ACAB (2011) – Sinossi del film

febbraio 1, 2012 § 1 Commento

Acab è un piccolo capolavoro del cinema italiano. Torinese, autoprodotto, fresco fresco di uscita. Si tratta di una favola metropolitana che immortala il percorso di formazione di Pino, giovane valsusino, ricostruendo gli ultimi atti di antagonismo che hanno scombussolato la nostra cara urbe. Riportiamo qui la recensione pubblicata sul “Venerdì di Repubblica” (30/1/12), che apprezziamo per la sua neutralità. Per esigenze di stringatezza l’abbiamo ridotta, attinendoci al modello di sinossi wikipediano.

Pino, studente sbarbatello, si dirige a scuola con un amico, quando i due vengono fermati da un poliziotto rasato con un Uzi che chiede loro i documenti. Pino mostra la sua carta mentre l’altro, non trovando la propria, tenta di scappare. Il poliziotto s’incazza e lo pesta, ma non riesce ad immobilizzarlo del tutto, finendo per lasciarselo scappare. Dopo un breve ma inutile inseguimento, lo sbirro acchiappa un gatto di passaggio: lo apre in due per berne il sangue e si tinge di rosso una svastica sulla testa. Booom! Titolo di apertura: “ACAB”. Sullo sfondo una serie di scene di pestaggi ad opera della polizia sui manifestanti locali. Nel mezzo anche alcune scene tratte dal film 1984 basato sul famoso libro di Orwell.

Dissolvenza. Scena a luci basse ambientata nelle sedi della polizia.

Siedono a un tavolo, rispettivamente, un inquietante generale con un bottone al posto di un occhio dall’accento fortemente tedesco, il maiale Napoleone, Rasputin, Jafar ed il Commisario Basettoni. I cinque cattivoni cantano vecchie e gloriose canzoni fasciste, mentre giocano a freccette con una foto di Mahatma Ghandi. Entra un marine, trascinando un bambino addormentato, completamente nudo. Jafar lo scuoia vivo invocando la potenza del Sistema. Un lampo di luce ed il bambino scompare. Nel frattempo Pino, all’esterno dell’edificio in una manifestazione NOTAV, sviene. In un mondo indistinto, fatto di corpi senza volti, gli appare l’immagine di Carlo Giuliani, vestito di bianco e con un bellissimo paio di ali. Carlo gli intima di seguire l’uovo bianco. Pino si alza e prende un uovo dalla cesta delle uove lanciabili e la lancia verso la finestra. L’uovo finisce in mezzo alla sede della polizia ed esplode, distruggendo tutto l’edificio. La profezia è avverata. I NOTAV hanno vinto. L’ASKA ha vinto. I SI all’esterno si piangono addosso per l’abuso di violenza. Tra la folla, il direttore dell’Ode esamina il tutto affascinato sotto effetto di DMT.

Si scopre così che Pino è l’Eletto, e viene ribattezzato Jaco-pino. La gente ricomincia a credere nella lotta al Sistema, e tutti confidano nelle potenzialità di Jac. Il giorno dopo, mentre Pino è all’università per seguire un corso, un poliziotto gli spara nei bagni e lo rapisce.
Il film si chiude con l’immagine di Jacopino col pugno alzato. Acab II: Reloaded saprà raccontarci il resto.

Acab (2011) – Scheda Tecnica

REGIA: Antonio Negri & Michael Hardt
SCENEGGIATURA: Lorenzo Cesarano, Barbara Petronio, Leonardo Marsili
ATTORI: Pierfrancesco Favino, Marco Giallini, Antonio Negri, Domenico Diele, Andrea Sartoretti, Roberta Spagnuolo, Eugenio Mastrandrea, Eradis Josende Oberto
Ruoli ed Interpreti

FOTOGRAFIA: Paolo Carnera
MONTAGGIO: Patrizio Marone
PRODUZIONE: Mamma e Papà
PAESE: Italia 2012
GENERE: Drammatico
DURATA: 112 Min
FORMATO: Colore

Sylvain George – Les èclats (ma gueule, ma révolte, mon nom) (TFF 29)

novembre 27, 2011 § 2 commenti

La traduzione inglese Fragments del titolo Les éclats è senz’altro errata, ma esalta una ricchezza semantica di cui il documentario si Sylvain George si nutre in ogni fotogramma. Il documentario di George non è infatti un’opera cinematografica, ma una successione di fotografie animate, di ritagli di mondo, di cornici per la realtà. Vediamo un frammento luccicante, e perdiamo di vista per un attimo tutto il resto – fino a quando non siamo in grado di far conflagrare tutti questi frammenti, e cogliere il loro valore universale.


