Scintille di (Primo) Maggio

Maggio 4, 2012 § 26 commenti

Quello che qui vi presentiamo non è un articolo, ma è una visione parziale di un anomalo Primo Maggio. Abbiamo deciso di fornire piccole scintille e non un racconto organico, ma uno parziale, composito, rappresentante la schizofrenia della giornata e le sue mille sfaccettature.

 


Prima scintilla

Ore 9,20 i celerini aprono il corteo, iniziano le contestazioni, i manifestanti non sono molti e si avvicinano al cordone che circonda Fassino: un po’ di contatto, qualche urlo.
Quasi subito arrivano le manganellate; i ragazzi si sono rifugiati nella pancia del corteo e sotto i portici, così sono partite le cariche. Il momento peggiore è stato quando hanno chiuso un ragazzo dietro una colonna, sotto i portici: saranno stati in dieci i celerini e non si vedeva nulla di quel che facevano. Hanno preso un ragazzo che era a terra, non prima di avergli schiacciato per bene la faccia sul porfido (scene di ordinaria repressione). Urla pesanti in faccia ai manifestanti che sono intervenuti.
Sembrava davvero che la Digos non riuscisse a tener sotto controllo i celerini, e non era il solito gioco del poliziotto buono e di quello cattivo. Non sono stata l’unica ad avere questa sensazione: anche nei filmati si vede bene che i funzionari cercano di fermare le cariche diverse volte, non sempre riuscendoci.

Seconda scintilla
Poco dopo essere arrivato in piazza Vittorio, decido di andare a fare un po’ di foto ai vari spezzoni del corteo che aveva iniziato a muoversi lungo via Po: è lì che incontro un amico che mi dice “ho saputo che stanno caricando i compagni in testa al corteo!”. Risaliamo velocemente lo spezzone quando sentiamo il fragore di una bomba carta in lontananza. Raggiunta la testa mi trovo davanti un fitto schieramento di poliziotti in tenuta antisommossa e poco oltre un drappello di uomini della DIGOS che trascinano via un ragazzo verso una camionetta. Sono presenti un buon numero di manifestanti del cosiddetto “spezzone sociale” che urlano contro i poliziotti. Mi spiegano che poco prima c’era stata una carica. Passano alcuni minuti e un gruppetto di persone si stacca dal resto dei manifestanti e corre sotto i portici, verso Piazza Castello, in quel momento liberi, come per eludere lo schieramento di polizia. Dopo pochi secondi alcuni poliziotti si staccano dallo schieramento e cominciano a inseguirli fin quando bloccano un ragazzo contro le serrande di un negozio. Corro assieme ai giornalisti presenti verso la scena e vedo questo ragazzo che viene manganellato dai poliziotti e portato via di peso. Cerco di fare delle foto, ma si avvicinano un paio di poliziotti sollevandomi per cercare di allontanarmi e mi urlano di andare via. Indietreggio di qualche passo e vedo i ragazzi fermati che vengono caricati su una camionetta che parte a sirene spiegate (alla fine della giornata saranno 4 i fermati, rilasciati poi nel pomeriggio).
Mi rimetto in mezzo alla strada, vedo che la testa “istituzionale” (sindaci, enti locali etc.) del corteo avanza e si mette nella parte iniziale. Il corteo continua in questa modo fino in piazza Castello, dove finalmente lo schieramento di polizia viene sciolto.

Mi lascia di stucco la scelta dello spezzone anarchico di entrare in piazza San Carlo, la piazza delle istituzioni, del comizio. Ci allontaniamo di neanche una decina di metri: c’è la Pink Samba e, subito dopo, nel nostro percorso a ritroso, c’è tutto lo spezzone del PD. Un folto gruppo di uomini panzuti, con tanto di pettorina rossa col marchio del partito, in doppia fila serrata: è il servizio d’ordine.
In realtà non ci vorrebbe molto ad immaginare quello che sta per succedere, basterebbe un po’ di memoria storica, basterebbe ricordarsi che lo scorso anno i cosiddetti “democratici” hanno distrutto a bastonate il parabrezza del furgone degli anarchici, e non paghi hanno spezzato le chiavi nella camionetta costringendoli a sfilare senza.
La piazza si scalda, tutta Via Roma è un coro di fischi e di insulti per il partito che sostiene il governo dei “tecnici”, il partito che ha votato per l’introduzione del pareggio di bilancio in Costituzione, il partito che al tempo del referendum di Mirafiori era dalla parte di Marchionne. All’entrata in piazza gli anarchici fanno cordone , piovono in testa bandiere, c’è contatto diretto. Il gruppo indietreggia e il furgone fa subito una sgasata in avanti. In quel momento, dentro piazza San Carlo non è baruffa: sono botte vere. Sale al cielo una nuvola di gas: sono gli spray urticanti del servizio d’ordine del PD. Alcuni si allontanano dalla “prima linea” e con le aste cerano di farsi spazio nella mischia e dividere i due schieramenti. Si sentono le grida di una ragazza che urla a squarcia gola “siete peggio degli sbirri, avete i guanti e gli spray, vergogna!”. Mi avvicino al furgone del PD: sono tutti un po’ ammaccati, compreso il furgone, mi giro verso gli anarchici e vedo tutti un po’ provati, ma intenzionati a continuare la loro azione. In quei minuti di “riposo” una signora del PD si avvicina ad uno dei 20 uomini servizio d’ordine e gli dice :“ Il PD deve rimanere in piazza, noi di qui non ci dobbiamo muovere”. C’è nervosismo tra le fila del partito, opinioni discordanti e da parte di qualcuno un certo compiacimento. C’è tensione, ma la gente comune si è aggiunta alla contestazione e compaiono macchine fotografiche. L’atteggiamento cambia, gli spray spariscono e forse anche la stanchezza si fa sentire. La pressione continua, le grida si fanno più aspre, il PD se ne va del tutto.

