discussioni accese?»

«Hai voglia. Ci si incazza, a volte.»

«E come ne uscite? A maggioranza?»

«Non si vota, qui.»

«Nessuna mano alzata? Nessuna conta?»

«Non si vota. Niente maggioranze, né minoranze.»

«Per consenso.»

«L’assemblea deve uscire con una linea collettiva, costruita nella discussione.»

Marco, il giovane scienziato politico del Cinema Palazzo, mi racconta delle loro assemblee. «Ogni settimana abbiamo un’assemblea. Parliamo di politica e di gestione del nostro spazio. Se siamo in disaccordo su qualcosa si discute a oltranza. A costo di finire alle due di notte.» Anche a San Lorenzo amano le pratiche orizzontali. Mi chiedo se sia sostenibile, in tempi di democrazia deteriorata, ricominciare dalla democrazia diretta, dal consenso. Non saranno ingenui? «Ma no. Che non lo sappiamo come funzionano i gruppi di potere in questa città? Conosciamo i rapporti di forza, li studiamo. E vogliamo contare politicamente sul territorio, ma senza piegarci alle logiche che gestiscono il potere della metropoli.» E i partiti, le amministrazioni? «“Venite qui a vedere come si realizza una politica dal basso”, vorremmo dire loro. A parte gli scherzi: noi non vogliamo trincerarci qui dentro, non ci basta. Siamo coscienti delle dinamiche che governano la città e vogliamo agire per farle saltare. Se decidiamo di confrontarci con le amministrazioni non siamo disposti a cedere la nostra autonomia, l’autonomia dell’assemblea.» Marco ha lo sguardo sicuro. La scommessa politica è la stessa che ha attraversato questi nostri anni, che ha impegnato le nostre generazioni sparse per l’Italia: è possibile una politica aperta alla società civile e indipendente, autonoma? Al di là della militanza e alle scelte di ciascuno, penso a Torino e al panorama politico cittadino che va dai partiti di sinistra fino all’autonomia – la domanda ci riguarda un po’ tutti.

Le pratiche orizzontali sono esemplificate dal percorso più ambizioso che sta coinvolgendo gli occupanti del Valle: la costituzione di una fondazione. Con la Fondazione Teatro Valle Bene Comune, il Valle potrà diventare un soggetto economicamente autosufficiente. «Già da gennaio è possibile aderire con una sottoscrizione e contribuire al capitale sociale depositato in un conto aperto sulla Banca Etica. Contiamo di far nascere la Fondazione nel prossimo ottobre.» Nei mesi scorsi l’assemblea del Valle ha redatto una proposta di Statuto della Fondazione e l’ha resa disponibile su internet. Il testo dello statuto utilizza la piattaforma E-mend, un sistema di riscrittura collettiva in rete: ognuno può avanzare emendamenti al testo, commentarlo, proporre variazioni nella disposizione dei punti. Tutti i soggetti interessati alla ridefinizione della cultura come bene comune possono intervenire nella scrittura delle leggi e sarà l’assemblea del Valle a decidere quali modifiche accogliere e quale variazioni apportare.

Lo stesso percorso di riscrittura collettiva delle regole è stato intrapreso dall’Ex Asilo Filangieri. Dopo le aperture di De Magistris e dell’assessore Lucarelli, gli occupanti hanno ribadito che ogni definizione della natura, degli obiettivi e dello statuto dell’Asilo non può essere un’imposizione dell’amministrazione, ma deve provenire dai cittadini e dai lavoratori che ogni giorno vivono gli spazi occupati. È così che anche a Napoli, a metà giugno, è partito il progetto di scrittura delle regole di autogoverno dell’Asilo. Nuove forme di scrittura legislativa affiancano gli organi tradizionali e istituzionali preposti a definire il diritto e le regole della comunità: sono le assemblee dell’occupazione a essere responsabili della ricodificazione delle leggi e la loro azione diventa una riappropriazione attiva – e condivisa con il resto della cittadinanza – del potere di scrivere e legiferare. Una scrittura oltre la crisi della rappresentanza che coinvolge le democrazie occidentali.

