Scrivere con i piedi: fenomenologia della letteratura calcistica

giugno 4, 2012 § Lascia un commento

Perché i capolavori di Baggio, Ibrahimovic e Del Piero sono le novità letterarie più interessanti degli ultimi vent’anni


Il grande laboratorio culturale dello stivale italico si è sempre imposto, nel corso dei secoli, nel mondo “occidentale”, ancora prima dell’esistenza stessa di un mondo occidentale. Sembra una tesi di difficile sostenibilità, e andrebbe sicuramente meglio argomentata, ma tale operazione prevederebbe una ricerca ben più approfondita di questo breve articolo. Vi basti, quindi, sapere che la mia mamma dice che sono bello e commenta con simpatici buffetti questa come altre teorie.

In Italia la letteratura sta imponendo un nuovo genere letterario, di avanzata ricercata decostruttiva e che pone l’artista, badate bene artista, non scrittore, in una nuova dimensione di contaminazione tra diverse forme d’arte. Anzi, in una dimensione in cui non esistono più né forme né arte. Feroce amante e crudele distruttore della forma letteraria. Dimenticatevi poeti, drammaturghi, novellisti, saggisti, giornalisti e scrittori. La nuova forma della parola scritta è affidata a chi ha raggiunto le più alte vette artistiche né con le mani, né con la voce, ma con i piedi.
Il nuovo risorgimento della letteratura italiana è affidata ai calciatori, delle cui invenzioni letterarie sentivamo tutti bisogno.

Prima di passarne velocemente in rassegna i principali capolavori, voglio spendere qualche parola su questo nuovo genere letterario.Contrariamente a quanto succede per altre categorie professionali che si dedicano in un secondo momento alla scrittura, i calciatori rimangono calciatori anche, e soprattutto, mentre scrivono. Non come dei banali presentatori televisivi o degli attori qualsiasi. Loro non imitano gli scrittori, non producono romanzi né inventano eroi del noir. Rimangono calciatori che scrivono. Spesso fantasisti che inventano un nuovo spazio di fantasia, strappandolo al mondo della comunicazione mediatica e degli sponsor.Non cadono nemmeno nella facile trappola del saggio dell’esperto del settore: sì, si parla di calcio nelle loro produzioni, ma mai manuali di calcio o saggi. Sono di solito autobiografie, perché il calciatore-creatore sa che quello che i suoi lettori vogliono: la narrazione dall’eroe delle proprie gesta, come se la società dello spettacolo chiedesse a Odisseo di reinventare il proprio mito e di sostituire la tavola di Alcinoo con il best-seller da scaffale. Poche autobiografie nella storia della letteratura risultano altrettanto sincere, con una tale sovrapposizione tra autore che si racconta, personaggio e percezione del personaggio da parte dei lettori. Allora troveremo un Cassano, autore non di uno, ma di due libri, impegnato a difendere la sua immagine e il suo bisogno di narrare se stesso come un Pierino pestifero e geniale, un Baggio, vero padre di questo genere letterario, a distribuire sorrisi ed ascetismo fin dal titolo. Ma addentriamoci meglio, seppur brevemente, in questo genere letterario.

Roberto Baggio

L’Omero della letteratura calcistica. Autore da aforisma prima ancora del suo debutto letterario, genio indiscusso e indiscutibile del calcio e padre di un genere letterario. L’umanità non può esaurire la sua gratitudine verso questo personaggio, per certi versi controverso, con il solo pallone d’oro. La sua celebre affermazione: “I rigori li sbaglia solo chi ha il coraggio di tirarli” ha da tempo superato, almeno nel mondo italofono, le migliori citazioni di Wilde o Schopenauer. Ricordiamo solo come sia stata ripresa da Claudio Riccio nel suo struggente addio alla politica, per dimostrare come le parole di Baggio siano entrate nell’immaginario collettivo. E se i più crudeli e ingrati hanno ricordato al vecchio portavoce della Rete della Conoscenza come i tifosi di mezza Italia apostrofassero il fantasista con il celebre coro “Baggio puttana hai fatto tutto per la grana”, non possiamo non riprendere questo episodio come simbolo dell’assunzione artistico-calcistica del grandissimo calciatore nell’Olimpo dei grandi della Storia.
Perle di saggezza, riflessioni da buddista occidentale, amore per il calcio, ma anche per le polemiche con gli allenatori della propria carriera. Ironia, sorrisi e lacrime distribuiti con saggezza e una affabulazione sorniona: “Una porta nel cielo” contiene già tutti gli ingredienti che verranno ripesi da quanti ripercorreranno sul campo e nella scrittura i passi del codino più famoso della storia dello sport.