Quarta scintilla

In via Roma sfila lo spezzone della Federazione della Sinistra, è un revival anni 50 dei bei tempi andati in Unione Sovietica. Le casse della camionetta sparano l’Internazionale cantata dal coro dell’Armata Rossa. Il servizio d’ordine è militare, compatto, ranghi serrati e pugno sinistro in alto. Subito dietro, nelle prime file sotto l’enorme striscione tenuto alto da alcune aste di legno, il compagno Paolo Ferrero, sigaro in bocca e saluto ammiccante sempre pronto. Parte Bandiera Rossa, tutti cantano, via Roma immersa da applausi scroscianti, non riesco a trattenermi, sembra un viaggio nel tempo, o un gioco di ruolo: mi arrampico su di un colonnino, alzo il pugno e inizio a cantare anch’io.

Quinta scintilla

Lo spezzone sociale è bello gonfio. Direi duemila persone alla prima occhiata. C’è chi viene da Askatasuna, c’è chi non ha mai visto un centro sociale nella sua vita. Ci sono pure dei bambini in bici che trottano a fianco ai genitori, qualche passeggino. Parecchi hanno pensato che non valesse la pena finire la manifestazione nella piazza delle istituzioni, con le tre corone del sindacalismo italiano, la cui filosofia “prima-firmo-poi-tratto” sta deludendo non poco. I pallidi scioperi che indicono non sembrano scuotere per nulla il SuperGoverno, e chi non ha voluto concludere il breve corteo in quella piazza forse aveva in testa una partecipazione diversa. Resta comunque che, insieme ai cari vecchi Autonomi, di gente ce n’era tanta e veniva da tradizioni diverse. Probabilmente lo spezzone sociale è riuscito davvero a farsi contenitore per le istanze di quanti precari e precarie, studenti e studentesse, lavoratori e lavoratrici, immigrati ed immigrate vivono tutti i giorni un disagio grave nella nostra città. Ci possono essere, anche qui, poi, narrazioni diverse, tuttavia è certo che il numero di quanti svoltano in via Maria Vittoria per tornare, quindi, tramite via Bertola, a piazza Palazzo di Città è notevole. Recarsi sotto il Comune, con l’idea di una piccola azione No Tav in nome dei compagni ancora in carcere, dopo le retate del 26 gennaio, ha un valore simbolico. Anche e soprattutto se il Sindaco non è in casa. Non è un attacco solo al PD e a Fassino, è un attacco alle politiche di questa giunta, dalla forte posizione Sì Tav, cui vanno aggiunti gli stipendi mancanti per gli operatori sociali, la questione degli Asili Nido (che qualche incrinatura nella maggioranza la sta creando). Il corteo è arrivato sotto il municipio, con in testa un solerte cordone della Polizia a rallentarne la marcia. Dal momento dell’ingresso in piazza la faccenda si è evoluta in modo estremamente veloce: la camionetta si è posizionata (ed evidentemente la Polizia ha permesso di farlo) sotto il balcone del Palazzo di Città, rapidamente alcuni militanti dei centri sociali hanno montato un’impalcatura sul tettuccio e hanno poggiato su di essa una scala. Dopo poco qualche pirata senza benda è salito sul balcone, brandendo nient’altro che le foto di Giorgio e Luca, i militanti No Tav ancora in carcere. Nel mentre, è stato acceso un innocuo e scenografico(!) fumogeno.

Passano pochi millesimi di secondo, forse lo striscione si avvicina alla Polizia, cade il fumogeno o ne viene acceso un altro, cade la scala, non si capisce bene l’ordine degli eventi, ma arriva la carica. Violenta, incazzata. Riesce ad “alleggerire”, cioè ad allontanare i pericolosi facinorosi tra gli 0 e i 12 anni e quelli, ben più temibili, tra i 60 e gli 80. Fortuna che non abbiano fatto la Tenaglia, fortuna che i carabinieri (schierati in fondo alla piazza) non abbiano caricato contemporaneamente: la piazza è un imbuto poco raccomandabile e la gente rimane accalcata sui due lati, scacciata dalla rabbia violenta della Polizia. C’è la Digos al gran completo: prendono qualcuno che è caduto (lo rilasceranno immediatamente) e nel mentre lavorano al servizio fotografico, con tanto di filmino ricordo, dalle finestre del Palazzo. I cineasti della polizia, come anche la Digos in piazza e tutti gli altri uomini in blu, si prendono una valanga di insulti, si sente urlare a gran voce “Vergogna!”. Alcuni poliziotti si fanno refertare: dicono per la caduta della scala o forse per qualcosa lanciato dalla piazza (a onor del vero, qualche bottiglietta è volata), ma ai manifestanti è andata decisamente peggio. Si ritenta l’azione, questa volta forse concordata, infatti ha successo e gli opliti non caricano di nuovo, come invece sembrava dovesse accadere. Anzi retrocedono, sempre ringhiando un po’. I capi hanno qualche problema a tenerli in riga, ma riescono meglio del mattino. Si rimonta l’impalcatura e si riposiziona la scala; si torna a recuperare i compagni ancora sul balcone. Appendono uno striscione “Liberi tutti, liberi subito” e issano- una delle immagini più belle della giornata: la bandiera No Tav ad uno dei pennoni del comune. Il corteo, ora decisamente sguarnito, riparte verso Porta Palazzo. La piazza man mano si svuota; i simboli effimeri dei rivoluzionari vengono rapidamente rimossi dalla sede istituzionale. Il coro “fascista, fascista” bersaglia il povero dipendente a cui è toccato questo compito.

