Il gioco delle sedie e le borse EDiSU

febbraio 27, 2012 § Lascia un commento

Questa mattina, sveglio dopo undici ore di sonno, immergendo i biscotti nel caffelatte, ho avuto l’occasione di imbattermi in un borsista idoneo e beneficiario, una categoria bistrattata di questi tempi, una cerchia di privilegiati destinata ad estinguersi: vivo infatti con uno di quei pochi studenti borsisti che è riuscito a trovare una sedia quando Cota ha spento la musica.

Quando facevo la materna, le elementari forse, andava di gran moda per le feste di compleanno all’oratorio, il gioco delle sedie, stupido ed elementare ma allo stesso tempo crudele e darwiniano: ti veniva imposto infatti di correre intorno ad un cerchio di sedie con i tuoi compagni, pronto a scaraventarti a peso morto sulla prima sedia libera quando la mamma del festeggiato spegneva la musica. Al primo giro le sedie erano tante quante i bambini se non di più; dal secondo in poi la suddetta mamma o chi per essa si premurava di togliere una o due sedie determinando così l’esclusione di quei bambini che non avrebbero trovato posto al tacere della musica.

Questa mattina, mentre facevo colazione con il mio raro esemplare di borsista idoneo beneficiario, costui mi raccontava di come la sua amica Pina, straniera, non avesse ricevuto il rimborso della prima rata e di come questo rischiasse di compromettere, meglio, stroncare la sua carriera scolastica. Prima di fermare la musica infatti, il Presidente Cota si era infatti premurato di togliere il ben più dei due terzi delle sedie.

Sicuramente il Presidente della Regione Piemonte non ha avuto occasione di imparare il gioco delle sedie per come l’ho conosciuto io: la versione federalista pare molto più selettiva.

Così questa stessa mattina, mentre io bevevo il caffelatte con il beneficiario e la sua amica Pina (che il suo nome sia inventato non significa che non si possa raccontare lo stesso la sua storia), un confronto tra Atenei e Regione ha provato a stabilire le regole per il prossimo anno, a disporre le sedie prima di far partire di nuovo la musica. Il lavoro per la definizione del bando per le borse di studio universitarie del prossimo anno si è subito arenato sulla questione finanziaria: i fondi stanziati al momento basterebbero infatti a malapena a garantire la seconda rata delle borse di quest’anno, lasciando questa voce del bilancio a secco per la copertura delle borse dell’anno prossimo.

La stretta imposta sulle risorse ha portato il dibattito a focalizzarsi sulla questione del merito di modo da poter portare a frutto tutte le borse erogate senza perdere neanche un centesimo sugli studenti non meritevoli. Di fronte dunque ad un investimento limitato per un numero di studenti (e di conseguenti circoli virtuosi) potenzialmente illimitato si è fatta ancora una volta la scelta più facile: invece di aumentare le risorse per andare incontro alla domanda, si è deciso di rendere l’accesso a tali risorse ancora più difficile e selettivo di modo da poter poi magari vantare un successo nella copertura di tutte le borse di studio.

Le sedie saranno sempre meno, e quando si fermerà la musica la prossima volta rischia di non sedersi nessuno.