Francesco Totti

Saggiamente il Francesco nazionale sceglie di non raccontare la propria biografia, ma di lasciare che l’intento del libro faccia emergere il proprio Io umano, artistico e calcistico. Come i veri creatori del mercato d’arte Totti legge e sfrutta il momento storico in cui la sua opera nasce e si dispiega: mentre il mondo mediatico crudelmente lo bolla come illetterato coatto, egli, er Pupone, si fa rapsodo di se stesso e raccoglie i frutti di questo crudele ritratto di lui dal mondo dello spettacolo creato: raccoglie tutte le barzellette su di sé e ne fa un libro.
Geniale il titolo del libro. Davvero, ho sempre apprezzato i titoli che raccontano chiaramente, senza inganni, a cosa il lettore sta per andare incontro: “Tutte le barzellette su Totti (raccolte da me)”. Fa uscire con forza l’autore-rapsodo, e l’immagine che vuole trasmettere di sé nell’opera, anche forse nell’intento benefico dell’opera. L’Unicef, ovviamente. Istituzionale ed universale, e poi a tutti piacciono i bambini.

Antonio Cassano

Autore di due opere, nulla fa emergere la struggente bellezza dell’invenzione del mito del meridione, del Sud del Mondo, come la penna dell’irriverente barese. “Dico tutto” sottotitolo: e se fa caldo gioco all’ombra, scritto con la collaborazione (supervisione? correzione grammaticale?) di Pierluigi Pardo, è un ritratto irriverente, ma sinceramente genuino e buono di questo ragazzo, riscattatosi da una condizione di disagio e povertà con il pallone (e la scrittura, ovviamente). Lo stile nella sua semplicità e nei suoi rimandi al linguaggio più colloquiale ammicca ai grandi narratori americani e ai primi libri di Culicchia e Brizzi. Nella sua seconda opera, “Le mattine non servono a niente, e altre 364 cassanate in forma di aforisma per vivere un anno da fantasista”, scritto sempre con la collaborazione di Pardo, l’autore rinnova l’immagine di un sé fantasioso prima ancora che fantasista cimentandosi, però, in un nuovo genere letterario, quello appunto dell’aforisma. Inarrivabile e rinnovatore di se stesso… quanti “scrittori colti” del panorama italiano dovrebbero guardare alla bibliografia di Cassano con umiltà!

Zlatan Ibrahimovic

Il più grande tra tutti i protagonisti di questo genere, e probabilmente tra gli autori viventi. “Io, Ibra” è un libro da mettere nella vostra biblioteca a fianco ai grandi scrittori del Novecento. Uomo della strada, cresciuto tra il freddo e i campi di cemento di Rosemberg, il ghetto dell’isola di Malomoe con tanti bambini dell’Est come lui. Nelle pagine il giocatore svedese, assieme a Lagercrantz David, fa rivivere una vita non solo di disagio e povertà, ma anche di cattiveria. Con un realismo che pochi altri hanno saputo raggiungere e che lo collocano di diritto nel Paradiso dei Narratori della Sfiga, tra Zola e Verga.Una scrittura fatta di rivalsa, muscolare, che non risparmia critiche né fa sconti a compagni e allenatori. Un uomo che ringrazia sempre solo sé stesso, le sue gambe e il suo cuore. Che per servire sé stesso non ha mai esitato a cambiare continuamente squadra, nazione, lingua e vita. E non solo seguendo ingaggi più alti, anzi, ma sempre alla ricerca di nuove sfide e nuove opportunità. Tante bandiere, nessuna bandiera. Anarchia e sudore.

 

Alessandro Del Piero

Giochiamo ancora”, scritto con Crosetti Maurizio (anche se, contrariamente a quanto fanno gli altri scrittori-calciatori, non cita il coautore in copertina), ci presenta un Del Piero inaspettatamente flaubertiano, che ammicca al romanzo borghese. Uomo della provincia bene dell’operoso Nordest. Famiglia borghese, scuole calcio accompagnato dal papà, quei bambini buoni e simpatici che si fanno ben volere da tutti. Scrittura pulita, elegante addirittura, quasi leziosa. La ricercatezza della struttura nella divisione dei capitoli: il ricorrere al numero dieci, a sottolineare l’identificazione con la squadra, l’essere bandiera e simbolo della stessa, non abbandonarla mai, nemmeno nei momenti difficili. Anche quando vuol dire rinunciare alle grandi sfide, al Calcio con la C maiuscola per dedicarsi al alla B. Quell’elargire consigli da padre di famiglia e buonismi. Un po’ Coelho vecchia maniera, un po’ debutto letterario di Baggio. 
Minchia se ti odio Del Piero.