Si conclude la terza e ultima parte delle riflessioni su un viaggio fra Roma e Napoli. Sfreccio verso nord – il tramonto si allunga alla mia sinistra – su treni che raggiungono i trecento chilometri orari; Torino si avvicina insieme alla notte. Con salti veloci percorro a ritroso il cammino della mia esperienza. Gli spazi che ho visitato sperimentano nuove forme di democrazia diretta e rilanciano una scrittura partecipata degli statuti; le occupazioni sottraggono gli spazi urbani al controllo neoliberista e li restituiscono alla cittadinanza; i lavoratori dello spettacolo impiegano il loro tempo libero per sperimentare nuove forme di politica culturale e sottrarsi allo sfruttamento e al precariato; i luoghi del sapere e della creatività sono secessioni dall’industria culturale e dai modi di produzione del capitalismo corrente e aprono a nuove pratiche di collettivizzazione dei mezzi di produzione dello spettacolo. Scrivo queste parole sul mio portatile – ho trovato una presa sotto il mio tavolino – e l’ultimo sole della giornata si riflette sul metallo cromato del treno che divora il paesaggio.

Francesco Migliaccio

(qui la prima parte, e la seconda)

I beni comuni fra Napoli e Roma, seconda parte. Le fratture spaziali nella società dello spettacolo.

luglio 7, 2012 § 1 Commento

Piazza dei Sanniti, Roma, di fronte al Nuovo Cinema Palazzo; un sabato di fine giugno.

Nel cuore di San Lorenzo sta per calare il sole mentre sono seduto sull’asfalto di Piazza dei Sanniti. Di fronte a me, su un palco montato lungo un tratto della piazza, suonano alcuni musicisti del quartiere. Sorseggio la mia birra e muovo lo sguardo dalle loro mani e alle loro labbra, vedo i tecnici del suono alla mia destra e un viavai di persone sotto il palco. Percepisco la presenza di studenti universitari, bambini del quartiere, qualche anziano, una madre con il passeggino. Per un attimo vedo una donna su un balcone: ha un vestito estivo, i gomiti appoggiati sulla balaustra, il piede destro – fuori dalla ciabatta – tiene il tempo contro la caviglia sinistra. Sono seduto in mezzo alla piazza, appoggio i piedi sull’asfalto e dietro al palco montato in poche ore si staglia un edificio, alto, dai colori caldi – domina tutta la piazza. Sulla facciata una scritta a caratteri neri, sbilenca: ExCinema Palazzo.

San Lorenzo: quartiere popolare di Roma, una cultura antifascista affonda le radici nelle strade strette, il quartiere dilaniato dai bombardamenti alleati del 1943 – era estate anche allora. In poche centinaia di metri, lungo Via dei Volsci, ho visto una palestra popolare, uno spazio occupato dal collettivo di genere del quartiere, un piccolo antro gestito dai redskin: bandiera italiana e falce e martello. Dietro alcuni caseggiati c’è Esc: lo spazio occupato in tumulto, il punto di San Precario.

Ma di fronte a me, nello spegnersi di un pomeriggio inondato dalla musica, ho l’Ex-Cinema Palazzo. L’Ex-Cinema Palazzo avrebbe dovuto diventare un casinò. La società deputata alla conversione dell’edificio apparteneva al giro della cricca, dei palazzinari: Anemone, Balducci e compagni. Per fermare l’ennesima speculazione edilizia gli abitanti del quartiere e alcuni lavoratori dello spettacolo si sono organizzati e nella primavera del 2011 hanno occupato lo stabile. Con un’azione di forza gli occupanti hanno sottratto la struttura agi affaristi romani e hanno evitato che le sere di San Lorenzo fossero invase dalle luci dello spettacolo e dai capitali del gioco d’azzardo. Il Cinema è uno spazio riconquistato, una secessione spaziale, una frattura entro i luoghi dominati dall’industria del gioco e dal capitalismo più sregolato.