Girlson Film
Foto: mirko isaia photography

Il Cibo Crudo – II

febbraio 23, 2012 § 29 commenti

Ultimamente mi capita sempre più spesso di imbattermi nella spinosa questione del vegetarianesimo. La definisco spinosa principalmente perché accogliere o respingere il paradigma è una scelta complessa che coinvolge più livelli: emotivo, morale-etico, scientifico, ambientalista. Il dibattito si articola il più delle volte sulla linea tra scienza e pseudoscienza, tra ragione e emotività; inoltre il problema è tale da richiedere, da parte di chi lo accetta o rifiuta, una scelta e un’assunzione di responsabilità che può implicare un completo cambio del proprio stile di vita.
Proprio quest’ultimo motivo ha due importanti conseguenze. Primo: chi diventa vegetariano deve avere ottimi motivi per farlo, per poter giustificare una così grande scelta, e per avere la forza di fare il salto. Secondo: chi, posto dinanzi al problema, sceglie di non diventarlo, deve avere a sua volta buoni motivi per giustificarsi e non avere problemi con la propria coscienza.
Dettaglio non secondario: in casi come questo, non scegliere equivale a scegliere per il no: non ci sono vie di mezzo, almeno in linea teorica (ma è sempre possibile ad esempio mangiare carne in piccole quantità).
In questo piccolo articolo non intendo scendere nel dettaglio delle argomentazioni delle due posizioni, ma mi limiterò esclusivamente ad esprimere il mio punto di vista sui fondamenti emotivi e razionali dei ragionamenti dei pro-veggie, dunque da un punto di vista assiologico.
A titolo d’esempio scelgo tre fonti principali da cui trarre elementi per il mio esame: ILpianetaVEGetariANO, pagina facebook molto nota nel settore; sceglivegan.org, altro sito di riferimento affine (sebbene vegano e non vegetariano); vegetarianpage, un’altra pagina facebook. Porto come fonti due pagine facebook perché aggregano contenuti vari e non hanno un autore unico, e ritengo possano mostrare adeguatamente il mainstream.Nelle pagine facebook trovo alcuni contenuti che mi spaventano o preoccupano, a seconda dei casi. Faccio solo alcuni esempi. Qualche settimana fa ho trovato dei link alla pagina di una signora che sostiene di essere guarita miracolosamente da un tumore maligno solo grazie alla medicina vegetale e alla sua forza interiore. Mentre scrivo, vengono postati link a siti come godsdirectcontact, con articoli che osannano lo stile di vita vegetariano e il contatto con la natura gattopoli.it, e altri siti animalisti, in cui vengono narrate commoventi storie su cani che salvano uomini, uomini che salvano cani, maiali salvati dal macello e tutti che si amano e si vogliono bene (le pagine facebook di vegetariani sono uno sproloquio di cuoricini e faccine sorridenti), siti del tipo scuoladellasalute, dove chiaramente le vie per la salute sono piuttosto esoteriche e interessano “autoguarigioni” e “channelling”.
I contenuti presentati e il generale stile di pensiero delle persone e dei punti di riferimento-guru del settore hanno una ben chiara impostazione mentale, che mi sento di poter definire spiritualista, o, se vogliamo, trascendentalista, alla Thoreau. Molto spesso mi sono trovato di fronte a un uso molto aggressivo della retorica (non che siano gli unici, ma…), perché i vegetariani e vegani amano la natura, amano gli animali, si amano tra di loro e insomma, amano, mentre chi mangia carne è cattivo, crudele, irrazionale, insensato.
Se vogliamo porci da un punto di vista scientifico, razionale, laico, gli irrazionali sono loro. Ora, mi riferisco solo ad alcuni elementi e ad alcune fonti, ma ad ogni modo ritengo formino buona parte dell’orientamento psicologico dei settori di cui sto parlando. Le mie sono sensazioni, opinioni, ma le offro con la speranza che siano ascoltate come motivate.
A mio modesto parere la matrice filosofica del vegetarianesimo va ricercata nelle correnti ilozoiste, quelle che considerano la terra, l’universo e tutto il resto come degli insiemi unitari e fortemente interconnessi, spiritualizzati, con una divinità immanente anche se non sempre dichiarata che conferisce unità e, a tutto, anima. Da questo modo di vedere, piuttosto buddhista, deriva il suddetto amore per tutto e tutti, animali inclusi.

Questa matrice irrazionalista e spiritualista può, a mio parere, avere dei risvolti pericolosi: in primis, è terreno fertile per truffatori e ciarlatani che vivono vendendo erbe magiche, pozioni, guarigioni alternative, false promesse e false illusioni; in secundis, assiologicamente, è una posizione a mio parere sbagliata, in quanto irrazionale, pseudoscientifica, falsa (anche se probabilmente, spesso, in buona fede); per finire, può essere pericolosa per chi ci casca, in quanto le persone che credono in tali faccende (e che così facendo si abituano a modelli mentali irrazionalisti e pseudoscientifici) possono essere indotte a scegliere rimedi inefficaci alle malattie – rischiando di curare un tumore con l’acqua santa e l’alzheimer con un pellegrinaggio.Il vero problema è che c’è chi ci crede.

Mi si potrebbe far notare: beh, e cosa c’è allora di diverso da una qualunque religione? Non potrei che rispondere: in effetti, credo proprio che si tratti di una specie di religione, però laica. Ho visto pagine su pagine di persone che dedicano la propria vita a queste idee, scambiandosi dolci, foto di maialini e gattini con occhi enormi, coperte di scritte e photoshoppate peggio delle foto profilo dei truzzi. Secondo me, ammesso che sia sbagliato trattare ugualmente i diversi, allora tanto umanizzare i disumani quanto tacciare di disumanità quelli che trattano in modo disumano i disumani sono atteggiamenti profondamente sbagliati.