In realtà l’elenco di calciatori-autori è ancora lungo: Buffon, Inzaghi, Stankovic, Eto’o e molti altri, ma sono tutti riconducibili in qualche modo agli autori qui analizzati: autobiografia, autoironia e autopromozione del mito di sé. Perché nell’era dello spettacolo l’eroe non ha solo il dovere di essere eroe, ma deve farsi promotore del suo più alto valore morale: la creazione di sé stessi come oggetto di consumo. Forse solo la scrittura sudata e feroce di Ibra e la sua sfacciataggine sanno far emergere le contraddizioni di questo modello letterario: questi eroi-calciatori-narratori del mondo dello spettacolo sportivo che li ha creati.

Pivo Andrić

Nota dell’Autore:
L’autore vuole condividere con i lettori dell’Ode la gioia per il ritorno del Torino in serie A.

 

Le contraddizioni del Torino Jazz Festival

aprile 29, 2012 § 2 commenti

Colonna sonora (1): Niente più- Leo Ferrè

-Ma hai visto che figata il Jazz Festival?-
-Chi c’è?-
-Jamal! E un sacco d’altra roba pazzesca.-
-Figo. Aggratis?
-Tutto gratis e in piazza.

Mica male, devo essermi detto. Ho portato il flyer a casa e l’ho appeso con una puntina alla scrivania, illuso che mi potesse mai passare di mente. Ovviamente non è stato così. Aspettavo il festival con voglia sempre maggiore. Dovrei studiare. Ma sì, vado direttamente alle 6 per il primo concerto, così prima studio un po’. Magari un po’ prima; sì ma non molto, eh. Tanto è in piazza, troverò posto. Ricevo una telefonata: “Ah, ma non sei ancora arrivato? Avrai una brutta sorpresa…”
Il palco di piazzale Valdo Fusi è in una posizione improbabile. C’è davvero qualcosa di strano. Sembra una propaggine del Jazz Club. La piazza è completamente vuota, perché il palco gli dà le spalle. Mi spiegano che ci sono 400 posti a sedere(un po’ pochini), alcuni sono riservati per le autorità e poi non è più possibile accedere alla “sala”. Alla sala? Doveva essere un evento di massa. Lo so, il jazz non è di massa, ma è pur sempre una musica dalle forti radici popolari e forse è un bel regalo, riportarlo nelle strade per essere goduto, come circa un secolo fa, da qualsiasi persona. Ecco, cosa ho pensato: non sarà facile, ma potrebbe essere una buona occasione. Anche solo per togliere al jazz quella patina di intellettualismo di cui si è vestito negli ultimi anni in Europa, più che negli States. Tant’è: ci si prova, vediamo come funziona sbattere Jamal in mezzo alla gente. Sta per iniziare il concerto e la gente si accalca al lato del palco, dove c’è una discesetta erbosa e le grate d’areazione del parcheggio. Che tu bestemmi e pensi perché cazzo con tutte le splendide e sconfinate piazze della Torino monarchica dovevi scegliere un maledetto parcheggio a forma di imbuto. Provi anche ad ascoltarti le note (che, poi, entrando sotto, con un po’ di stalking sui volontari e un po’ di fortuna sono riuscito a godermi) di Franco Cerri, Renato Sellani e Dino Piana: tre autentici senatori del jazz italiano. Ma il pensiero inizia a roderti: perché una roba del genere? Perché fare un evento di massa e escludere la massa? Strano, perché l’assessore Braccialarghe aveva detto tra un concerto e l’altro «Con il Tjf voglio allargare l’offerta culturale con iniziative di alto profilo, completamente gratuite, per avvicinare pubblici nuovi, e uscire dalla solita cerchia ristretta di frequentatori. Se anche non c’è stato un turista venuto per il festival ma 30 mila persone l’hanno scoperto, anche per caso, sono contento. Abbiamo fatto centro». Ci sono un po’ di tarli che mi rodono e un fastidio crescente per l’organizzazione approssimativa. Qualcuno dice “ma dai, è la prima edizione, miglioreranno”; qualcun altro “queste porcate solo a Torino”. Anche se chi non è torinese e si gira concerti e festival in tutta Italia da anni lo sa bene che non si tratta solo di Torino, in piazzale Fusi non è difficile trovare il perno: il Jazz Club Torino e il suo Presidente Fondatore, il benemerito Fulvio Albano.

Casualmente, il Presidente del Jazz Club, musicista di buon livello e organizzatore da sempre di eventi nel mondo del jazz, occupa il ruolo di Curatore Artistico di piazzale Fusi per il Festival. Altrettanto casualmente, il palco è montato come una vera e propria propaggine del Jazz Club, in cui, appena finisce il concerto sul Main Stage, parte un concerto con aperitivo e cena.

