Ricetta per fare un film di Sion Sono (TFF 29)

novembre 30, 2011 § Lascia un commento

 

Ingredienti

– un paio di VHS dei migliori drammi psicologici di Cassavetes
– due DVD dei più estetizzanti barocchismi cromatici di Jodorowski
– Volumi II, III e IV de La Volontà di Potenza di Friedrich Nietzsche
– tabù sessuali infranti
– mutilazioni e suicidi
– giovani donne asiatiche con grosse tette

I VHS di Cassavetes lessateli, spremeteli e passateli dal setaccio. I DVD di Jodorwski scottateli, poi tritateli con la mezzaluna e infine aggiungeteli all’impasto . Prendete uno stampo di rame fatto a forma di bombetta, ungetelo bene con burro e riempitelo prima colle giovani donne asiatiche dalle grosse tette, quindi coi tabù sessuali infranti. Montate a neve le mutilazioni e i suicidi finché non diventano più grosse del resto dell’impasto; aggiungete a tutto il resto e fate restringere nella forma, a bagno maria. Sfornate caldo e riempitelo nel mezzo con un intingolo di Volumi di Nietzsche, facendo in modo che riesca piccante, e vedrete che questo piatto farà bellissima figura con gli intellettuali e sarà lodato.

Pellegrino Artusi

Gareth Evans – Serbian Maut, The Raid (TFF 29)

novembre 30, 2011 § 2 commenti

Stasera (martedì 29 novembre) Gianni Amelio ha presentato Serbian Maut, The Raid, di Gareth Evans, regista gallese naturalizzato indonesiano. Davanti al pubblico del Reposi, ha sciorinato le proprie opinioni sul film.

Primo: si tratta di un film che non dovrebbe assolutamente essere in concorso. “Non sono per nulla d’accordo riguardo alla candidatura di questo film al mio Festival”, dichiara il direttore. Pensavamo li scegliessi tu i film, rispondono sottovoce dalla platea. Ma Amelio non ha ancora finito.
Secondo: “Quello di Evans è un film di genere, e i film di genere o si fanno bene o si fanno male”. Perentorio, il Gianni, ci sorprende ancora: lo lasciamo continuare.
Terzo: “Nel film non vi è esaltazione della violenza: si tratta di un film purissimo, dove il sangue che scorre a fiumi non è affatto esaltato come tale. Vi accorgerete di quanto candida sia la regia di Evans”.
Prendiamo le parole del direttore del festival come spunto per l’analisi del film; lascerò la prima affermazione, che è decisiva, per ultima.
Il film di Evans è, indubbiamente, un ottimo film di genere. Si tratta di un film low-budget che riesce a coordinare benissimo i pochi elementi in gioco (poliziotti iperaddestrati, incastrati in un vecchio edificio che pullula di esaltati esperti di arti marziali). Il ritmo serratissimo, i calci, i pugni, le esplosioni e qualche pacchianata splatter: Evans lavora bene e riproduce in minatura tutti i clichées del cinema nipponico e americano.
Essendo un buon film d’azione, The Raid non può non lavorare sull’estetizzazione della violenza. Amelio parla di purezza, ma nel film non c’è niente di puro: assistiamo a una pellicola torbidissima, violenta all’estremo, con la telecamera che indugia sui particolari – le strisce di sangue, un tizio decapitato da una porta, i pezzi di cervello spalmati sul muro.
Quella di Amelio sulla purezza del film è una bugia diplomatica, che ben presto si trasforma in una barzelletta: alle prime frasi esaltate dei supermilitari, in platea si ridacchia, e quando si arriva alle prime boiate splatter il pubblico non tiene più le risa, e applaude non senza una vena di sarcasmo.
Resta da svolgere la prima delle affermazioni di Amelio: il film non era da candidare. Su questo il nostro regista ha perfettamente ragione: non solo il film non rappresenta nessuno di quegli “apporti innovativi del cinema indipendente” che il TFF dovrebbe premiare, ma non è assolutamente adatto alla maggioranza del pubblico di cinefili del Festival, che difatti si diverte, ma perché trova la pellicola ridicola.
Il film di Evans, inoltre, è di una piattezza disarmante, non un’occasione è colta per lasciare un messaggio, tracciare un percorso di significato. Le uniche morali della pellicola (l’amore fraterno è più forte delle contrapposizioni sociali, la polizia è corrotta e ingiusta quanto i criminali) sono delle tautologie così totalizzanti da denunciare la propria superficialità. Chi ha fatto pressione, allora, per far entrare un film come The Raid in concorso? La risposta ce la dà sempre il buon Amelio: “Salutate Jacono, il distributore italiano del film. Un applauso, perfavore”.
Clap.
Clap.
Clap.