Conclusione. Sia ben chiaro che io qui sto criticando un solo lato del vegetarianesimo, veganesimo e affini: la spiritualità e l’accento (retorico o reale) sull’amore e sul rispetto verso l’universo e gli animali. Non è questo il luogo per esporre la mia opinione, ma al fine di permettere al lettore di contestualizzare le mie opinioni mi sembra giusto farvi un accenno: credo che il consumo di carne vada ridimensionato, come più in generale il consumo eccessivo di qualunque cosa in ogni aspetto della nostra vita, per ragioni etiche e ambientaliste; inoltre credo che gli animali siano delle gran belle cose, ma che si tratti di un errore di antropomorfizzazione parlare di sensibilità, paura, gioia, emozioni, stress, rabbia o dolore (in quanto semplici reazioni meccaniche da noi interpretate e tradotte in emozioni umane); credo che usare inutile violenza o crudeltà sia un comportamento privo di senso, anche se non sempre moralmente sbagliato in senso stretto, e che quindi vadano evitate inutili atrocità, dove possibile.

Pietro Pasolis

Quale futuro per l’università?

febbraio 21, 2012 § 3 commenti

Proprio come fanno le persone a capodanno, l’Europa ha fatto i suoi fioretti per l’inizio millennio. “Diventare l’economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo, in grado di realizzare una crescita economica sostenibile con nuovi e migliori posti di lavoro e una maggiore coesione sociale” (documento conclusivo del Consiglio di Lisbona, marzo 2000). E proprio come le persone, anche l’Europa ha prontamente disatteso le sue promesse.


La strategia di Lisbona, piano unitario di sviluppo europeo per il decennio 2000-2010, prevedeva di portare la conoscenza al centro dell’agenda della società e dell’economia europea. Nonostante i buoni propositi, l’Europa ha dovuto ammettere di non aver affatto raggiunto i propri obiettivi (valutati con appositi indicatori statistici). E nonostante il progetto Europa 2020 rilanci con obiettivi ambiziosi sui piani dell’occupazione e della conoscenza (aumentare l’occupazione della fascia di età dai 20 ai 64 anni al 75%, portare l’investimento in ricerca e sviluppo al 3% del PIL o portare al 40% il numero di 30-34enni in possesso di titolo di studio), oggi è quanto mai difficile crederci.

Cosa è andato storto?
Si è fatto un gran parlare di società ed economia della conoscenza. Molta retorica politica del ‘900 predica l’avanzamento scientifico (leggi tecnologico) come un indispensabile volano di sviluppo e di crescita economica. Sebbene sia ancora lungi dal potersi definire un bene pubblico perfetto, nel Novecento la conoscenza ha fatto passi da gigante in quella direzione. Uno dei ruoli chiave di questa diffusione e democratizzazione del sapere è stato sicuramente giocato dall’avvento della così detta “università di massa”.
Nel nostro paese, la percentuale di studenti universitari sul totale della popolazione è passato dall’inizio alla fine del ventesimo secolo da meno di 1 su 1000 ad un 3% circa, con una brusca accelerazione nel secondo dopoguerra. A oggi il numero di studenti universitari in Italia, su una popolazione di circa 60 milioni di abitanti, si è assestato tra il milione e sette e il milione e ottocentomila, con una decrescita negli ultimissimi anni.
Complice anche l’alto tasso di abbandoni, l’output di giovani laureati nell’università italiana risulta spaventosamente basso se lo accostiamo a quello di altre nazioni: con il 20% della popolazione di età tra i 30 ai 34 anni in possesso di titoli di studio di terzo livello ci collochiamo al terzultimo posto tra i paesi OCSE, subito dopo il Messico, ben lungi da paesi come gli USA o la Francia, la cui percentuale è più del doppio della nostra, per non parlare della Corea, paese che sta vivendo una crescita economica senza paragoni, dove quasi due giovani su tre sono laureati.
Eppure, nonostante l’esiguo numero, assistiamo al dilagante aumento della disoccupazione tra i giovani laureati. Insomma, i giovani laureati in Italia sono pochi, eppure sono troppi – almeno dalla prospettiva del mercato del lavoro.
Se il sistema economico non sa che farsene dei giovani laureati, a che pro illudere dei ragazzi con la solfa stantia della “classe dirigente del futuro”, quando invece la loro laurea in lettere non farà che render loro più difficile l’accesso al call center? Se sforniamo più laureati di quelli le cui legittime aspirazioni riusciamo a soddisfare, a che pro destinare così tanti fondi alla spesa pubblica in istruzione invece di liberarli ad esempio per la sanità o per i servizi sociali? A che scopo investire sulla formazione di talentuosi dottorandi che non potremo riassorbire in alcuna professione di ricerca, regalando così intelligenze formate a qualche paese straniero o semplicemente sprecandole?
In questa chiave di lettura trovano una loro legittimità tutte le manovre politiche (e ancor prima culturali) volte ad alleggerire un sistema universitario sovrabbondante rispetto alle esigenze della società. Certo, nessuno (nemmeno il governo dei tecnici con la sua fiera indifferenza a velleità quali il consenso popolare) oserebbe affermare pubblicamente qualcosa di così scomodo come “rottamiamo l’università”: si parla più elegantemente di meritocrazia e razionalizzazione (Gelmini), si invita al ritorno ai lavori manuali (Tremonti), si additano come sfigati coloro che studiano ancora a ventotto anni (Martone, che essendo un tecnico non ha bisogno di essere elegante).
Questo governo si trova così a dover ridimensionare un sistema universitario ipertrofico, un edificio eretto con ingenuo ottimismo sulle fondamenta della retorica utopica della società della conoscenza, rimpiazzandolo con un edificio più snello ed efficiente, sostenuto dalle solide fondamenta del sistema economico.