A pensare male si fa peccato ma spesso ci si azzecca (cit. il divo Giulio)

Colonna sonora (2): Take Five – Dave Brubeck

Secondo giorno di festival; si parte da casa con largo anticipo per riuscire a entrare nell’esclusiva platea approntata per l’evento, c’è Ahamd Jamal, impedibile, non si può rischiare di rimanere fuori e improvvisarsi come il giorno prima esperti di free-climbing insieme agli avventori più attempati e diversamente giovani. Arriviamo in piazzale Valdo Fusi con largo anticipo (sono le 16.30), tant’è che gli ingressi sono ancora chiusi e la fila davanti a questi è di modesta entità. In fila ritornano le stesse domande: perché mettere il palco in quella posizione? Perché non mettere il palco all’estremo opposto del Jazz Club, in modo da avere tutta una piazza a disposizione? Perché non girare il palco?

A dire il vero  in pochi si arrovellano con noi intorno a questi interrogativi, i più sono completamente protesi ad accedere all’esclusivo privilegio di un posto a sedere, hanno lo sguardo del predatore, sono attenti, svegli, sanno che dovranno correre e sgomitare per non rischiare di rimanere fuori. Ma noi fungiamo da calamita per tutti i polemisti di professione presenti in piazza e  attorno a noi c’è molta meno tensione. In realtà, i nostri amici entrano presto nella spirale della rabbia più incancrenita, arrivando a scagliarsi rabbiosamente contro chiunque, in una guerra tra poveri che ha dell’assurdo. In successione ne subiranno l’ira funesta: i furbi della fila, i ragazzini dello staff, i fotografi. Decisamente più sobrio l’atteggiamento del tipo rassegnato per cui l’accesso alla cultura derivato da questo tipo di eventi gratuiti è una concessione di una qualche non meglio specificata autorità o sponsor economico, e tanto vale non lamentarsi visto l’eccesso di generosità dimostrato nel rendere gratuite performance di questa portata e pazienza se i posti sono limitati e non ce n’è per tutti, è già tanto quello che ci è stato concesso, meglio non esagerare con le pretese. Ma a noi sobillatori di polemisti sobillati dai polemisti stessi non sfugge la matrice economica di un festival del genere, dai nomi degli sponsor principali (Iren e Intesa San Paolo- tralasciamo per ora la polemica sui finanziamenti, per cui rimandiamo a queste congetture de Lo Spiffero) all’eccessivo zelo mostrato dall’organizzazione affinché ci fosse un sicuro rientro economico per le attività commerciali della Torino centrale. L’ennesimo investimento economico in turismo e intrattenimento, travestito da evento culturale.
Siamo dentro, siamo tra i pochi fortunati.

La “sala” si presenta elegante e raccolta, tinta di nero rispetta l’etichetta che alcuni pretendono per questo genere di musica. È subito piena nel giro di pochi minuti. Ma la folla esclusa è tanta, spinge sulle transenne e preme per poter entrare. I ragazzini dello staff, messi di guardia (13/14 anni), hanno evidenti difficoltà a trattenere ragionevolmente questa folla inferocita. Qualcuno fa il furbo e passa, ma viene subito avvisato che se dovesse presentarsi in ritardo l’assessore comunale dovrà cedergli la sedia conquistata (mai parole furono così tanto fuori luogo).

Ormai ci siamo, Jamal, Riley, Cammack e Badrena dopo un inizio in sordina partono per la tangente; i brani da “Blue moon” sono brillanti e le rare incursione nel primo repertorio si vestono di una luce tutta caribbean data dall’apporto sempre puntuale di “Manolo” Badrena alle percussioni. Tutto il set prende quota e coinvolge sempre di più il pubblico, dentro e fuori la sala: si battono addirittura le mani. Sembra di recuperare un po’ delle radici che c’è nel jazz…magia “dell’uomo dalle due mani destre”.  Presi dal battito di mani fragoroso, ci guardiamo intorno: in questo secondo giorno di festival gli alpinisti improvvisati si sono quintuplicati. Anche il resto della piazza è piena. Un evento con un’enorme partecipazione castrato. Nel resto della serata possiamo apprezzare particolarmente, ritenendola geniale, la trovata di far suonare un solista su di una chiatta in mezzo al Po; dei lati positivi e per una recensione completa del festival ci riserviamo di aspettare la fine.

Ma si fa tardi nello scrivere questo resoconto, bisogna scappare a prendere i posti.