Sai che c’è? È ora di pranzo, abbiamo fame noi, hanno fame i Digos, hanno fame gli sbirri: meglio rientrare.

ESC (esperimento di scrittura collettiva)

http://www.flickr.com/photos/leliel98/sets/72157629947524945/

http://www.youreporter.it/video_ASSALTO_AL_MUNICIPIO_DI_TORINO

http://www.youreporter.it/video_Torino_Cariche_al_corteo_1_Maggio

Le vacanze in Spagna costano un occhio

aprile 25, 2012 § Lascia un commento

Quest’anno è la Germania che detta le tendenze per la primavera e l’estate. In Spagna per esempio, nella centralissima ed esclusivissima della Moncloa (la sede del Governo) politici ed amministratori stanno inaugurando una nuova stagione di colori sbiaditi e tagli netti, a cominciare dalla sanitá. Il taglio annunciato è del 10% rispetto al budget degli anni passati; in abbinamento alla mise «vedo non vedo, forse non c’è più» troviamo anche un tocco d’altri tempi: l’obbligo della donna a giustificare l’aborto al medico che le rilascia l’autorizzazione a procedere, non includendo tra le motivazioni accettate quella «socioeconomica».
Quest’ultima misura al momento non è nell’agenda delle prossime azioni del Governo, ma la dottrina pro-life è stata piú volte difesa pubblicamente dalla destra spagnola.
Nell’istruzione le forme suggerite appaiono familiari all’italico gusto: tagli al Fondo di Finanziamento universitario, aumento delle tasse attraverso la celebre formula dell’innalzamento della percentuale di contribuzione studentesca (non vi diamo meno soldi, è che dovete essere più collaborativi!) e della riduzione delle borse di studio; i Consigli di Amministrazione si popoleranno di rappresentanti «del mercato» non eletti da nessuno. Nell’insegnamento inferiore ogni professore vedrà aumentate le ore settimanali (licenziamenti) e faranno lezione a classi un 20% più numerose (più licenziamenti).
Questo e molto altro è previsto dala stragia «EU 2015«, l’attuazione delle direttive europee del piano di Bologna e di Nizza sull’istruzione.
Sul lato del lavoro la riforma continua la precarizzazione, o flessibilizzazione, del lavoro attraverso il libero sfoggio del licenziamento “per motivi economici” senza l’incorrere in sanzioni e con un’indennizzo al lavoratore corrispondente a 33 giorni lavorativi per anno di lavoro effettivo; maggiori possibilità di modifica del salario, delle mansioni e dell’orario
lavorativo, incentivi per chi sospende temporalmente il contratto, nuovo contratto di formazioni per giovani sotto i 30 anni, con salario minimo e durata tra uno e tre anni (periodo di prova di 12 mesi), possibilità di licenziamento collettivo senza passare dalla contrattazione sindacale. Questo e molto altro sulle passerelle iberiche. Sorpresi?
Se l’originalità non sta nell’essenza delle nuove mise proposte, la possiamo trovare nelle forme di attuazione di queste misure.