A brave new world?
I piani per la demolizione, abbozzati dal team di Gelmini e migliorati dal tecnico Profumo, sono già avviati su molti fronti.
Oggi in Italia c’è circa 1 professore strutturato ogni 30 studenti: un numero particolarmente basso, che si traduce nell’affollamento delle strutture e nella superficialità con cui vengono “somministrati” certi corsi o seguiti certi tesisti. In Svezia questo numero è quasi il doppio. Per riportare a livelli accettabili questa proporzione, a beneficio della qualità della didattica, due sono le strade percorribili: aumentare i docenti o diminuire gli studenti.
In Italia circa 10.000 dei poco meno di 60.000 docenti e ricercatori italiani andranno in pensione nei prossimi dieci anni. Con un’azione legislativa di attuazione la legge Gelmini, il Ministero ha fissato rigidi criteri finanziari per le assunzioni, che non potranno mai superare un’assunzione per ogni due pensionamenti. A tappare le falle provvederà presumibilmente quello stuolo di “accademici usa e getta”, giovani brillanti e precari che battono alle porte dell’università sperando di non rimanere fuori dall’imbuto, e il cui numero oramai supera quello dei docenti strutturati.
A fronte di un questo calo del personale si farà allora urgente la necessità di abbattere il numero degli studenti, a cominciare dagli improduttivi fuoricorso che, secondo l’opinione diffusa dei politici e dei media, stanno sprecando il loro tempo e stanno parassitando risorse pubbliche.
Il Decreto Ministeriale 17 del 2007, promulgato dal governo Prodi-Mussi, ma che solo negli ultimi mesi sta venendo applicato, sancisce una serie di regole auree quali ad esempio il limite massimo di studenti per docente in base a specifici corsi di laurea. Pensato forse in origine come una chiave per aprire gli accessi a nuovo personale docente, oggi sta venendo impugnato dall’altra parte, favorendo in molte università l’adozione del numero chiuso.
Ma le misure più efficaci per ridurre il numero di studenti e/o per scaricare su di loro parte gli ingiustificabilmente alti costi dell’università pubblica devono ancora manifestarsi. Alcuni politici, economisti ed accademici guardano infatti a quanto è avvenuto nel Regno Unito con l’implementazione del rapporto Browne: le rette universitarie imponibili dagli atenei (e di fatto imposte dalla maggior parte) sono passate da 3000 a 9000£. Agli studenti è stato offerto per farvi fronte lo strumento dei “prestiti d’onore”. In Italia, dove il vecchio sistema di diritto allo studio fondato sulle borse di studio sta venendo lasciato morire di atrofia di finanziamenti, questo sistema potrebbe permettere l’accesso agli studi agli studenti “migliori”, che potrebbero altresì scegliersi gli atenei “migliori” operando così una selezione naturale in un contesto di competizione che porterebbe loro un sacco di iscritti e dunque soldi come “premio” per la loro qualità.
E se anche accadesse, come sta avvenendo nel Regno Unito, che molti studenti migrassero per studiare all’estero, che importanza avrebbe, visto che il sistema economico non sa che farsene di tutti questi laureati? Inoltre il prestito avrebbe il vantaggio di spostare i costi dell’università su chi beneficia dell’istruzione, solo se guadagnerà abbastanza da potersi permettere di ripagarlo; se non potesse allora sarebbe colpa dell’università, che avrebbe formato un professionista inutile o incapace, quindi a lei spetterebbe di pagarne i costi. Insomma, un sistema che moltiplica il denaro, e che rischierebbe di trasformarsi in una bolla finanziaria esplosiva solo nel caso in cui si arrestasse la crescita del PIL (opzione che i sostenitori del prestito d’onore ritengono semplicemente impossibile a fronte delle leggi del mercato, poco importano le dichiarazioni di recessione recentemente fatte dall’ISTAT!).
Infine, all’eccessivo numero di corsi, sedi e atenei metterà presto un freno l’ANVUR, l’agenzia di valutazione nazionale, vero e proprio braccio armato del Ministero. Un decreto di recente scrittura attribuisce infatti all’agenzia il potere e dovere di “accreditare” le strutture che soddisfano certi requisiti da essa sanciti ovvero di “sopprimere” quelle che non li rispettano. Una mossa volta a promuovere la competizione tra atenei premiandoli con la sopravvivenza, liberando la politica dallo scomodo ruolo di giudice e boia per affidarlo alle capaci mani “tecniche” dell’ANVUR.
Queste sono le incisive misure che il presente governo sta attuando per riportare l’università dall’iperuranio onirico della “società della conoscenza” alle necessità concrete del sistema economico. Promuovendo la ricerca applicata e il trasferimento tecnologico, così come l’apertura dei CdA agli esterni all’accademia, la politica si è rivendicata il ruolo del Cupido nella meravigliosa storia d’amore tra la CRUI (Conferenza dei Rettori delle Università Italiane) e Confindustria.
Il risultato da qui a dieci anni dovrebbe essere un’università ridimensionata, con una costellazione di atenei di medio-bassa qualità che erogheranno una formazione adeguata alla richiesta di maestrine, ingegneri e azzeccagarbugli; su questi svetteranno dei poli di eccellenza che accetteranno solo pochi studenti “migliori”, addestrati per diventare (questa volta per davvero!) la classe dirigente del futuro, a cui quindi sarà perfettamente legittimo chiedere di pagare i costi dell’istruzione di alta qualità che riceveranno.
Gli ultrà dell’università pubblica di massa di alta qualità non potranno allora che rassegnarsi alla logica lineare sottesa a questo teorema: si tratta del risultato migliore possibile dato questo sistema economico. L’università così com’è sta al sistema industriale italiano, col suo scarso appetito di laureati, come le case abusive alle pendici dell’Etna: è un edificio irragionevole rispetto alla morfologia su cui poggia.