I Jazzemani

Il movimento NoTav, i teoremi e la politica che crede ancora in Dio

marzo 4, 2012 § 3 commenti

Questo articolo parla di NoTav e di letteratura. Della convinzione che gli “eventi-NoTav” delle ultime settimane si possano comprendere di più attraverso la letteratura. Nulla di più odioso, a prima vista: non ho vissuto i fatti in prima persona, sono in università e ho speso tutta la mattina a scrivere questo articolo. Sulla letteratura. Eppure credo ancora in lei e poiché la mia esperienza di queste settimane è avvenuta solo a distanza, vorrei comunque cercare di dare il mio contributo.

Due fatti: gli arresti emessi dalla Procura di Torino a fine gennaio in seguito agli scontri  di quest’estate; gli sgomberi iniziati in Valle l’ultimo lunedì di febbraio. Mi chiedo: esiste una connessione fra i due eventi? É verosimile che esista: ventisei militanti NoTav (fra cui alcuni leader di una certa rilevanza) vengono arrestati ed esclusi dall’azione politica. Le ordinanze sono scattate tre settimane prima degli sgomberi, tre settimane prima della resistenza e degli scontri di questi giorni. Mentre i blocchi vengono forzati dalla polizia, il movimento conta fra le sue fila ventisei militanti in meno: il disegno è lineare, fin semplice nei suoi tratti.
Perino, uno dei portavoce più influenti del movimento, non componeva ragionamenti molto diversi all’indomani delle ordinanze cautelari: “è una cosa preordinata”, comunicava ai giornali, “un segnale chiarissimo a tutti quelli che stanno cercando di alzare la testa in Italia e che prendono il movimento NoTav come esempio: vogliono dire a camionisti, pescatori, e così via di stare tranquilli altrimenti si finisce tutti in galera. Si vuole criminalizzare il movimento.” Una cosa preordinata, un disegno: qualcuno – lo Stato, i poteri forti – ha causato gli arresti per ottenere un fine determinato: indebolire il movimento. Caselli, allora, è un esecutore del disegno, o teorema giudiziario.
Tutto era stato già scritto – e non lo afferma solo Perino. I giornali autorevoli e le istituzioni hanno proposto un’analisi del passato ritornante: “state attenti”, dicono, “che nel movimento si sta infiltrando l’antagonismo e vi ricordate cosa significa, vi ricordate gli anni Settanta? Il piombo, il piombo!” Il presente si legge come una scrittura del passato, un disegno finalistico dove tutto si tiene. E anche le scritte sui muri di Via Po è come se fossero già scritte: il linguaggio non sembra cambiare di molto dalle parole di un tempo. É allora perfettamente verosimile che lo Stato abbia applicato il suo teorema (il teorema giudiziario) e che lo abbia applicato perché il movimento è ormai pronto ad avviare il suo Settantasette. Tutti scrivono – sui giornali, sui muri – e le loro scritture sono in fondo lineari, credibili. Preordinate, direbbe Perino.
Il teorema – come ogni teoria del complotto – mi ricorda la Provvidenza di Manzoni, il Disegno di Dio. (Ecco la letteratura che avevo annunciato.) Tutto è scritto nelle stelle, tutto segue il suo corso. Tutto è perfettamente verosimile e comprensibile perché è stato già scritto. Il Grande Vecchio si sostituisce a Dio, ma da un punto di vista narrativo le carte in tavola non cambiano di molto: i paradigmi di interpretazione della politica e del giornalismo sono manzoniani e provvidenziali – e c’era da aspettarselo alla luce della cultura letteraria insegnata a scuola e dal nostro intrinseco cattolicesimo.
Ma Manzoni è morto, e dopo lui altri son venuti. La letteratura è cambiata e ha pensato e scritto diversamente: senza Provvidenza e senza fatti preordinati. Propongo di trascinare quest’altra letteratura nel contesto attuale  – i nostri “eventi-NoTav” – con la speranza di dischiudere riflessioni e interpretazioni più convincenti dell’esistente, e più rivoluzionarie.
Dopo Manzoni, i fatti non stanno più insieme e il mondo è un’accozzaglia i cui eventi sono spesso privi di spiegazione. Viene a mancare il grande paradigma che teneva assieme il senso del mondo: Dio – o il complotto. I fatti non si connettono armoniosamente uno all’altro, ma si disperdono, ed è estremamente faticoso recuperare dei fili sottili nel guazzabuglio. La realtà si riduce a una serie di eventi discontinui, una complessità di cause il cui motore è spesso aleatorio.