Le porte del Cinema Palazzo sono sempre spalancate, il luogo è accogliente. Franco è un occupante della prima ora. Ha i capelli grigi, il volto scavato, e da una vita ormai vive a San Lorenzo. Accanto alla spillatrice mi ha raccontato la storia del quartiere e ha ricordato la genesi dell’occupazione: «la prima in Italia. Noi abbiamo aiutato il Valle e, le altre realtà cittadine [Napoli, Catania, Palermo] hanno continuato la nostra strada.» Franco lavora fuori, in città, e ogni giorno attraversa la soglia del Cinema Palazzo e contribuisce alla sua esistenza. Parlo con lui e in piazza un gruppo blues scandisce il lento tempo della sera di San Lorenzo. Franco ha appena dato la vernice al pavimento oltre il quale si apre la sala del palco, dedicata a Vittorio Arrigoni – mentre spilla le birre fa attenzione che nessuno calpesti il colore fresco, nero come il catrame.

Incontro Marco all’ingresso: ha poco più di vent’anni e studia scienze politiche. Insieme a Sabatino a costruito un’aula studio, al primo piano. «A Roma sono poche le aule aperte alla sera. Non ci sono spazi per gli studenti. Così abbiamo adibito un’ala del palazzo ad aula studio – resta aperta fino alle due e mezza di notte.» I suoi occhi sono sempre spalancati. Gli consiglio di godersi l’esperienza che sta vivendo, di trattenerne i ricordi. «Me lo dicono tutti», mi risponde.

Anche il Valle avrebbe dovuto essere privatizzato quando a giugno (subito dopo il referendum su acqua e nucleare) alcuni attori di teatro e lavoratori dello spettacolo hanno deciso di gestirlo e di permetterne l’ingresso alle compagnie teatrali e ai cittadini. Le occupazioni stanno segnando un confine nello spazio sociale, producono singole secessioni nella geografia del capitale e sperimentano forme alternative di gestione economica della cultura nel cuore delle metropoli italiane. I soggetti attivi dell’occupazione – come scritto nella prima parte – spesso lavorano fuori dal luogo conquistato, ma vi entrano ogni giorno per impegnarvi il tempo libero sottratto al lavoro precario. Entrano ed escono, superano più volte la membrana fra il mondo normale e quello sperimentale.

Il movimento fisico sulla soglia (al di qua, al di là) è utile anche per leggere gli altri soggetti protagonisti: non gli occupanti, ma i cittadini che fruiscono degli spettacoli e delle proposte culturali. Le fasce più eterogenee della cittadinanza – questa forse è la differenza più evidente dai centri sociali tradizionali – entrano ed escono dai luoghi occupati, fruiscono gli spettacoli, appartengono per brevi lassi di tempo alla secessione.

Durante una riunione all’Asilo della Conoscenza di Napoli ricordo che uno degli occupanti ha iniziato a battere i piedi per terra. «Noi questo posto lo dobbiamo vivere, lo dobbiamo attraversare», e batteva le suole contro il pavimento. «Questo posto è reale, fisico, ma esiste davvero quando ognuno di noi vi entra e contribuisce alla sua gestione, alla creazione di cultura, all’invenzione di nuove pratiche artistiche e politiche.» Mi è rimasto impresso questo gesto dei piedi, il battito ritmico sul pavimento. Credo che ognuno dei luoghi occupati che ho visitato esista nella sua particolarità spaziotemporale: ogni luogo è una singolarità, un perimetro delimitato da fratture nel tessuto urbano ed economico. Quando si producono riflessioni di ampio raggio su quanto sta avvenendo in Italia e quando si citano, fra una virgola e l’altra, i diversi spazi occupati, non si deve dimenticare che ogni luogo ha una sua esistenza particolare, uno specifico insieme di regole, pratiche e strategie. Ogni spaziotempo – proprio in quanto singolarità – è irriducibile agli altri.