La risposta da parte di chi soffrirà i tagli è stata imponente: il 29 marzo. Lo sciopero generale in tutta la Spagna è stato attuato anche grazie a decine di picchetti che hanno fermato fabbriche, negozi e mezzi di trasporto pubblici, a blocchi del traffico per permettere alle persone di camminare verso un unico obiettivo per tutta la giornata: il futuro da riprendersi.
Una giornata che da ogni fronte di movimento è apparsa come ben riuscita. I media nazionali hanno riportato solamente le cifre del numero di cassonetti distrutti, dei danni totali ad edifici e cose, del numero degli arrestati e dei feriti.
La risposta statale e autonomica è stata più spaventosa che imponente: in Catalunya, a Barcellona, due elicotteri sorvolavano la città fin dalla notte precedente, e Guardia Urbana e Mossos d’Esquadra occupati in assetto antisommossa, che hanno cercato di mantenere l’ordine con non poche difficoltà: numeriche per le molte manifestazioni in contemporanea della giornata, e logistiche per l’ubiquità dei gruppi più aggressivi nei punti caldi (banche,
uffici dell’impiego, multinazionali, centri commerciali, imprese e auto di lusso).
La risposta si è articolata con arresti, lacrimogeni e proiettili di gomma: la prima misura ha riportato le persone all’epoca franchista, in molti associano le «bombas du humo» alla repressione del dittatore finita nel ’75, ma che ogni giorno di più sembra ricomparire nelle azioni politiche e di piazza.
I proiettili di gomma sono in dotazione alla polizia spagnola e alle polizie autonomiche, che in Catalunya ne fa abbondante uso; sono classificate come armi «non eccessivamente letali», ma dal ’95 ad oggi si stima che abbiano fatto già quasi venti morti, e centinaia di feriti gravi.
Le «balas de goma» hanno privato di un occhio tre italiani in situazioni non pericolose nell’ultimo anno, e lo scorso mese hanno ucciso un ragazzo basco per l’emmoragia cranica che possono provocare.
La violenza che si percepiva sfilando per le strade di Barcellona durante la huelga general è disorientante: le polizie (nazionale e autonomica) arrivano all’improvviso sfrecciando a tutta velocità per disperdere le persone (spesso facendo male a qualcuno), e se le persone non se ne vanno saltano giù dalle camionette ancora in movimento per picchiare alla cieca: manifestanti con le mani alzate, fotografi, giornalisti, turisti ignari, fino a che esauriscono la scarica di adrenalina per poter continuare la loro folle corsa a sirene spiegate, in gruppi di 6- 10 camionette con 8-12 mossos per ognuna. Non importa «di che spezzone tu sia», non devi stare in strada, nemmeno sul marciapiede, la strada è loro.
Alti incarichi del ministro dell’Interno e della Polizia hanno rivendicato la buona attuazione poliziale, che di fronte a «masse tanto aggressive» non poteva discernere i buoni dai cattivi: si dispiacciono per i buoni che hanno pagato, ma avrebbero dovuto semplicemente allontanarsi dalla manifestazione.
Le reazioni a questa giornata sono state duramente repressive da parte dello Stato: è stata infatti proposta una riforma del Codice Penale riguardante le norme processuali per atti di guerriglia urbana e la legge di sicurezza cittadina. Il ministro dell’Interno Díaz – un nome una garanzia – vuole introdurre il reato di attentato all’autorità attraverso resistenza passiva o attiva grande, con una pena tra 1 e 6 anni, il reato di diffusione di convocatorie violente attraverso internet e l’allungamento della detenzione preventiva; inoltre si estenderà la quantificazione dei danni alle interruzioni di servizi pubblici, mentre attualmente si valutano solo i danni a cose.
Si è negato che queste misure servano a restringere la libertà di manifestazione, affermando che si vuole punire solamente chi compia un atto di «autentica prostituzione del diritto di manifestazione». Un aneddoto su questa frase: oltre a non aver sicuramente convinto chi dubitava sulle finalità di queste misure, ha aumentato l’indignazione delle lavoratrici sessuali spagnole, già organizzate da tempo in una piattaforma e che il 26 aprile scenderanno in piazza per rivendicare la dignità della propria attività, sentendosi anche loro sempre più in pericolo trovandosi in uno spazio pubblico, e il pericolo è costituito dalle forze dell”ordine. (Prostitutas indignadas).
I movimenti hanno reagito súbito ai 70 arresti nel giorno della manifestazione, di cui 3 preventivi confermati in vista della riunione della Banca Centrale Europea a Barcelona il 2 e 3 di maggio. Sta nascendo una piattaforma antirepressiva che riunisce, al momento, una quindicina di movimenti politicamente trasversali di quella che si potrebbe chiamare
l’area extraparlamentare, che hanno chiamato una manifestazione ieri a Barcellona contro la repressione crescente; si muoveranno in direzione tecnica (supporto legale agli arrestati e durante le manifestazioni) e politica, perchè la grande domanda che le persone sentono crescere è: che cos’è la violenza? Ed è una domanda che molti italiani si sono ritrovati a farsi dopo gli avvenimenti in Valsusa quest’anno.
Alla fine della manifestazione contro la repressione di domenica 22 aprile sono state fermate 6 persone, di cui 2 ora in arresto per aver fatto delle scritte sui muri, reato che normalmente è punito con una multa. Non solo non si sono giustificati gli arresti, ma si continua con la violenza verbale da parte delle forza dell’ordine, che hanno replicato attraverso il suo Coordinatore generale regionale David Piqué: «si possono nascondere dove vogliono, perchè li troveremo. Sia in una caverna o in una cloaca, dove si nascondono i ratti, o in un’assemblea, che non rappresenta nessuno, o dietro la scrivania di un’università». Parole quanto meno dinamitarde in un momento di crisi ecnomica senza possibilità all’orizzone di risalita. Il primo maggio ci sarà la manifestazione annunciata già dal 30 marzo.
In tutto questo clima di violenza, non è mancato chi ha cercato negli stranieri la causa delle violenze: un articolo della Vanguardia dell’8 aprile a firma di Enric Juliana accusa anarchici italiani affiliati del movimento No Tav di essere «il germoglio anarcoitaliano violento degli scontri nel giorno dello sciopero generale». Un tocco di esoticità che piace di qua e di là.
Intanto continuano gli sgomberi di persone che non possono pagare il mutuo, continua l’emigrazione degli spagnoli, le uscite africane a caccia di elefanti del re e il lancio di «nuove collezioni»: il vintage è tornato davvero di moda, e guardando bene ci si accorge che non sono capi nuovi a cui si è volontariamente deciso di attaccare delle «pins» o di aggiustare con spalline perchè sembrassero antichi: qualcuno ha tirato fuori vestiti da un armadio che si sperava definitivamente chiuso.

Girafa Desquiciada

HVALA, TITO!

aprile 6, 2012 § 1 Commento

Cronache di una vita slava mancata, trascorsa per lo più sulla sponda sbagliata dell’Adriatico. Perché l’ex-Jugoslavia è la prima ex che la mia generazione abbia avuto.