Ribalto allora quanto affermato finora dai protagonisti di queste settimane. Caselli non ha agito secondo un teorema, come vorrebbe Perino. Il movimento non è una riproposizione degli anni di piombo, come desidererebbero certi giornalisti e tutori dell’ordine. Non esiste una connessione diretta e lineare fra gli arresti di Caselli e la repressione di questi giorni durante gli sgomberi valligiani. Poste queste prime ipotesi sperimentali, si possono tentare le prime congetture, le prime riflessioni.
La Procura di Torino ha ricevuto gli incartamenti dalla polizia e ha lavorato seguendo un normale iter legale, senza infrangere in modo evidente lo stato di diritto democratico. Questa riflessione ne può aprire un’altra: cosa si intende per legalità? Un insieme di scritture determinate da un codice? O un insieme di regole che di volta in volta si incarnano nella contingenza, nei corpi che si muovono e agiscono negli spazi? E, ancora, che rapporto c’è fra la legalità e l’azione politica di movimento? Come si deve porre il movimento nei confronti delle leggi? Credo siano domande molto più interessanti, che non potrebbero essere poste se si definisse l’azione di Caselli uno strumento in mano a uno stato repressivo, quindi intrinsecamente fascista. L’attuale contesto è molto più intricato e solo i Wu Ming possono ancora credere che il mondo si divida linearmente fra buoni e cattivi (loro sì, sono manzoniani, ma forse non lo sanno).
Anche in questo anfratto del pensiero, la letteratura, in quanto scrittura agita, può tornare utile. Non riconoscere le leggi come una scrittura assoluta e preordinata, ma come un complesso di regole da porre sempre in discussione, da modificare e da riscrivere creativamente potrebbe essere una via interessante per un movimento che voglia interrogarsi sul rapporto fra azione politica e diritto. In fondo sono riflessioni non del tutto mie, e traggono spunto da un’altra scrittura originata nell’area del pensiero antagonista – una scrittura molto più interessante delle scritture stantie sui muri di Via Po. (Qui il link).
Questo filo di pensieri nato da Caselli e confluito nel dibattito su violenza, legge e giustizia può essere uno dei tanti percorsi in cui insinuarsi nel momento in cui venga disconnesso il Disegno. Un altro territorio interessante potrebbe essere quello del movimento NoTav stesso: senza il paradigma-anni-Settanta, come si può comprendere quanto sta accadendo in valle? La Stampa e La Repubblica avrebbero i loro problemi di scrittura e di interpretazione.
Vorrei che si torcesse il collo alla retorica e ci si liberasse delle frasi fatte e delle letture preconfezionate (“Manganelli lo aveva detto – lo aveva scritto – che ci sarebbe scappato il morto!”). Vorrei vedere la fine di uno spettacolo in cui a una lettura stupida – Manganelli su tutti – si risponda con altrettante interpretazioni stupide. La fine delle sceneggiature verosimili, che, gira e rigira, finiscono costantemente per avvantaggiare chi esiste già e mai chi non esiste ancora, o chi potrebbe esistere.
I fatti spesso non si legano mai bene assieme e, se qualche volta si incontrano, dietro di loro si nasconde un’infinità di cause complessa e variegata. E poi ci sono i fatti apparentemente insignificanti, inutili e casuali che possono dischiudere deboli connessioni di senso, ma impreviste: la vita di un ragazzo in carcere, i movimenti della polizia fra le due e le tre del pomeriggio, gli sguardi di un valligiano rivolti al suolo e le pause nei monologhi di un anarchico (ma era anarchico?) che catechizza uno sbirro.
Fatterelli assurdi, lo so. Ma è inevitabile che sia così: non posso ora cogliere il pulviscolo di fatterelli da cui avviare altre riflessioni, meno assurde. Io sono qui, in università, leggo le notizie dell’ultim’ora e sullo schermo del computer mi arrivano solo le sceneggiature – e i disegni della Provvidenza.