Una prospettiva diversa
C’è una premessa implicita su cui si regge tutto il ragionamento: l’analogia tra il sistema economico e la conformazione del territorio. Se accettiamo che il sistema produttivo sia un dato inemendabile di cui la politica debba prendere atto per modellare sopra a questo un sistema di società allora il ragionamento non fa una grinza. Ma c’è un altra prospettiva per vedere la cosa, spesso messa in ombra dalla prassi oggi inveterata di considerare l’economia una scienza descrittiva di uno stato di cose non modificabile. Pur concedendo che un cambiamento del sistema universitario non possa prescindere da una maggiore permeabilità del mondo economico e della società tutta verso la conoscenza, invece di dismettere gli investimenti sul sistema formativo (che già non è sufficiente per sprigionare appieno tutto il potenziale cognitivo della nostra generazione) potremmo ripensare una società ed un mondo del lavoro capaci di assorbire il valore aggiunto di tutto quel capitale umano che ad oggi stiamo sprecando o esportando.

Marco Viola


Il Cibo Crudo

febbraio 18, 2012 § 13 commenti

Ultimamente mi capita sempre più spesso di imbattermi nella spinosa questione del vegetarianesimo.
Del perché qualcuno si rifiuti di mangiare carne.
La prima cosa che associo alla carne è la bontà, il vivido orgasmo gastrico che mi procura ad ogni boccone.
La carne è buona, non ci sono cazzi. Ma questo si sa da almeno 10.000 anni, quindi i vegetariani non mangiano carne per altri motivi.
I motivi sono molteplici, e potreste sentirne almeno tre diversi da tre vegetariani differenti; ma hanno tutti come radice comune il problema dell’allevamento intensivo.
L’allevamento intensivo è senza mezzi termini e senza esagerazioni il l’applicazione del nazismo al settore alimentare.
Gli allevamenti intensivi, i mattatoi, i trasporti e tutta la filiera della carne ricorda in maniera impressionante la sistematica nazista.
Gli animali, dalla nascita al macello, vengono rinchiusi, mutilati, percossi, e sono soggetti a somministrazione di antibiotici e ormoni vari.
Per ogni animale c’è una filiera diversa, che però ha alla base la totale privazione di dignità degli animali; avviene attraverso brutalizzazione, assenza di igiene, assenza dei cicli naturali di vita degli animali.
Intendiamoci, nella morte non c’è dignità. Ma la filiera della carne è brutale dalla nascita alla morte dell’animale.
Io non voglio convincere nessuno a diventare vegetariano, io vorrei solo portare qualcuno di voi a pensare per un secondo a cosa mangia.
Perché non è un problema solo degli animali che vengono allevati e macellati in questa maniera, ma è un problema etico, ambientale e di coscienza.
Non possiamo fare finta che la carne piova dal cielo per cadere nel nostro piatto già bella pronta, senza sapere o far finta di sapere cosa sta dietro a questo sistema.
Diventare vegetariani inoltre non cambia nulla, perché il problema non si limita alla “fabbricazione” di carne, ma si estende all’agricoltura e alla pesca.
La pesca si divide in due rami: l’allevamento e la pesca d’altura.
L’allevamento grosso modo è come il settore della carne: sovraffollamento degli animali, somministrazione di antibiotici e ormoni, scarso igiene e grande impatto ambientale.
La pesca d’altura è invece paragonabile ad una guerra vera e propria.
Navi gigantesche solcano i mari attrezzati di sofisticate apparecchiature per individuare i banchi di pesce, reti che possono arrivare anche a 120 Km di lunghezza che setacciano tutta la colonna d’acqua dal fondale fino al pelo dell’oceano, cavi con milioni di ami che uccidono ogni cosa.
Le reti a strascico devastano i fondali distruggendo le foreste di alghe e tutti gli habitat marini legati alle specie sessili. Le reti inoltre non sono selettive ma pescano tutto ciò che incontrano: pesci vari, squali, delfini, tartarughe e anche i tanto amati cavallucci marini.
Lo spreco che sta dietro alla pesca è enorme, e non ve lo starò a raccontare qui, se la cosa vi tocca informatevi altrove.
Vi accennerò invece alcuni problemi legati all’agricoltura.
L’agricoltura, come l’allevamento e la pesca, non è quello che ci immaginiamo.
Non ci sono più i contadini vecchi e sdentati che con la zappa in mano coltivano gli orti e badano ai campi. Sto’cazzo.
Adesso l’agricoltura consiste nel coltivare mais e soia. Distese immense di centinaia di ettari coltivate a mais e soia. Il perché è molto semplice: il mais e la soia sono piante davvero versatili, e possono essere scomposte e ricomposte come si vuole, ci si può fare tutto.
Quindi non stupitevi se il 90% dei prodotti presenti nei supermercati derivano da o contengono soia e/o mais.
Inoltre, entrambe le piante sono state abbondantemente modificate da multinazionali (coma la vecchia Monsanto, già artefice del DDT e dell’Orange Agent, usato in Vietnam) che ne detengono proprietà e diritti.
Tutti gli altri ortaggi sono coltivati in serre in Europa e da lavoratori/schiavi in Sud America.
Quindi un avviso a tutti i vegetariani e vegani dei miei coglioni che a cuor leggero e con la coscienza a posto schifano la carne, per poi abboffarsi di insalata lavata nei pesticidi chimici: usa il tuo fottuto cervello per capire da dove arriva e cosa ha passato il tuo pranzo.

Shimshon il filisteo
foto: Federica Peyronel (flickr)