Benning – Twenty Cigarettes (TFF29)

novembre 30, 2011 § Lascia un commento

Mi siedo, sono comodo sulla mia poltrona di velluto blu, non sono allo Slow Club ma quasi, mi preparo scambiando qualche battuta arguta con i miei vicini, guardo la sala per farmi una mappatura mentale, signore calvo, donna grassa, ragazza piacente, persone che non voglio salutare, maschere, mica male le maschere di questo cinema, guardo più volte il telefono più per vizio che per vezzo, ecco le luci si abbassano, questo sarà il mio film rivelazione quest’anno, alla faccia di Francis, con un titolo e un cappello così come può non esserlo, ultimo saluto con la coda dell’occhio alla maschera, mangio delle noccioline portate da casa, silenzio nella mia testa.

primasigaretta
ok, potrebbe essere geniale come non esserlo, dai dai dai che Benning ti stupirà, dai dai dai mi muovo dalla sedia cercando una nuova posizione comoda, chissà se dopo riuscirò a cenare,

secondasigaretta
ok uguale alla prima, ok smorfie, linguaggio del corpo, ok citazioni colte, ok chi non ama Andy, ok i più deboli iniziano ad uscire, ok,

terzasigaretta
trovo più emozionante fissare l’omino dell’uscita di sicurezza che fissare lo schermo, le battute argute non sono nemmeno più sussurrate,

quartasigaretta
la metà dei partecipanti escono, alcuni vanno in bagno, rifare l’ avanguardia è essere conservatori, basta trito e ritrito, non è sperimentalismo è un pavoneggiamento inutile ammantato da qualche studio sul linguaggio del corpo,

quintasigaretta
vanità dlle vanità tutto è vanità, tre quarti delle persone sono uscite, ancora una sigaretta, diamogli l’ultima sigaretta

sestasigaretta
ok alla sigaretta, noia noia, la gente si tiene la sedia stretta, magari potrei dormire per non uscire,

settimasigaretta
sono deciso, esco, usciamo in tanti, anche le maschere ridono, ora uscendo fumerò o non fumerò

ottavasigaretta
venti persone ancora in sala, dieci guardano, due amoreggiano, una si gira una sigaretta, tre rispondono al cellulare, quattro dormono. Credo che mi farò raccontare il seguito.
 

Durata totale novanta minuti
durata personale venti minuti
una sigaretta fumata all’uscita
10  persone disperate trovate nei bagni il giorno dopo
 

Benning, caro ragazzo hai studiato bene,
ma non è abbastanza, non lo è affatto
applicati di più la prossima volta.

Vergiss dein Ende (Way Home) – A. Kannegiesser (TFF 29)

novembre 30, 2011 § Lascia un commento

Vergiss dein Ende ha un Mondo, un’Isola dei Morti e un Istituto di Igiene. Nel Mondo le persone nascono e crescono, si incontrano e magari mettono su famiglia: trovano la via di casa. Nel Mondo gli anni si aggiungono uno sull’altro e appesantiscono le spalle dei suoi abitanti; quando le persone invecchiano la vita è sempre più irta di ostacoli e sofferenze. La strada più facile per uscire dal Mondo conduce all’Istituto di Igiene: i capelli bianchi e la pensione spalancano le sue porte e l’Istituto attende i pazienti fra bianche pareti, in letti morbidi e in cortili senza rumori. L’Istituto ha un perimetro da cui non si può uscire – se non per morire.

Qualche anziano si accorge di non essere più adatto al Mondo – perché non fa più bene l’amore, perché non ha più un compagno, perché gli mancano le energie – e sente che forse è giunto il momento di uscire di scena. Qualche anziano, però, ha una santa paura dell’Istituto e per nessuna ragione entrerebbe in quel grande edificio dove tutti i pavimenti sono lucidi. Per i vecchi amanti della libertà esiste l’Isola dei Morti, un brandello di terra in mezzo al mare: l’uomo del traghetto parte ogni giorno. Sull’Isola dei Morti ci vai per suicidarti, oppure per scoprire di poter ancora affrontare il Mondo e spostare la fine un poco più in là.

Hannelore è donna ormai anziana, costretta ad occuparsi del marito Klaus malato di Alzheimer. Il loro figlio vorrebbe mandare il vecchio nell’Istituto ma Hannelore si oppone e ogni giorno lava e nutre Klaus: lo tiene al Mondo. All’imporvviso la donna non si sente più in grado di reggere la quotidianità soffocante e scappa con Gunther, il vicino, sull’Isola dei Morti. Klaus finisce nell’Istituto (ha il suo letto, la sua camera bianca) mentre Gunther ed Hannelore provano a farla finita sull’isola al di là del mare, dove la pace della natura accompagna la fine della percezione. I due si renderanno conto di non essere ancora pronti per la morte: un gruppo di uomini del Mondo li recuperano su una barca di salvataggio.