Ricordo ancora bene il mio debutto letterario, se così vogliamo chiamarlo. Erano gli anni in cui, finalmente, anche gli ottusi cronisti del tg1 cominciavano ad interessarsi di quello che accadeva sull’altra sponda dell’Adriatico. Certo, perché la notizia entrasse nelle coscienze e nelle case degli italiani, la guerra civile jugoslava doveva trasformarsi in un conflitto internazionale. Il mio immaginario di bambino venne contagiato da quelle scene, verdi di raid notturni e bombardamenti e da quei caschi blu, con quella bella scritta bianca “U. N.”. Contate che in casa mia non si è mai saltato l’appuntamento con il telegiornale. Non che i miei fossero mai stati grandi appassionati di politica, anzi, però la guerra è la guerra e ci tenevano che, in qualche modo, mio fratello e io capissimo quanto fossimo bambini fortunati, specie rispetto a quei bambini che perdevano piedi, addirittura gambe, facendo esplodere, giocando nei campi, le famigerate mineantiuomo. Che poi avrebbero dovuto chiamarsi antibambino, perché i bambini ne erano per lo più vittime. Ma forse un nome tanto crudele non era adatto ad un prodotto della cui prodizione l’Italia era, e restò a lungo, leader indiscusso.
Nella mia mente di bambino la Jugoslavia era un luogo misterioso e magico, indissolubilmente legato all’impresa che valse a mio zio una foto e un articolo su un giornale di motociclismo amatoriale: “Torino – Sarajevo in due su una vespa”. E ora in quella città lontanissima ma vicina, che se raggiungevi potevi finire anche sui giornali, era scoppiata la guerra.
Quando iniziò l’assedio di Sarajevo il 5 aprile 1992 avevo 6 anni non compiuti e ne avevo 8 e mezzo quando i caschi blu presero in mano le sorti del conflitto. Mi venne abbastanza naturale svolgere il tema assegnatomi dalla maestra. Il tema piacque tanto alla mia maestra, e piacque molto anche a mia madre. Non so chi dei due lo decise, ma venne poi pubblicato sul giornale del mio Paese. Mia nonna molto orgogliosa ne comprò diverse copie.
Ricordo ancora abbastanza bene quei giorni. Finiti i compiti mia madre mi disse che avrei dovuto scrivere il tema sui bambini jugoslavi in bella. No mamma, l’ho già scritto sul quaderno blu. Ma questa bella era destinata a qualcosa di diverso, mi spiegò mia madre, tirando fuori un foglio protocollo. Io non avevo mai scritto su un foglio protocollo, avevo solo conosciuto fogli sparsi e quaderni per i compiti. Quella era una cosa da grandi, da ragazzi che avevano l’età di mio fratello almeno. Non capii cosa sarebbe succeso finché non mi venne spiegato che la maestra Elena l’avrebbe poi portato al “giornale”.
Provai un misto di emozioni. Orgoglio, certo; i bambini sanno essere molto orgogliosi. Però anche stupore. Non capivo perché il mio tema piacesse tanto: in fondo avevo scritto quello che avevano scritto tutti gli altri bambini e che avrebbe scritto chiunque altro. La guerra è brutta, i bambini non devono morire, le mine antiuomo sono una cosa cattiva perché vengono raccolte dai bambini che giocano, cose così. Forse era solo la versione “8 anni” di incomprensioni tra pubblico, critica e autore, però, davvero, avevo scritto “pensierini” più originali, raccontini e altre cose di cui andavo più orgoglioso. Però la soddisfazione di passare al foglio protocollo e alla cartellina trasparente mi comprarono definitivamente. Ah, i compromessi che ogni aspirante scribacchino, anche a 8 anni, deve accettare! Come segno di non piegamento totale alle logiche del mercato giornalistico, imposi l’inchiostro verde invece di quello blu.
Poi, così come erano scoppiate improvvisamente, la guerra e la mia carriera giornalistica finirono. I politici di quegli anni (che sono gli stessi di questi) e quanti contro ogni logica avevano parlato di guerre giuste, bombe che uccidevano solo i cattivi e altre disgraziate invenzioni la cui falsità era evidente a un bambino di 8 anni ma non a loro, smisero di parlare di Sarajevo e si occuparono di altro. Calcio e benzina, per lo più.
Il conflitto ritornò nella mia vita qualche anno dopo. Facevo seconda o terza media e nel mio Paese si trasferì un ragazzo più grande di me di qualche anno, ma finito nella nostra scuola e non alle superiori per il suo scarsissimo italiano. Era serbo.
Ora non so come ve lo immaginavate voi un serbo in seconda media, ma io non ci avevo forse mai pensato abbastanza o più probabilmente ero solo ignorante. Comunque un serbo e un arabo erano due cose diverse. L’arabo è quello scuro di pelle musulmano, il serbo è quello biondo, con la faccia da slavo (cosa alla quale ci stavamo abituando anche in provincia, nella seconda metà degli anni 90). Invece questo ragazzo altissimo, con due spalle robuste e la timidezza di chi non parla e non capisce cosa gli viene detto, in mensa non mangiava il prosciutto e aveva un nome decisamente musulmano. Avevo anche un compagno metà egiziano il cui padre era musulmano, ma cavolo, era egiziano, non serbo. Non mi stupiva come mi stupiva questa famiglia di musulmani dell’est.
L’arrivo di Ahmed a scuola fu davvero un evento: le ragazze lo guardavano come non guardavano di sicuro i miei compagni, ma difficilmente gli rivolgevano la parola e se lo facevano non erano quasi mai parole gentili. Non so perché, ma su Ahmed si abbattè tutto la xenofobia che non si era mai abbattuta tra quelli della nostra età. I ragazzi più grandi si erano già divisi tra fascisti, anarchici, comunisti. Litigavano, facevano a botte qualche volta e spesso discutevano. Ma fino ad allora noi c’eravamo tenuti lontano da “A” cerchiate, falci e martelli e croci celtiche. Non so ancora spiegarmi se fu l’arrivo di Ahmed davvero, o eravamo diventati i ragazzi grandi anche noi, però quell’anno qualcosa cambiò.
Forse perché era più grande, forse perché era bello. L’imperativo che girava tra le ragazze era che chi si faceva una storia con lui, era una troia. I ragazzi, che all’inizio lo invitavano a giocare a calcio con loro, cominciarono prima a non chiamarlo più, poi ad escluderlo e poi ad insultarlo più o meno apertamente. Non ho mai saputo bene il perché di questo cambiamento, ma credo che come da miglior tradizione eteromachista, tutto fosse iniziato per qualche ragazza.
Comunque degenerò abbastanza in fretta e nei diari e sui quaderni cominciarono a comparire svastiche, scritte in tedesco che nessuno sapeva leggere e qualche sparutissimo “w il cominismo e l’anarchia”, che per me e per i miei amici, erano ancora la stessa cosa. La tensione si faceva sempre più calda, e la nostra professoressa di italiano, storia e geografia si sentì in dovere di insegnarci qualcosa sulla questione balcanica.
Non so voi, ma io ho sempre provato molta invidia per i nostalgici del PCI, per i marxisti vecchio stile. Vorrei avere le loro certezze dogmatiche, la loro inaccessibile sicurezza nei giudizi storici. Ore di lezione dove sfilavano macedoni, turchi (sì, con mio sommo stupore apparvero i turchi, forse Ahmed non era davvero serbo, era solamente l’ultimo ottomano), sloveni di Slovenia e sloveni di Slavonia, che era poi la romana Pannonia, croati, serbi, cattolici, ebrei, ortodossi e mussulmani per giungere alla conclusione che a un certo punto della storia venne un uomo che aveva riunito tutti gli Slavi del Sud nella Jugoslavia e che aveva tenuto tutti i bambini litigiosi uniti come fratelli. Era un po’ un nonno buono, questo Tito, e alla sua morte i parenti ingrati avevano cominciato a litigare. Potete pensare che me lo stia inventando ora, ma la professoressa usò davvero la metafora del nonno buono per descrivere Tito. I miei compagni che si dichiaravano fascisti probabilmente non sapevano molto di foibe e violenze consumatesi negli anni a Trieste – Trst, insensatamente compiute a danno di civili italiani e sloveni da entrambi i regimi, e nessuno ebbe da obiettare qualcosa su un generale che in realtà era un nonno gentile.
Volli vederci un po’ più chiaro, andai in biblioteca e chiesi alla bibliotecaria un aiuto. Finii divorato dal succedersi di date e imperi e il mio interesse storiografico per l’impero turco-ottomano durò un sabato. Credo nemmeno tutto il sabato, perché in quegli anni dalle 4 alle 6 di sabato provavo con la mia prima band e la biblioteca chiudeva per pranzo.
Di nuovo la Jugoslavia, come era comparsa, scomparì, si inabissò per svariati anni. Era ormai un nome vecchio, smembrato in tanti nomi diversi e se veniva nominato era sempre preceduto dalla particella “ex”.
Fino all’anno in cui andai in vacanza per la prima volta in Croazia, con gli amici. Macchina, tenda, sacchi a pelo, isole dai nomi impronunciabili. Spiagge e scogli, non sabbia e cemento. Mercati dove paprika vuol dire peperone e peperone non vuol dire niente, dove mediča non significa dottoressa, ma grappa aromattizzata al miele (med). Mi ripromisi di tornare a casa e cominciare a studiare la storia dei balcani, ancora una volta. Volevo, dovevo, capirci di più.
Avevo incontrato durante quelle vacanze in campeggio una giovane coppia, neosposini, bosniaci. Parlavano un inglese con un accento veramente affascinante, che ti costringeva all’ascolto ad ogni “th”, pronunciato tra i denti come una “z” stanca. Avevano il camper e diventammo amici perché gli rubavamo l’elettricità per la lampadina. Era bello pensare che dopo tanto tempo dei bosniaci potessero fare delle vacanze su un’isola croata di Korčula. Si sarebbero fermati lì una settimana e poi avrebbero raggiunto la città vicino a Zagreb di dove era originaria lei. E da dove lei non metteva più piede da quando era bambina.
Con racconti come questi in testa mi buttai nella letteratura e nella storia dei balcani, ma, solo ora che comincio ad essere vecchio anche io, capisco perché il mio tema di bambino di 8 anni avesse entusiasmato tanto maestre e parenti. In fondo tutto quello che dovevo sapere sui conflitti balcanici, e sui conflitti in generale, lo sapevo già a 8 anni.