François Milieu

Gareth Evans – Serbian Maut, The Raid (TFF 29)

novembre 30, 2011 § 2 commenti

Stasera (martedì 29 novembre) Gianni Amelio ha presentato Serbian Maut, The Raid, di Gareth Evans, regista gallese naturalizzato indonesiano. Davanti al pubblico del Reposi, ha sciorinato le proprie opinioni sul film.

Primo: si tratta di un film che non dovrebbe assolutamente essere in concorso. “Non sono per nulla d’accordo riguardo alla candidatura di questo film al mio Festival”, dichiara il direttore. Pensavamo li scegliessi tu i film, rispondono sottovoce dalla platea. Ma Amelio non ha ancora finito.
Secondo: “Quello di Evans è un film di genere, e i film di genere o si fanno bene o si fanno male”. Perentorio, il Gianni, ci sorprende ancora: lo lasciamo continuare.
Terzo: “Nel film non vi è esaltazione della violenza: si tratta di un film purissimo, dove il sangue che scorre a fiumi non è affatto esaltato come tale. Vi accorgerete di quanto candida sia la regia di Evans”.
Prendiamo le parole del direttore del festival come spunto per l’analisi del film; lascerò la prima affermazione, che è decisiva, per ultima.
Il film di Evans è, indubbiamente, un ottimo film di genere. Si tratta di un film low-budget che riesce a coordinare benissimo i pochi elementi in gioco (poliziotti iperaddestrati, incastrati in un vecchio edificio che pullula di esaltati esperti di arti marziali). Il ritmo serratissimo, i calci, i pugni, le esplosioni e qualche pacchianata splatter: Evans lavora bene e riproduce in minatura tutti i clichées del cinema nipponico e americano.
Essendo un buon film d’azione, The Raid non può non lavorare sull’estetizzazione della violenza. Amelio parla di purezza, ma nel film non c’è niente di puro: assistiamo a una pellicola torbidissima, violenta all’estremo, con la telecamera che indugia sui particolari – le strisce di sangue, un tizio decapitato da una porta, i pezzi di cervello spalmati sul muro.
Quella di Amelio sulla purezza del film è una bugia diplomatica, che ben presto si trasforma in una barzelletta: alle prime frasi esaltate dei supermilitari, in platea si ridacchia, e quando si arriva alle prime boiate splatter il pubblico non tiene più le risa, e applaude non senza una vena di sarcasmo.
Resta da svolgere la prima delle affermazioni di Amelio: il film non era da candidare. Su questo il nostro regista ha perfettamente ragione: non solo il film non rappresenta nessuno di quegli “apporti innovativi del cinema indipendente” che il TFF dovrebbe premiare, ma non è assolutamente adatto alla maggioranza del pubblico di cinefili del Festival, che difatti si diverte, ma perché trova la pellicola ridicola.
Il film di Evans, inoltre, è di una piattezza disarmante, non un’occasione è colta per lasciare un messaggio, tracciare un percorso di significato. Le uniche morali della pellicola (l’amore fraterno è più forte delle contrapposizioni sociali, la polizia è corrotta e ingiusta quanto i criminali) sono delle tautologie così totalizzanti da denunciare la propria superficialità. Chi ha fatto pressione, allora, per far entrare un film come The Raid in concorso? La risposta ce la dà sempre il buon Amelio: “Salutate Jacono, il distributore italiano del film. Un applauso, perfavore”.
Clap.
Clap.
Clap.

A good old fashioned orgy – Gregory e Huick (TFF29)

novembre 28, 2011 § Lascia un commento

Un gruppo di trentenni ancora “giovani” se la spassa organizzando party in una lussuosa villa in riva al mare. Fra costumi deliranti, birre, tette e eccessi di ogni tipo, si consumano le notti brave dell’estate. Ma la casa appartiene ai genitori di Eric, che sono decisi a venderla. Occorre organizzare una festa finale, per dire addio al paese dei balocchi, ed Eric decide per “una bella orgia vecchio stile”.