Il titolo del film suona, in italiano: dimentica la tua fine. Klaus l’ha dimenticata, insieme a tutto il resto – non riconosce nemmeno Hannelore – e quando la moglie gli propone di fuggire dall’Istituto Igienico lui non sembra volere olterpassare i confini: senza memoria si vive bene fra pareti bianche. Gli abitanti degli Istituti – lo ricorda sempre l’ingegnere Kastorp – hanno sempre un rapporto sfasato con il tempo del Mondo.

Vergiss dein Ende mi è sembrato finora il migliore della rassegna. Un sapiente uso del colore delle immagini e un accurato lavoro sui tempi delle vite (anche nel Mondo il tempo non è così lineare) permettono alla pellicola di non scadere mai nella retorica e Kannegiesser dimostra di essere un regista marittimo, in grado di cogliere la realtà che oscilla fra le coste del Mondo e le Isole fuori da esso.

Farid al-Migliani

Woody Allen – Midnight in Paris (TFF29)

novembre 29, 2011 § 4 commenti

A Woody.

Dove sei finito Woody?

O Woody mio Woody, maestro di parola, ispirazione per molti, fonte di luce divina, sperma dello sperma d’ogni rabbino d’ America.
Oh Woody dalle fluente chioma e dallo sguardo perso e scanzonato;
Woody che ha fatto l’amore, piccolo topino circonciso, con ogni donna d’ogni latitudine; rachitico adone ti prego torna.

(anonima poesia trovata dalla maschera Giuseppina Khoo lavoratrice Rear del Reposi e gentilmente donatami alla fine della proiezione.)

Partirò da questo urlo d’amore disperato, capitato nelle mie mani più per caso che per desio, affronto l’ultimo lavoro del nostro. Certamente l’ Allen di questo lungometraggio, converranno appassionati, critici e acritici, non è l’Allen d’oro, genio vulcanico e inaspettato, ma è ormai un Allen-altro, meno straordinario e più ordinario. Con questo voglio marcare nettamente la distinzione fra pre e post, in modo da dividere e scindere i personaggi in entità differenti per poter affrontare il film con spirito non appesantito dai ricordi terribili del tempo che ormai non è più.
Quindi miei prodi sono lieto di presentarvi un giovane autore che ho avuto l’ onore d’intervistare in merito al suo Ultimo film presentato in concorso al Torino film festival, il giovane Allen-altro.

– Buongiorno Signor Allen-altro e grazie d’esser venuto appositamente a farsi intervistare dal paese di Città Laggù.
– Buona sera vorrà dire;è un piacere essere intervistato da un importante giornale come il vostro, devo anche rivelarvi che da dopo l’ operazione è la prima intervista che rilascio.
– Operazione?
– Si finalmente quest’anno ho preso la decisone definitiva e ho capito che per lavorare al mio film..
– Midnight in Paris?
– Si si proprio Midnigt in Paris, dovevo farlo, eliminare quella parte di me, ormai era solamente ingombrante e inutile; ovunque andassi la gente continuava a dire “Buongiorno Signor Allen quand’è che farà un film come Zelig?” oppure “o Woody, finalmente questo nuovo film magnifico!”, capisce anche lei che non potevo più andar avanti così, ero distrutto, diviso, parcellizzato, con un ospite ingombrante dentro di me, io.
– E allora, ci dica che ha fatto?
– Ho fatto quello che ogni persona malata avrebbe fatto, sono andato in clinica e ho profumatamente chiesto che mi venisse asportato.
– Asportato cosa?
– Aspetti aspetti che arrivo;i dottori erano scettici ma entrambi noi eravamo d’ accordo non potevamo più coesistere pacificamente, quello che è stato e potrebbe essere, il vecchio Woody, e questo nuovo, non erano fatti per coabitare lo stesso corpo e nome. Certo avevamo paura ma già altri lo avevano fatto prima di noi.
– Altri chi?
– Mi spiace ma questo non posso dirlo, la scissione è qualcosa di molto intimo e alcuni se ne vergognano oppure se ne pentono, ma tornare indietro è impossibile.
– Allora la prego, riprendiamo da dove eravamo rimasti, stava parlando dell’operazione.
– Si l’operazione lunga e dolorosa i nostri corpi vennero divisi in due metà speculari, una Woddy fiera nel suo antico retaggio ma bloccata e paurosa e io, L’ Allen altro prolifico e fine paroliere ma senza la ricerca stressante e spossante che prima mi contrastingueva.
– Ci parli di cosa è cambiato in lei
– Ora ad esempio nella creazione di questo film, mi sono principalmente basato sui gusti del mio pubblico abituale e non su me stesso, ad esempio ho rielaborato l’ idea originaria avuta da Woddy ma tarandola sul pubblico medio dei giorni nostri, è mestiere non arte, l’ esperienza mi fa dire ” Questo li farà ridere”, ” questo no”. So benissimo, e lo sanno anche loro, lo sapete anche voi, che il pubblico vuole una cosa sola ridere ma il mio pubblico ne vuole una in più far finta di pensare, avere la percezione d’ intelligenza.
– Ma lei è felice? il suo altro che ne pensa?
– Felicità, cosa è la felicità, con un film all’anno e milioni di dollari cosa vuole che sia la felicità? Ora sono più felice, ho finalmente rivelato al mondo l’ altro me stesso, non devo più nascondermi, la gente che si aspettava altro da me, di più, di ragionare, ridere consapevolmente, non lo farà e io sarò finalmente libero da quel terribile complesso d’inferiorità che provavo verso me stesso.
– Collaborerà ancora in futuro con Woody?
– Devo dire che anche in questo film, per alcune battute s’ intende mi sono avvalso del suo prezioso aiuto. Io non avrei mai pensato a dei rinoceronti.
-La ringraziamo e siamo felici che sia venuto e la salutiamo augurandole salute e prosperità per i suoi futuri film.
– Grazie a voi e buona visione.