I luoghi occupati, quindi, vanno intesi come differenze spaziotemporali, scarti, isole alternative e porose. Se è vero che il capitalismo contemporaneo si riproduce in una società dello spettacolo pervasiva e alienante, il sistema sembra sempre meno integro e totale. Forse è proprio l’arte (e il teatro prima di tutto) a tentare una nuova forma di resistenza allo spettacolo del capitalismo: a una secessione nello spazio urbano corrispondono nuove forme di autonomia della creatività e della performance. L’arte è la prima sfera a tentare di sottrarsi al dominio integrato delle merci e dell’industria culturale: lo spettacolo teatrale si produce come alternativa allo spettacolo integrato del capitalismo; i palchi accolgono e sperimentano le scosse politiche che latitano in altri spazi sociali.

Francesco Migliaccio

(qui il link alla prima parte)

I beni comuni fra Napoli e Roma, parte prima – Tempo del lavoro, tempo dell’occupazione

luglio 3, 2012 § 5 commenti

Napoli, piano terra dell’Ex Asilo Filangieri, ultimo martedì di giugno.

Nel ventre del centro storico, a due passi da San Gregorio Armeno, ritrovo l’Ex Asilo Filangieri, lo spazio occupato a marzo da La balena, un collettivo di lavoratori della conoscenza e dell’immateriale. Sono le sette di sera, assisto a una riunione organizzativa. Gli occupanti hanno deciso di realizzare un talk show – il Talking Asilo – da trasmettere in streaming. Il Talking Asilo sperimenta forme alternative di comunicazione mediale: una trasmissione in diretta arricchita da dibattiti, sketch improvvisati e collegamenti dalle occupazioni di Roma, Catania, Milano e Palermo. Come tutte le espressioni culturali realizzate nell’Asilo, anche il Talking Asilo nasce da un processo creativo collettivo e partecipato e ha l’ambizione di coinvolgere e raggiungere gli strati più eterogenei della popolazione napoletana e nazionale.

Le ragazze e i ragazzi in riunione lavorano nello spettacolo – attori di teatro, sceneggiatrici, tecnici video – e in due ore immaginano la puntata a venire, discutono le idee e i temi da affrontare. Fra di loro c’è Ciro: alto, magro, un poco di barba. Ciro fa la televisione, si occupa delle operazioni di regia durante le dirette dagli studi televisivi e gran parte degli accorgimenti più acuti emergono dalla sua esperienza. A un certo punto si rivolge a tutti noi, seduti in cerchio: «A fine luglio non posso darvi una mano, perché sono a Londra, con Sky». Deve lavorare per la trasmissione di Ilaria D’Amico. Immagino il classico dibattito sulle olimpiadi, uno studio scarno e illuminato a giorno, i bilanci di una giornata di gare, gli atleti italiani con gli occhi sgranati, una medaglia che oscilla pesante dal loro collo. Ciro si divide fra il lavoro retribuito e l’aiuto volontario entro i confini dell’Asilo. Fra Londra e Napoli.

Non credo che Ciro sia un occupante assiduo dell’Asilo. Eppure ne incarna la peculiarità più interessante: alcuni lavoratori dello spettacolo, precari e spesso sfruttati, occupano un luogo e vi sperimentano nuove connessioni fra economia, cultura e lavoro. E sfuggono – sono brevi tratti di tempo – al malessere e all’alienazione contemporanei. Gli occupanti restano lavoratori: continuano, là fuori, a vivere alla giornata, ad attendere gli stipendi di produzioni esaurite e dimenticate. Ma una parte del loro tempo libero, del loro tempo non alienato, è dedicata alla costruzione di una alternativa possibile. Un frammento di tempo giornaliero è sottratto all’industria culturale per coltivare l’alternativa: una cultura disponibile ai cittadini (un bene pubblico) e sottratta alle logiche vigenti del mercato.