L’individualismo ai tempi dell’austerity

febbraio 13, 2012 § 2 commenti

Lo spread sale, lo spread scende, lo spread decide il buongoverno. I giornali sono pieni di paroloni e articoli che hanno tutta l’intenzione di non farsi leggere. In tv gli spot invitano tutti a comprare, giocare, investire e richiedere mutui. Nei dibattiti televisivi gli esperti di questo e quello passano il loro tempo a ripetersi che la politica ha fallito e lo confermano gli stessi politici nelle interviste. Qualsiasi gesto compiuto da una controparte, un partito, un movimento, un gruppo di attivisti non viene più discusso nel merito, qualsiasi giudizio viene espresso per screditare l’avversario e accreditare la propria fazione, non si può più parlare di nulla. Esistono solo giusto e sbagliato, ognuno si erige a giudice supremo: questo è il livello di dibattito che la classe politica attuale, più che la politica, ha portato nel nostro paese.
Viviamo una situazione drammatica, nella quale ogni aspetto della nostra vita, dallo stipendio alla pensione, viene messo continuamente in discussione dalle scelte politiche imposte da una precisa ideologia economica, eppure nel quotidiano sembra non accadere nulla di diverso da ciò che era prima, ma gli stravolgimenti sociali, si sa, avvengono per piccoli passi.
Ognuno di noi gode, per lo più inconsapevolmente, di agevolazioni, servizi, diritti, senza sapere come sono stati conquistati.
Nel momento in cui il costo di un determinato servizio aumenta e non ne riceviamo più i vantaggi, ci sentiamo isolati, traditi e impotenti. Come se avessimo perso un privilegio e non un diritto.
Guardandoci intorno non troviamo alcun luogo in cui poter esprimere il nostro disagio, nessuno a cui rivolgerci e con cui costruire qualcosa per poterci riappropriare di quello che ci viene tolto, nessun meccanismo che dia la possibilità alla collettività per riscattarsi e muoversi, dal basso.
Nella società attuale, gli spazi di aggregazione in cui poter condividere queste battaglie sono pressoché nulli.
Una valida eccezione è l’Università, dove la comunità studentesca ha la possibilità di confrontarsi, scambiare opinioni, criticità, pensieri. Lì si possono costruire dei veri e propri gruppi solidali in grado di portare avanti battaglie comuni, che vanno da come ripristinare gli appelli al funzionamento dell’intera Università.
La dinamica di ciò che accade in questi luoghi ha poche analogie con quello che accade in altri ambienti, forse ancora un poco nella fabbriche o nei teatri, ma decisamente non negli ambienti lavorativi contemporanei, come i call center, le catene commerciali di fast food, abbigliamento…
Ciò che ci accomuna al resto del mondo lavorativo è la frequente tendenza a non condividere i problemi, o almeno a non cercare soluzioni a questi problemi con i nostri colleghi o compagni di corso. E spesso non ci rendiamo conto che quasi tutti i nostri problemi sono generati da una stessa matrice, la crisi.
Sto vivendo una crisi, c’è sempre una crisi nel momento in cui qualcosa non va.” (cit. Bluvertigo)
Lungi da me tentare spiegare qui cos’è la crisi e come è stata generata, dirò soltanto che le scelte fatte in tempo di crisi non sono casuali: tagliare gli stipendi, abbassare drasticamente le risorse delle Regioni, quindi imporre un aumento dei costi dei servizi pubblici, portare la gestione dei beni comuni nelle mani di privati, derogare all’articolo 18, istituendo i licenziamenti liberi, sono tutte scelte politiche; se poi queste scelte sono imposte da un governo che si definisce “tecnico” per coprirsi le spalle, in nome della coesione nazionale, e per sentirsi legittimato a compiere una vera e propria macelleria sociale, peggio ancora.