Le parole di Allen-altro ci lasciano soli e pensosi, molte sono le domande che ci poniamo, sarà vero? sarà l’ennesimo scherzo?cosa farà in futuro? e Woody altro? Per ora non ci sono risposte ma solo mille porte che si aprono e mille specchi che si riflettono incessanti. Una cosa si può ancora dire di questo film è un muffin sgonfiato tolto troppo precocemente dal frigo. Un’atto d’amore verso una città e il suo spirito, ma a parer nostro più che amore sa di onanismo, dell’ottimo onanismo.

Raz – Rub II

Coulin e Coulin – 17 filles (TFF 29)

novembre 28, 2011 § Lascia un commento

Seguirò il commento delle registe Coulin riguardo il loro film, e farò di volta in volta le mie considerazioni. Recupero il testo dalle righe presenti nel megalibrone del TFF dato in dotazione agli accreditati. “Nel momento un cui abbiamo sentito parlare di questa storia ci siamo rese conto che era intrigante.” Ecco. Intrigante. Intrigante perché? È intrigante il fatto che 17 adolescenti decidano di rimanere incinte tutte assieme come segno di solidarietà verso un’amica che, per un colpo di sfiga (banalmente il preservativo rotto), è rimasta incinta? Ammettiamo che la cosa possa stuzzicare qualche cordicella, ma andiamo avanti col commento “e che nello stesso tempo poteva anche dire molto sulla società di oggi.” Ecco, giusto! Ma cosa? Perché francamente dal film non si capisce. Insomma, una ragazzina rimane incinta, contro l’opinione della madre e il generico e generale parere del mondo adulto, decide di tenere il bambino, riuscendo nel frattempo a creare una cricca di pseudo-madri diciassettenni che sognano una comune materna, non hippie (sia mai, troppo poco cool, e nemmeno vintage), in cui i figli cresceranno insieme, e dove i rapporti madri-figli risulteranno limpidi e amichevoli, aiutati dall’assenza del gap generazionale che, chiaramente, è solo un fatto di età. Insomma, sono queste le 17 figure che dovrebbero rappresentare un aspetto della nostra società?

Continuo con le citazioni “Le scelte disponibili sono poche per gli adolescenti e né i genitori né gli insegnanti o nessun altro trova un modo per offrire loro un’altra prospettiva.” Primo, la prospettiva altra, in realtà, non bisognerebbe aspettarla servita dal servo su un vassoio d’argento, la si dovrebbe creare. Ma va beh. Sarà poi vero che sono loro l’armata delle amazzoni che presenta le caratteristiche per ribaltare la nostra società? Francamente, a me, sembrano 17 cretine, e il film non fa che presentarci un’armata di 17 macchiette, senza alcun spessore psicologico e, anzi, qualsivoglia chance di scontro viene risolto senza spiegarlo. Ad esempio, il rapporto conflittuale tra la protagonista e sua madre, avrebbe potuto dirci qualcosa di più riguardo la decisione, da parte della protagonista, di tenere il figlio e fondare un Falansterio materno; invece, tempo qualche scena, e SBAM! madre e figlia ridono e scherzano, e magicamente la questione si risolve. Evviva!

Ma c’è un altro aspetto, il più grave, a mio modo di vedere, ed è l’assenza di una figura maschile reale, forte, autorevole o autoritaria. Manca il padre, manca l’uomo. E anche questo goal a porta vuota le registe riescono a mancarlo mirabilmente, spedendo il pallone sugli spalti. Infatti, mi sta bene parlare dell’assenza del maschio, e il film presenta tutte le carte in regola per poterlo fare: ma non c’è nessun approfondimento, nessuno sguardo critico su questa assenza, il che mi fa sospettare che le registe abbiano pagato i guardialinee e giochino in costante fuori gioco: ossia, per eliminare anche un ulteriore elemento di problematicità, il maschio, fanno che rimuoverlo. Ma il rimosso ritorna. La protagonista vive con la madre, e la figura paterna è incarnata dal fratello: del padre non ci viene detto niente. Perché non c’è? Che fa, dov’è? Boh? Come sono rimaste incinte le ragazze? In tutto questo, i rispettivi compagni sono cazzi eiaculanti, e basta: la paternità è esclusa totalmente dal discorso, senza che però venga fornita alcuna motivazione di questa esclusione.