A good old fashioned orgy è un film affatto divertente, che conquista con le gags a ritmo serratissimo, i colori patinati e le tette siliconate delle attrici americane. Certo, non è nient’altro che una versione raffinata della commedia adolescenziale hollywoodiana, una riscrittura per pubblico adulto di quei film che vanno da American Pie a Scary Movie. Fin qui niente di male, solo un film di genere che spicca per la mediocrità in un contesto cinematografico dove lo standard è infimo. Purtroppo però stiamo scrivendo dal Torino Film Festival: è bene dunque scendere nel dettaglio, e invitare sul banco degli imputati i registi Gregory e Huick, e con loro anche Amelio e Martini, gli organizzatori del festival.
A good old fashioned orgy non è solo una commedia divertente. A good old fashioned orgy è un film generazionale, un’opera apologetica in difesa dei bamboccioni americani, di quella una classe di affabili e palestrati nullafacenti che vive alle spalle dei propri padri, in attesa del crollo dell’impero. Si tratta di un ritratto estetizzante di quello che Gregory e Huick ritengono essere trentenne americano-tipo, impegnato nello stachanovistico sforzo di migrare da un party all’altro – che si sveglia al mattino con un terribile hangover e la sera non può andare a dormire finché non trova un chiodo da schiacciare.
“Ai tempi dei nostri genitori i trentenni sembravano più vecchi: avevano i baffi, e un posto di lavoro”: in questa frase del protagonista non c’è consapevolezza o autocritica, ma solo una compiaciuta constatazione di fatto. Siamo di fronte all’antitesi di un film di denuncia, che propone un sogno americano al contrario, in cui tutto è già ricevuto e si può solo scialacquare, e l’unica regola è leccare il miele finché cola. E chi non segue il modello deve trovare il modo di redimersi: Adam, l’inibito ingegnere della combriccola orgiastica, troverà se stesso solo alla fine del film, quando ormai si sarà fatto licenziare e avrà gettato il suo Blackberry in mare, perché ha capito che lavorare porta solo stress, ed è molto meglio darsi alla birra e alle scopate selvagge.
Nella conferenza stampa d’apertura del TFF, Gianni Amelio ha dichiarato di amare le commedie e i film comici. Beh, Caro Gianni, anche a noi piacciono: ma c’è comicità e comicità. Quelli che hai portato nel Film Festival sono due soldati conniventi della Cbs, due pezzi grossi dell’intelligencija della società dello spettacolo americana.
Alla prima sono entrati nel cinema vestiti come buffoni, uno con il kilt e l’altro con una mise improbabile. Si sono comprati la folla regalando prosecco e magliette, poi hanno arringato gli spettatori con un cabaret improvvisato: dopo pochi minuti si è assistito allo spettacolo del pubblico che a comando ripeteva in coro “Ciao Alex, grazie per l’orgia”. In questi giorni si vedono ancora quei due girare per le sale, baccagliando impunemente maschere appena maggiorenni.
Il momento topico della premiere di domenica 27 è stato il boato della sala, il fragore scrosciante e interminabile degli applausi che hanno accompagnato il finale del film. E’ stato un gesto di estrema e inconsapevole violenza che mi ha profondamente scosso. Violenza nei confronti dei lavoratori della conoscenza che hanno manifestato la sera dell’apertura del TFF e che nessuno ha pensato di applaudire, violenza nei confronti di tutte le grandi opere di denuncia che sono state proiettate al festival davanti a sale vuote, violenza nei confronti dei trentenni americani che si fanno un mazzo tanto per cercare un lavoro e col cazzo che qualcuno girerà un film così divertente e applaudibile su di loro.
A good old fashioned orgy è un filmuccio, ma qualcosa di fondamentale ce lo ha insegnato: che i peggiori nemici del buon cinema non sono dei personaggi come i due trentenni debosciati che lo hanno girato; il peggiore nemico del buon cinema, oggi come ieri, è il pubblico, il pubblico e i suoi applausi scroscianti e fragorosi, e la sua volubilità per il prosecco, le tette al vento e le storie scintillanti. Pensavamo di averlo bandito dal TFF, il pubblico, ma invece no – è dentro di noi, e non possiamo farci niente.
Ma le cose, bisogna ammetterlo, potrebbero andare peggio: non può che essere peggiore, infatti, il pubblico ci attende al varco del 30° TFF. Non possiamo dirci: Gianni, abbi pietà di noi.

Nuovo Realismo

ottobre 25, 2011 § 2 commenti

L’esperienza storica dei populismi mediatici, delle guerre post 11 settembre e della recente crisi economica ha portato una significativa smentita di due dogmi centrali del postmoderno: l’idea che la realtà sia socialmente costruita ed infinitamente manipolabile, e l’idea che la verità e l’oggettività siano nozioni inutili. I fatti, che non sopportano di essere ridotti ad interpretazioni, sono tornati a far valere i loro diritti. E si conferma l’idea che il realismo abbia delle implicazioni non solo conoscitive, ma etiche e politiche.
Nel confronto tra realisti e antirealisti non è in questione – ovviamente – l’esistenza della realtà, ma il ruolo di schemi concettuali e pratiche sociali nella costruzione della realtà. È per esempio evidente che le tasse e i matrimoni dipendono da schemi concettuali e da costruzioni sociali, ma questo vale anche per le montagne e i numeri? E – con ricadute politiche più complesse – per entità che sembrano oscillare tra natura e cultura come, ad esempio, il sesso o le malattie?
Gli antirealisti, e in particolare i postmodernisti, tendono ad allungare la lista delle realtà costruite, muovendo dall’assunto che il mondo esterno è una realtà amorfa che riceve forma e senso soltanto dai nostri schemi e dalle nostre pratiche. Con questo, però, rinunciano all’analisi e alla critica, affidandosi a una tesi generica per cui tutto è costruito e interpretato. Il lavoro filosofico serio, invece, incomincia proprio quando si è in grado di distinguere, con pazienza e caso per caso, che cosa è naturale e che cosa è culturale, che cosa è costruito e che cosa no.

Dove sono?

Stai esplorando le voci con il tag società dello spettacolo su odiolode.