“Ma la violenza non è una bestia invisibile, ha pure lei dei punti deboli: l’amicizia, la calma, la ragione, ottime medicine per questa brutta malattia.”

Pivo Andrić, 8 anni.
Fotografia: Federica Peyronel

Bibì, anatema sui predoni

gennaio 26, 2012 § Lascia un commento

Questo articolo è parte integrante di un’elaborazione del lutto che sto passando in questi giorni, quindi aspettatevi frasi sconnesse, rese incomprensibili dalla rabbia e dallo sconforto. Immaginatevi che le pagine dell’infimo giornaletto da cesso che state leggendo siano bagnate di lacrime, le mie.
Io piango bibì, la mia non-più-mia bicicletta, che tra le 9.45 e le 10.30 di un lunedì sera è stata rapita da un qualsiasi predone di bici torinese, un troio qualunque che chiamerò Carletto (figlio di cani) per comodità. Carletto (cane) catalizza tutto il mio odio universale, mi fa scoprire livelli di rabbia inconscia che non sapevo di poter tirare fuori. Per certi versi vorrei pure ringraziarlo, per questo.
Per altri versi vorrei che fosse qui a vedere in prima persona il mio sconvolgimento interiore, il mio collasso emozionale, e vedere come tutto questo gli arriva in faccia sotto forma di una gamba di tavolo.