Il film, in generale, è ipocrita. Le registe sembrano fin dall’inizio solidali con le 17 ragazzine, solidarietà che si rivela in tutta la sua inautenticità nel finale quando, la ragazza, leader delle madri adolescenziali, a seguito di un incidente, perde il figlio e lascia la città, abbandonando a loro stesse le altre madri-ragazze. A questo punto ha inizio un monologo, che definirei banale e del cazzo, in cui stringi stringi la morale è “ragazze, va bene, volevate i bambini, ma noi ve l’avevamo detto che erano solo capricci.” Ma anche qui, su calcio piazzato, le registe mancano la porta e addirittura si fanno autogol, perché in realtà non hanno nemmeno il coraggio di dire da quale parte stanno, ossia dalla parte degli adulti, dei grandi, che sanno che i figli non sono feticci, non sono oggetti che si portano a spasso per la città come simbolo della propria emancipazione perché per quello esistono le All Star. Ecco, no, niente di tutto ciò. La frase finale recita “una ragazza che sogna non si può fermare” o una stronzata simile. Della serie “sogna sogna, tanto sei un treno destinato a infrangersi contro il muro della realtà.”

Un film godibile, ma che lascia tutto invariato. Come le 17 isteriche.

Simone Traversa

Freakbeat – Pastore (TFF29)

novembre 28, 2011 § Lascia un commento

Tu non crederai a quella stronzata li? Francamente Si.

Bisogna saper credere; in una società ormai vuota, spettacolarizzata, disumanizzata, il film di Pastore-Freak antoni ricorda che la possibilità del sogno è esistita, basta ricordarsene e partire alla ricerca. Il road movie all’emiliana si lancia in uno sgangherato viaggio di formazione, un bildungfilm per le strade dei ricordi, fra canutagini, musica beat e bolle di sapone, un percorso alla ricerca della misteriosa session fra Hendrix e L’ Eqipe 84. Il film, in ricordo dell’ epoca d’oro della musica rock italiana, con uno schianto di frekantoni diventa demenziale e beat esso stesso; fra luci cangianti, musiche appassionati e vecchi leoni ancora ruggenti, le vie dell’ Emilia si riempiono nuovamente di quelle note libere e giocose, essenza del rock. Rock Rock around The clock, Rock Rock rock around the clock; il tempo passa i demenziali rimangono, con più pancia, con più ricordi ma irriverenti e fuori dal tempo come sempre, una generazione che non ha voluto crescere e la cui onda lunga influenzò tutti i movimenti a seguire, i cattivi maestri che tutti noi ambiremmo d’avere come padri. Il bianco e nero ricercata ambientazione retrò, psichedelia, pillole di filosofia orientale, biscotti della fortuna cinesi,saggezza popolare emiliana e bolle di sapone sono gli ingredienti che vanno a comporre questo piatto che sa di mortadella ed escargot.

Le pecche sembrano quasi inevitabili, un filo conduttore volutamente, ma eccessivamente, poco sostanzioso, un Frek alle volte santone indiano da sorpresa nelle patatine, un tocco di macchiettismo di troppo, rendono il tutto troppo lungo per un’ esperienza beat, rischiando di scivolare alle volte in facili espedienti da video diario all’ Italiana.

Come dire ottimo vino nel bicchiere sbagliato però in realtà non importa, sono dei ribelli mamma.

E va bene, non ho niente nella testa
può anche darsi, però adesso basta
sono un ribelle, l’ho deciso
e non m’importa di essere capito
3 volte: Sono un ribelle, mamma
vai a letto, non star sveglia nella stanza
Sono un ribelle, mamma
vai a letto, non star sveglia nella stanza
Sono un ribelle, mamma
Sono un ribelle, mamma
Sono un ribelle, mamma

Regista Il Buon Pastore
attori principali;
uno skianto di Freak Roberto “Freak” Antoni
più che figlia la nipote del beat Margherita Sofia Fesani
Un inquieto Maurizio Maurizio Vandelli che si mangiò tutta l’ equipe 84.

Luca Valenza

A good old fashioned orgy – Gregory e Huick (TFF29)

novembre 28, 2011 § Lascia un commento

Un gruppo di trentenni ancora “giovani” se la spassa organizzando party in una lussuosa villa in riva al mare. Fra costumi deliranti, birre, tette e eccessi di ogni tipo, si consumano le notti brave dell’estate. Ma la casa appartiene ai genitori di Eric, che sono decisi a venderla. Occorre organizzare una festa finale, per dire addio al paese dei balocchi, ed Eric decide per “una bella orgia vecchio stile”.