Teoricamente lo Stato dovrebbe farsi garante della salute e del benessere dei propri cittadini, per cui in una situazione di crisi come questa, dovrebbe provvedere a sanare le richieste di aiuto, con una maggiore offerta di servizi e agevolazioni.
Ciò che sta accadendo è l’esatto contrario.
Quest’anno la situazione drammatica delle famiglie italiane ha fatto sì che le richieste di borse di studio Edisu aumentassero, come di contro-risposta la Regione ha stanziato molti meno fondi dell’anno scorso. È ormai palese l’accordo tra Regione e fondazioni bancarie per far fallire il sistema di erogazione delle borse di studio e sostituirlo, già dal prossimo anno, con i prestiti d’onore. Come risultato di tali scelte quest’anno il 70% degli idonei non riceverà alcun aiuto economico per poter studiare e, con ogni probabilità, dovrà tornarsene a casa.
Tutto ciò, probabilmente, è da ricondurre alla propensione dello Stato italiano per un welfare familistico, piuttosto che per la tutela del singolo cittadino: così chi ha una famiglia alle spalle con un reddito dignitoso sarà molto più agevolato degli altri nell’entrare in Università, così come nel permettersi una casa in affitto e poi a laurearsi.
Ciò che ci rende simili è la nostra condizione sociale, quella di cittadini, per cui ad una determinata azione politica dello Stato corrisponde una conseguenza per tutti.
La classe politica degli ultimi anni, nei suoi disastri e nelle sue miserie, ha fatto sì che si sviluppasse in Italia una forte ondata di “antipolitica”, volta ad allontanare le persone dal porsi le giuste domande, a svilire il senso del dibattito politico trasformandolo in mera cagnara tra tifoserie, a svuotare gli organismi decisionali, come il Parlamento, di ogni significato politico e a delegittimare qualsiasi forma di politica. Per troppo tempo ci hanno fatto credere che i problemi della collettività non fossero responsabilità di questi personaggi. Troppo a lungo ci hanno fatto credere che i problemi sociali fossero questioni puramente individuali di qualche disagiato e che i problemi individuali di un singolo parlamentare fossero problemi sociali. Troppo a lungo la classe parlamentare ha dettato al popolo l’agenda politica, i temi d’interesse, sollevando dibattito solamente laddove fosse strumentale al perseguimento dell’interesse “di casta”, è ora che venga innescano un meccanismo contrario, per sviluppare dibattito laddove la collettività ne senta realmente la necessità.
In questo periodo abbiamo capito che questo modo di amministrare l’economia danneggia tutti, specie se l’economia si svincola dai paletti che la politica dovrebbe porle.
Se ci lamentiamo di questa classe politica incapace di rappresentare quelle che sono le vere richieste delle persone, poiché si organizza in modo troppo verticista per poterlo fare, dobbiamo essere noi in primis a rimetterci in gioco e a ripensare collettivamente ciò che direttamente ci riguarda.
Per fare ciò non possiamo permetterci più di giocare una partita uno contro tutti, dobbiamo necessariamente abbattere le barriere di categoria che il “dividi et impera” più che mai attuale ha posto tra di noi e ricostruire una rete di pensiero che possa in un futuro molto prossimo riappropriarsi dei diritti che ci spettano, di una condizione dignitosa della vita, del lavoro e della formazione, nessuno escluso, in nome del bene comune e non dell’utile individuale.