Ok, ok… era solo un cigolante ammasso di ferraglia, la mia bibì. Pur essendo di una rinomata casa produttrice di velocipedi, era stata trovata da me mezza infilata in un cassonetto.
L’unica ragione per cui io, alle 5 del mattino, ho tirato fuori da un cassonetto un merdosissimo relitto di bicicletta che stentava a stare insieme grazie ad una mistura di lercio, sputo e ruggine; bhè, era il mio elevato tasso alcolico.
Per una settimana mi sono chiesto chi fosse il coglione che avesse scaricato in cortile quel mucchietto di schifo ferrugginoso ma, in seguito, dopo sette giorni esatti, sbronzo come poche volte ero riuscito ad essere, ho avuto l’illuminazione: il coglione ero assolutamente ed irrimediabilmente io.
Il giorno dopo, quella che mi era sembrata una fantastica bici (visione dettata dal nome della nota casa produttrice) mi si presentava per quel che era: un relitto storico bombardato. Ma decisi comunque di farla tornare al suo rosso splendore di un tempo.
Col senno di poi fu una cazzata contro ogni logica: ci spesi soldi, tempo e bestemmie come un idiota, mentre al balòn potevo prendermene una in uno stato decente senza penare come un negro settecentesco; ma, dato che mi resi conto di questa cosa solo verso la fine dei lavori, decisi di andare fino in fondo.
E, cazzo, fu un lavoro fenomenale. Bibì filava come una lippa, era solida ma leggera, con un cambio a tre marce calibrato alla perfezione e freni nuovi di pacca che facevo le derapate come quando avevo dieci anni. Una soddisfazione come poche, vi assicuro.
E tu, Carletto (il cane rognoso), hai cancellato dalla mia vita con due colpi di tenaglia (uno per catena) la mia opera.
Carletto tu hai peccato, devi morire e lo sai, ma più di ogni cosa sei fondamentalmente un fesso. Che tu la venda su internet o al balòn, non ne ricaverai più di trenta o quaranta euro. E quella bici ne vale almeno tre volte tanto.
Ma forse il problema è più a fondo. Tu forse non sei un bastardo fallito disonesto che campa di espedienti rubacchiando qui e là. No, forse tu non lo fai per i soldi, ma per l’emozione che queste azioni ti creano; per provare l’ebrezza di rubare e ricavare due soldi in maniera furba.
La tua dedizione non è minimamente paragonabile alla mia.
Carletto, tu devi morire e mi fai schifo dal profondo, e non solo per quello che mi hai fatto, ma per quello che probabilmente sei.
E a me piace pensarti morto sotto al tram numero 16, disarcionato dalla per sempre mia Bibì.

Shimshon il filisteo

Lettere alla Redazione – I

gennaio 12, 2012 § Lascia un commento

Pubblichiamo di seguito una lettera ricevuta dalla Redazione questo novembre, a lungo dimenticata (ahinoi, affatto ingiustamente!) in uno dei polverosi cassetti della nostra sede di via Artisti. A parlare è una studentessa Erasmus, Rosa Boch, studentessa brillante e fervente cristiana, che dalla Bavaria è venuta sino a Torino per studiare teologia e conoscere meglio i misteri della Santa Madre Chiesa