A good old fashioned orgy è un film affatto divertente, che conquista con le gags a ritmo serratissimo, i colori patinati e le tette siliconate delle attrici americane. Certo, non è nient’altro che una versione raffinata della commedia adolescenziale hollywoodiana, una riscrittura per pubblico adulto di quei film che vanno da American Pie a Scary Movie. Fin qui niente di male, solo un film di genere che spicca per la mediocrità in un contesto cinematografico dove lo standard è infimo. Purtroppo però stiamo scrivendo dal Torino Film Festival: è bene dunque scendere nel dettaglio, e invitare sul banco degli imputati i registi Gregory e Huick, e con loro anche Amelio e Martini, gli organizzatori del festival.
A good old fashioned orgy non è solo una commedia divertente. A good old fashioned orgy è un film generazionale, un’opera apologetica in difesa dei bamboccioni americani, di quella una classe di affabili e palestrati nullafacenti che vive alle spalle dei propri padri, in attesa del crollo dell’impero. Si tratta di un ritratto estetizzante di quello che Gregory e Huick ritengono essere trentenne americano-tipo, impegnato nello stachanovistico sforzo di migrare da un party all’altro – che si sveglia al mattino con un terribile hangover e la sera non può andare a dormire finché non trova un chiodo da schiacciare.
“Ai tempi dei nostri genitori i trentenni sembravano più vecchi: avevano i baffi, e un posto di lavoro”: in questa frase del protagonista non c’è consapevolezza o autocritica, ma solo una compiaciuta constatazione di fatto. Siamo di fronte all’antitesi di un film di denuncia, che propone un sogno americano al contrario, in cui tutto è già ricevuto e si può solo scialacquare, e l’unica regola è leccare il miele finché cola. E chi non segue il modello deve trovare il modo di redimersi: Adam, l’inibito ingegnere della combriccola orgiastica, troverà se stesso solo alla fine del film, quando ormai si sarà fatto licenziare e avrà gettato il suo Blackberry in mare, perché ha capito che lavorare porta solo stress, ed è molto meglio darsi alla birra e alle scopate selvagge.
Nella conferenza stampa d’apertura del TFF, Gianni Amelio ha dichiarato di amare le commedie e i film comici. Beh, Caro Gianni, anche a noi piacciono: ma c’è comicità e comicità. Quelli che hai portato nel Film Festival sono due soldati conniventi della Cbs, due pezzi grossi dell’intelligencija della società dello spettacolo americana.
Alla prima sono entrati nel cinema vestiti come buffoni, uno con il kilt e l’altro con una mise improbabile. Si sono comprati la folla regalando prosecco e magliette, poi hanno arringato gli spettatori con un cabaret improvvisato: dopo pochi minuti si è assistito allo spettacolo del pubblico che a comando ripeteva in coro “Ciao Alex, grazie per l’orgia”. In questi giorni si vedono ancora quei due girare per le sale, baccagliando impunemente maschere appena maggiorenni.
Il momento topico della premiere di domenica 27 è stato il boato della sala, il fragore scrosciante e interminabile degli applausi che hanno accompagnato il finale del film. E’ stato un gesto di estrema e inconsapevole violenza che mi ha profondamente scosso. Violenza nei confronti dei lavoratori della conoscenza che hanno manifestato la sera dell’apertura del TFF e che nessuno ha pensato di applaudire, violenza nei confronti di tutte le grandi opere di denuncia che sono state proiettate al festival davanti a sale vuote, violenza nei confronti dei trentenni americani che si fanno un mazzo tanto per cercare un lavoro e col cazzo che qualcuno girerà un film così divertente e applaudibile su di loro.
A good old fashioned orgy è un filmuccio, ma qualcosa di fondamentale ce lo ha insegnato: che i peggiori nemici del buon cinema non sono dei personaggi come i due trentenni debosciati che lo hanno girato; il peggiore nemico del buon cinema, oggi come ieri, è il pubblico, il pubblico e i suoi applausi scroscianti e fragorosi, e la sua volubilità per il prosecco, le tette al vento e le storie scintillanti. Pensavamo di averlo bandito dal TFF, il pubblico, ma invece no – è dentro di noi, e non possiamo farci niente.
Ma le cose, bisogna ammetterlo, potrebbero andare peggio: non può che essere peggiore, infatti, il pubblico ci attende al varco del 30° TFF. Non possiamo dirci: Gianni, abbi pietà di noi.