Camilo 2.0

ACAB (2011) – Sinossi del film

febbraio 1, 2012 § 1 Commento

Acab è un piccolo capolavoro del cinema italiano. Torinese, autoprodotto, fresco fresco di uscita. Si tratta di una favola metropolitana che immortala il percorso di formazione di Pino, giovane valsusino, ricostruendo gli ultimi atti di antagonismo che hanno scombussolato la nostra cara urbe. Riportiamo qui la recensione pubblicata sul “Venerdì di Repubblica” (30/1/12), che apprezziamo per la sua neutralità. Per esigenze di stringatezza l’abbiamo ridotta, attinendoci al modello di sinossi wikipediano.

Pino, studente sbarbatello, si dirige a scuola con un amico, quando i due vengono fermati da un poliziotto rasato con un Uzi che chiede loro i documenti. Pino mostra la sua carta mentre l’altro, non trovando la propria, tenta di scappare. Il poliziotto s’incazza e lo pesta, ma non riesce ad immobilizzarlo del tutto, finendo per lasciarselo scappare. Dopo un breve ma inutile inseguimento, lo sbirro acchiappa un gatto di passaggio: lo apre in due per berne il sangue e si tinge di rosso una svastica sulla testa. Booom! Titolo di apertura: “ACAB”. Sullo sfondo una serie di scene di pestaggi ad opera della polizia sui manifestanti locali. Nel mezzo anche alcune scene tratte dal film 1984 basato sul famoso libro di Orwell.

Dissolvenza. Scena a luci basse ambientata nelle sedi della polizia.

Siedono a un tavolo, rispettivamente, un inquietante generale con un bottone al posto di un occhio dall’accento fortemente tedesco, il maiale Napoleone, Rasputin, Jafar ed il Commisario Basettoni. I cinque cattivoni cantano vecchie e gloriose canzoni fasciste, mentre giocano a freccette con una foto di Mahatma Ghandi. Entra un marine, trascinando un bambino addormentato, completamente nudo. Jafar lo scuoia vivo invocando la potenza del Sistema. Un lampo di luce ed il bambino scompare. Nel frattempo Pino, all’esterno dell’edificio in una manifestazione NOTAV, sviene. In un mondo indistinto, fatto di corpi senza volti, gli appare l’immagine di Carlo Giuliani, vestito di bianco e con un bellissimo paio di ali. Carlo gli intima di seguire l’uovo bianco. Pino si alza e prende un uovo dalla cesta delle uove lanciabili e la lancia verso la finestra. L’uovo finisce in mezzo alla sede della polizia ed esplode, distruggendo tutto l’edificio. La profezia è avverata. I NOTAV hanno vinto. L’ASKA ha vinto. I SI all’esterno si piangono addosso per l’abuso di violenza. Tra la folla, il direttore dell’Ode esamina il tutto affascinato sotto effetto di DMT.

Si scopre così che Pino è l’Eletto, e viene ribattezzato Jaco-pino. La gente ricomincia a credere nella lotta al Sistema, e tutti confidano nelle potenzialità di Jac. Il giorno dopo, mentre Pino è all’università per seguire un corso, un poliziotto gli spara nei bagni e lo rapisce.
Il film si chiude con l’immagine di Jacopino col pugno alzato. Acab II: Reloaded saprà raccontarci il resto.

Acab (2011) – Scheda Tecnica

REGIA: Antonio Negri & Michael Hardt
SCENEGGIATURA: Lorenzo Cesarano, Barbara Petronio, Leonardo Marsili
ATTORI: Pierfrancesco Favino, Marco Giallini, Antonio Negri, Domenico Diele, Andrea Sartoretti, Roberta Spagnuolo, Eugenio Mastrandrea, Eradis Josende Oberto
Ruoli ed Interpreti

FOTOGRAFIA: Paolo Carnera
MONTAGGIO: Patrizio Marone
PRODUZIONE: Mamma e Papà
PAESE: Italia 2012
GENERE: Drammatico
DURATA: 112 Min
FORMATO: Colore

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