Non è un caso, d’altronde, che il film si apra con la citazione di un testo di Auguste Blanqui, L’Eternité par les Astres: l’autore ha in mente Walter Benjamin, per il quale il presente non deve essere compreso come un ordine lineare e progressivo, ma come un’”esperienza originaria” in cui il presente si incontra con il passato in una “costellazione critica” che “fa deflagrare la continuità della storia”. Ecco allora che ogni frammento, ogni astro, ogni storia assume senso nella narrazione solo alla luce della costellazione, della totalità delle storie. Il racconto di un migrante diverrà il racconto di tutti i migranti, il porto di Calais sarà tutti i porti di tutte le partenze per tutte le terribili disavventure dei profughi del terzo mondo.
I frammenti del film sono i ritagli della vita della periferia sociale di Calais: maghrebini, afghani e centroafricani, baraccopoli e incursioni delle forze dell’ordine, i desideri di un tempo migliore e la distruzione nel fuoco delle identità digitali. La storia raccontata da George è quella delle fasce periferiche della popolazione che spingono per entrare a fare parte del Palazzo di Cristallo.
Gli idiomi si parlano uno nell’altro (arabo, francese, inglese) e i corpi sono come trascinati nello spazio: fuga dalle forze dell’ordine, fuga dai paesi in guerra, scontro con le prefetture, ricerca di un luogo in cui vivere. La prima esplosione – l’abbandono della propria terra – non ha ancora estinto le movenze cinetiche dei frammenti umani, e spazzola contropelo il presente per farci assaporare la realtà dal punto di vista obliquo dell’immagine-tempo senza movimento, attraverso lo sguardo statico della presa fissa, semanticamente sinedottica e sintatticamente isolata.
George articola la narrazione con una serie di espedienti formali sperimentalistici, e fa un uso dell’immagine magistrale. La sua è una grande lezione di cinema, ma non una lezione di grande cinema: tutto è girato con una piccola DV e un piedistallo, fisso, a serrare l’immagine fotografica nella sua cornice. L’uso sistematico del jump-cut e del fermo immagine esaltano il rapporto sintagmatico fra i frammenti, separandoli e localizzandoli nell’immagine-tempo del film. Le schermate nere intervengono nella stessa direzione, a separare più grossi éclats e accorpare così i più piccoli in macrosequenze di diapositive animate.
Sono dei microdocumentari fotografici, gli éclats, e si susseguono l’uno dopo l’altro: a fare da sfondo è la giungla urbana, con la natura offesa delle periferie che spinge, come i migranti, per riconquistare il centro. Al centro delle immagini fotografiche di George, invece, è il volto, luogo per eccellenza dell’incontro con l’Altro, perché in ogni diapositiva ci troviamo faccia a faccia con un altro essere umano, e si schiude quel fenomeno privilegiato nel quale la prossimità dell’altra persona e la distanza sono entrambi fortemente sentiti.
Levinasiano fino al midollo, George ci mostra l’alterità attraverso la rivelazione del volto, che ci costringe all’immediato riconoscemento di una compresenza che è anche un’assenza, che è il riconoscimento della nostra responsabilità (come soggetti) della condizione ontologica dell’Altro.Gli éclats di George sono dei concetti-immagine che, a differenza dei concetti filosofici, hanno una dimensione emotiva ed esperienziale; ma che, come i concetti filosofici, possono avere valore di verità e di universalità.
Les éclats sono, sì, i frammenti, ma i frammenti di una esplosione – sono i pezzi ancora in movimento: detriti-durante-la-deflagrazione. Il frammento non è inerte ma vive ancora, è cinetico, e conserva nell’attimo della sua esplosione un’energia dialettica dirompente. Le relazioni fra una sequenza e l’altra – il montaggio di ogni frammento – e i legami fra un fotogramma e l’altro – il montaggio in ogni frammento – assicurano all’opera un’esistenza pulsante ed energetica, mai stabile. Il cinema, ancora una volta, è “un flusso associativo di immagini interrotto dal loro mutare”. Ogni visione del documentario deve tradursi in un’esplosione in scaglie dialettiche, in una rivolta: Ma révolte, Ma gueule, mon nom.

François de La Nuit et Marcel des Vaches Noirs, tradotti da Cristina La Parola

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