Sylvain George – Les èclats (ma gueule, ma révolte, mon nom) (TFF 29)

novembre 27, 2011 § 2 commenti

La traduzione inglese Fragments del titolo Les éclats è senz’altro errata, ma esalta una ricchezza semantica di cui il documentario si Sylvain George si nutre in ogni fotogramma. Il documentario di George non è infatti un’opera cinematografica, ma una successione di fotografie animate, di ritagli di mondo, di cornici per la realtà. Vediamo un frammento luccicante, e perdiamo di vista per un attimo tutto il resto – fino a quando non siamo in grado di far conflagrare tutti questi frammenti, e cogliere il loro valore universale.


Non è un caso, d’altronde, che il film si apra con la citazione di un testo di Auguste Blanqui, L’Eternité par les Astres: l’autore ha in mente Walter Benjamin, per il quale il presente non deve essere compreso come un ordine lineare e progressivo, ma come un’”esperienza originaria” in cui il presente si incontra con il passato in una “costellazione critica” che “fa deflagrare la continuità della storia”. Ecco allora che ogni frammento, ogni astro, ogni storia assume senso nella narrazione solo alla luce della costellazione, della totalità delle storie. Il racconto di un migrante diverrà il racconto di tutti i migranti, il porto di Calais sarà tutti i porti di tutte le partenze per tutte le terribili disavventure dei profughi del terzo mondo.
I frammenti del film sono i ritagli della vita della periferia sociale di Calais: maghrebini, afghani e centroafricani, baraccopoli e incursioni delle forze dell’ordine, i desideri di un tempo migliore e la distruzione nel fuoco delle identità digitali. La storia raccontata da George è quella delle fasce periferiche della popolazione che spingono per entrare a fare parte del Palazzo di Cristallo.
Gli idiomi si parlano uno nell’altro (arabo, francese, inglese) e i corpi sono come trascinati nello spazio: fuga dalle forze dell’ordine, fuga dai paesi in guerra, scontro con le prefetture, ricerca di un luogo in cui vivere. La prima esplosione – l’abbandono della propria terra – non ha ancora estinto le movenze cinetiche dei frammenti umani, e spazzola contropelo il presente per farci assaporare la realtà dal punto di vista obliquo dell’immagine-tempo senza movimento, attraverso lo sguardo statico della presa fissa, semanticamente sinedottica e sintatticamente isolata.
George articola la narrazione con una serie di espedienti formali sperimentalistici, e fa un uso dell’immagine magistrale. La sua è una grande lezione di cinema, ma non una lezione di grande cinema: tutto è girato con una piccola DV e un piedistallo, fisso, a serrare l’immagine fotografica nella sua cornice. L’uso sistematico del jump-cut e del fermo immagine esaltano il rapporto sintagmatico fra i frammenti, separandoli e localizzandoli nell’immagine-tempo del film. Le schermate nere intervengono nella stessa direzione, a separare più grossi éclats e accorpare così i più piccoli in macrosequenze di diapositive animate.
Sono dei microdocumentari fotografici, gli éclats, e si susseguono l’uno dopo l’altro: a fare da sfondo è la giungla urbana, con la natura offesa delle periferie che spinge, come i migranti, per riconquistare il centro. Al centro delle immagini fotografiche di George, invece, è il volto, luogo per eccellenza dell’incontro con l’Altro, perché in ogni diapositiva ci troviamo faccia a faccia con un altro essere umano, e si schiude quel fenomeno privilegiato nel quale la prossimità dell’altra persona e la distanza sono entrambi fortemente sentiti.
Levinasiano fino al midollo, George ci mostra l’alterità attraverso la rivelazione del volto, che ci costringe all’immediato riconoscemento di una compresenza che è anche un’assenza, che è il riconoscimento della nostra responsabilità (come soggetti) della condizione ontologica dell’Altro.Gli éclats di George sono dei concetti-immagine che, a differenza dei concetti filosofici, hanno una dimensione emotiva ed esperienziale; ma che, come i concetti filosofici, possono avere valore di verità e di universalità.
Les éclats sono, sì, i frammenti, ma i frammenti di una esplosione – sono i pezzi ancora in movimento: detriti-durante-la-deflagrazione. Il frammento non è inerte ma vive ancora, è cinetico, e conserva nell’attimo della sua esplosione un’energia dialettica dirompente. Le relazioni fra una sequenza e l’altra – il montaggio di ogni frammento – e i legami fra un fotogramma e l’altro – il montaggio in ogni frammento – assicurano all’opera un’esistenza pulsante ed energetica, mai stabile. Il cinema, ancora una volta, è “un flusso associativo di immagini interrotto dal loro mutare”. Ogni visione del documentario deve tradursi in un’esplosione in scaglie dialettiche, in una rivolta: Ma révolte, Ma gueule, mon nom.