Pochi giorni prima ero su un divanetto del Teatro Valle. Era sabato – il sabato del Pride di Roma – e parlavo con Orsetta, attiva fin dal primo giorno di occupazione: «Gli artisti che propongono qui i loro spettacoli non sono retribuiti, di norma. Propongono le loro performance qui, sul palco del Valle, per contribuire all’esistenza di questo spazio e del progetto di società che abbiamo iniziato a pensare. I soldi raccolti dalle offerte volontarie del pubblico sono impiegati per sostenere la struttura e per pagare le trasferte e le attrezzature degli artisti.» Non ho capito fino in fondo la portata delle sue parole finché un’altra giovane occupante, a Napoli, ha ricordato che l’Ex-Asilo Filangieri «è un luogo aperto agli artisti che hanno un’idea creativa, ma non dispongono dei mezzi per realizzarla, per metterla in scena. Noi dobbiamo fornire gratuitamente i mezzi per produrre gli spettacoli a chi non ha i soldi per finanziarli.» Intuisco, allora, che gli occupanti si sono appropriati dei mezzi di produzione dello spettacolo (il teatro, le attrezzature sceniche) e li hanno messi a disposizione degli artisti e dei cittadini. Gli incassi delle serate devono rendere sostenibile la manutenzione e il potenziamento degli strumenti di scena, delle apparecchiature di ripresa e della struttura complessiva dello spazio occupato.

Avevo le spalle sempre più affondate nel divano di pelle, poco lontano dalla porta d’ingresso del Valle; una domanda è sorta spontanea: la prospettiva non dovrebbe essere anche quella di retribuire gli artisti secondo il giusto valore del loro lavoro? «L’orizzonte a cui miriamo è quello, certo. Per il momento dobbiamo sopravvivere: permettere la realizzazione degli spettacoli proposti dai soggetti che aderiscono al nostro modello e resistere qui dentro, in modo da dare forma al progetto politico che qui a Roma stiamo sperimentando insieme all’Ex-Cinema Palazzo. Molti di noi hanno perso molto tempo qui dentro, e molti soldi: per questo raggiungere un’autonomia e una sostenibilità totale è la nostra vera scommessa.» Grazie all’imminente costituzione della Fondazione Teatro Valle Bene Comune, il Valle è la realtà più vicina, forse, a realizzare un sistema autonomo e autosufficiente: diffondere la cultura come bene comune, controllare i mezzi di produzione spettacolare e retribuire il lavoro di tutti i protagonisti delle produzioni.

Gli artisti e i lavoratori dello spettacolo nell’Asilo di Napoli e nell’Ex-Cinema Palazzo e nel Teatro Valle, quindi, coltivano parte del loro tempo libero per sperimentare nuove forme di diffusione e di gestione economica della cultura. Immagino una membrana che divide il tempo normale (quello del lavoro: precario, alienato, diretto dalle logiche neoliberiste) da piccoli spazi di tempo nuovo (il tempo libero dedicato all’appropriazione e alla gestione collettiva dei mezzi di produzione dello spettacolo). I soggetti occupanti, ogni giorno, si spostano da una condizione di lavoro all’altra: attraversano la membrana.

È tardi, a Napoli, è calata la sera e cammino in Via dei Tribunali – i negozi chiudono e per strada restano i banchi delle friggitorie, dense di odori. Ho un’allucinazione: se è vero che il capitalismo contemporaneo si riduce a un’immensa fantasmagoria di spettacoli – dove si dissolve il confine fra le merci, i prodotti della conoscenza e i linguaggi pubblicitari – forse mi trovo di fronte a una zeppa, forse ho assistito ai primi tentativi di far saltare gli ingranaggi della società dello spettacolo. La produzione del valore si concentra sempre di più nella conoscenza, ma alcuni lavoratori si stanno appropriando dei mezzi di produzione del nostro Occidente post-industriale. E li stanno collettivizzando. Cala la notte su Napoli, ma alcune luci si accendono e illuminano flebilmente i vicoli del centro.

Francesco Migliaccio

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