François de La Nuit et Marcel des Vaches Noirs, tradotti da Cristina La Parola

Sébastien Pilote – Le Vendeur (TFF 29)

novembre 27, 2011 § 2 commenti

Quebec del Nord. Neve, a trecentosessanta gradi. Marcel Lévesque è un venditore d’auto ormai prossimo alla pensione, devoto solo al lavoro e alla famiglia. É il migliore sulla piazza, e lo sa, ma anche per uno come lui gli affari vanno male con la crisi che incalza, e la principale industria automobilistica della città destinata a chiudere i battenti di lì a breve.


A scandire il ritmo di questo dramma canadese sono i giorni trascorsi dalla chiusura della fabbrica cittadina: 252, 253, 254, 255, 256. Lo spettatore segue la tragedia di un paese che lentamente va disgregandosi, privato del principale motore economico: le pompe di benzina chiudono, il prete deve accorpare diverse parrocchie. Ma Marcel Lévesque, le vendeur, non accusa nulla di tutto ciò: l’attempato venditore d’auto prosegue imperterrito nel proprio lavoro, ed è tanto bravo e senza scrupoli che riesce a rifilare un costosissimo pickup ad uno degli operai disoccupati: ne pagherà le conseguenze?
Marcel Levesque è un’icona icastica del capitalismo e della sua cieca ingiustizia – e come la società dei consumi Marcel è giunto ormai alla vecchiaia, incapace di arrestarsi nella sua bulimica accumulazione di denaro. Ma faremmo un torto a Pilote se ci limitassimo a ridurre il suo film a questa banale metafora – il capitalismo, freddo, vecchio, spietato. No, c’è di più, e la pellicola è dotata di una stratificazione dialettica di significati. La ricchezza del lavoro di Pilote risiede proprio nel non limitarsi a proprinarci i cliché dei film di denuncia, demonizzando il padrone, il nemico, il venditore. Pilote ci conduce negli spazi interni del capitale, nell’intimità della psiche del venditore, mostrandoci come Michel si sia costruito un universo nel quale è intrappolato, un mondo fatto di passioni tristi, di elenchi del telefono e di un’agenda di impegni da rispettare.
Marcel si è costruito un mondo di relazioni sociali fittizie: regala ogni giorno la Coca-Cola ai meccanici che gli possono fornire informazioni, offre da bere al prete perché metta una buona parola su di lui, ha una ciotola piena di lecca lecca per i figli dei clienti. Ogni suo gesto gentile, ogni sorriso è sempre rivolto a un consumatore, e mai a un amico: Marcel è una scintillante insegna pubblicitaria antropomorfizzata. Al nipotino che gli chiede come si faccia a diventare un buon venditore d’automobili risponde: “Per prima cosa ti devi esercitare ad amare la gente”. Nel mondo di Marcel non esistono relazioni autentiche, la realtà è una giostra di apparenze, dove si dà per ricevere, e chi più prende più ha.
Marcel, oltre che un bravo venditore, è uno sfruttatore senza scrupoli. E il grande pregio del film sta proprio nel mostrarci come egli sia solo parzialmente consapevole della meschinità e dell’egoismo dei propri gesti. “Padre, ho detto delle bugie, ma le ho sempre abbellite per fare felice la gente”: il vendeur si giustifica dicendo di rendere felice il suo prossimo, ed è davvero convinto del suo ruolo di benefattore. Marcel non ha mai imparato a vivere se in virtù del suo lavoro, e la sua vita non avrebbe senso senza di esso, e senza una missione da compiere: rendere felice il consumatore, regalandogli dei desideri, degli oggetti luccicanti a cui anelare.
Il film di Pilote mette in scena il progressivo svelarsi dell’assenza di senso su cui si regge la vita di Marcel, la tragica desemantizzazione del suo mondo. A poco a poco il vecchio si renderà conto che gli anni passati a svuotare le tasche dei suoi concittadini non avevano altro scopo che l’accumulazione di capitale, per se. Le Vendeur è un gioco di progressiva sottrazione (Marcel perde prima la famiglia, poi il lavoro, quindi l’illusione del suo ruolo di benefattore) che progressivamente mette a nudo il personaggio, per metterlo a confronto col nulla, col vuoto dell’assenza di senso, col nichilistico bianco della neve canadese.
Ma nemmeno nell’epilogo il vecchio venditore troverà redenzione. Il dramma che si consuma è quello di un labirinto senza via d’uscita, di un uomo troppo vecchio per poter accettare le conseguenze nichiliste degli eventi – egli è troppo vecchio per accettare di dover cambiare, come la nostra società.
Lo sguardo di Pilote è imparziale, asciutto: la camera da presa nn si concede alcun vezzo, idioletto o manierismo – Pilote filma, e noi guardiamo: la telecamera è invisibile, esplora il confine con la presa documentaristica; la colonna sonora è quasi assente. Novanta minuti rivelatori, seguiti da un esasperante finale decisamente troppo lento.

Piero Mainardi

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