Mi sia permesso iniziare ringraziando la redazione del pio Ode per lo spazio concessomi e di congratularmi con loro per l’ispirata scelta del nome della testata, nome che se da una parte richiama quello screanzato e quasi papacida dell’Alamanni, dall’altra ci riporta all’Ode di Salomone. E che, mi sia permesso ancora di aggiungere, risuona delle nobili lodi al creato di Sant’Agostino Abate.
Sono una studentessa proveniente dalla Bavaria (ho quindi la letizia di condividere i natali con l’amato Santo Padre) e ho richiesto di venire a studiare qui, nella capitale della Savoia, per portar a compimento i miei studi teologici. Il cristiano deve sempre tenere la porta del proprio cuore aperta, ed è anche nozione comune che un’esperienza Erasmus cambi la vita, ma vi assicuro che nelle mie timorate preghiere mai avrei immaginato di imparare tante cose nuove su come vivere la cristianità.
Tutto ebbe inizio con il propizio incontro con giovani volenterosi cristiani come me, i quali, con un fervore e un’ardore degni di chi non ha scordato la lezione dell’Apostolo delle Genti, si dedicano alla pesca di anime tra gli studenti. A tale scopo essi dedicano la maggior parte del loro tempo: girano per le aule studio e nelle facoltà durante le lezioni (dove, ahimè, ancora troppi comunisti e nemici di Santa Romana Chiesa insegnano) distribuendo materiale sempre valido e aggiornato sui santi consigli dei Vescovi e della Santa Sede alla società laica e spesso ottusa e peccatrice italiana. Ho subito notato con quale spirito caritatevole questi volenterosi e beati fanciulli cerchino gli studenti più giovani per poter iniziare la loro opera di evangelizzazione: quelli soli, magari lontani da casa e insicuri. Quale operosità! Quale animo! L’ammirazione vinse la mia timidezza e mi avvicinai a loro, iniziando una proficua relazione fatta di scambi, preghiere e dialoghi.
Sapendo con quale passione e forza questi giovani si dedichino alla politica, subito volli con loro confrontarmi su un tema che dal medioevo flagella l’unità della Cristianità, la divisione tra francescana ortodossia e dolciniana eresia. Ammetto di aver peccato un po’ di presunzione, e di aver cercato la provocazione intellettuale, ponendo in risalto la differenza tra la povertà evangelica e la ricchezza di Madre Chiesa. Immaginai la risposta dotta, e anche un po’ prevedibile in realtà, sulla necessità del potere temporale data al mondo da San Pio IX con l’enciclica “Qui nuper”, invece uno di loro si alzò, mi prese a braccetto e iniziò a parlarmi così:
“Vedi, cara Rose, la ricchezza conduce alla Lussuria, un grave, gravissimo peccato. Ma se a detenerla è una comunità retta e illuminata, che male c’è? Abbandonare i denari terreni per lasciare che (Dio ci aiuti!) i comunisti se ne approprino? No cara Rose, quelle sono ingenuità che funzionano forse ad Assisi, ma non dappertutto.”
“E poi possiamo destinarli ai più bisognosi” suggerii.
“Sì, certo, certo… i bisognosi…” ripeté il mio interlocutore, all’apparenza stupito, ma in realtà già assorbito da nuove e profonde cristiane riflessioni. La nostra passeggiata per i labirintici corridoi di Palazzo Nuovo (architettura la cui origine demoniaca è riconosciuta universalmente, anche dalla Chiesa d’Oriente) proseguì in un pacifico silenzio.
Arrivammo davanti a una struttura dall’edilizia precaria, vagamente rassomigliante a una riproduzione in plexiglas della Sacra Grotta, le cui trasparenze erano tappezzate da scritte gioiose e colorate, che riecheggiavano delle Sacre Scritture e invitavano alla pace in terra, schierandosi contro le guerre e i loro finanziamenti. Non solo: seguendo i dotti pareri dei Padri della Chiesa, invitavano anche a finanziare maggiormente gli studi, da garantire anche ai più poveri, miserevoli e bisognosi. Il mio accompagnatore, intuendo i miei pensieri come solo un buon pastore d’anime saprebbe fare, mi strinse un po’ il braccio e mi rivolse un sorriso radiante e penetrante come l’estasi di Santa Rita:
“Cara Rose, sei una buona cristiana, ma pecchi troppo d’ingenuità. Questi studenti rivoluzionari e le loro facili promesse terrene sulla riduzione delle tasse e sull’Armonia Mundi (e se potessero anche sull’Armonia Coeli, ti assicuro!), sai tu, sai a cosa preludono in realtà?”
Non seppi rispondere. Arrossii e con un timido sguardo lasciai che il mio interlocutore, ancora una volta mi illuminasse:
“Sodomia! Libera fornicazione! Laicizzazione delle istituzioni… toglierebbero il Crocifisso dalle aule dove ipeccatori vengono condannati e dalle scuole dove i cristiani vengono istruiti. Con i soldi destinati alla catechesi finanzierebbero la ricerca sulla fecondazione assistita. Avremmo famiglie cristiane costrette a mandare i figli in scuole pubbliche, frequentate da abomini generati in laboratorio da due papà.” E in effetti con lo il braccio sinistro, libero, mi indicò anche dei manifesti che invitavano alla sessualità libera e consapevole. Mi strinsi maggiormente al braccio del mio cavaliere, spaventata e inorridita. Le spalle ormai si sfioravano in un fraterno abbraccio e un brivido mi percorse la schiena, mentre mi accompagnava lontano dalla disgustosa scena. Proseguimmo e parlammo da buoni credenti di famiglia e matrimonio.
“Esatto, cara Rose, necessaria la verginità fino al matrimonio.” Pur concordando con lui, non riuscii a non cadere ancora una volta nella tentazione di provocarne lo spirito intellettuale.
“Eppure sono tanti, anche dentro alla Chiesa ormai, che si chiedono se non siano proprio queste regole la causa di tanti mali del nostro tempo. Pensate al celibato di chi presta sacerdozio. Chissà se gli ominosi scandali che colpiscono la Santa Chiesa, senza tale obbligo…”
“Ah, ti interrompo, cara Rose. Vedi, ancora una volta pecchi di ingenuità, e affronti troppo direttamente il problema… Il buon cristiano rispetta le regole, il cristiano saggio ne intuisce anche gli scopi e agisce di conseguenza. Le regole che il Buon Signore ha fornito sul sesso, attraverso le Scritture e il parere di nobili e dotti Santi Dottori della Chiesa, sono finalizzati a evitare il peccato. Sono per i peccatori, non per i retti. Ma niente di tutto ciò riguarda la sfera privata e segreta della vita del buon cristiano saggio. Se un buon curato evita il propagarsi del vizio e della ludibria nella propria parrocchia mentre, nel segreto a cui è tenuto dall’abito che indossa, consola qualche vedova, commette di conseguenza peccato?” e senza attendere risposta proseguì “no cara Rose, no. E anche fosse un fanciullo… diciamola tutta: meglio che vada coi preti, piuttosto che venga adescato da chissà quali perversi si trovano nel mondo secolare!” “Beh, ma allora,” continuai a provocare “anche l’obbligo di verginità al matrimonio può essere riconsiderato!”
I suoi occhi si illuminarono di approvazione:
“Oh, cara Rose, brava Questo è, finalmente, parlare da cristiani! Si può rispettare, si deve rispettare… ma con saggezza! Se noi per primi fossimo pubblicamente schiavi del piacere della carne, come potremmo dire alla gente cosa fare privatamente?”
“Per non peccare, ovviamente”
“Ovviamente, cara Rose, ovviamente.”

 Nel mentre, i nostri discorsi si erano fatti troppo elevati per il luogo dove eravamo ci avevano condotti fuori da quelle mura. Il mio cicerone dirigeva i passi sicuri verso casa sua mentre proseguiva:
“E ci sono modi per mantenere illibata la donna e rispettarne l’onore e non dover esser tormentati da immagini diaboliche suggerite da voglie inespresse. Cara Rose, i vostri studi teologici avranno di sicuro portato ad approfondire anche questo campo!”

Con un lieve imbarazzo dovetti ammettere di no .
“Ah, ma non fare quella faccia, si può sempre imparare e studiare. Hai mai sentito parlare delle pratiche in uso a Sodoma, prima del disastro? Non arrossire, cara Rose. Se vuoi distruggere i peccatori devi conoscerli, e quando è saggio imparare da essi.”
Potrei continuare a scrivervi ma, ahimè, sia lo spazio concessomi in queste pagine sia la mia capacità di stare seduta sono terminati. Ne approfitto solo per consigliare a tutti e a tutte l’esperienza dell’Erasmus. Al suo termine mi sono sentita allargata spiritualmente e mentalmente.

Woody Allen – Midnight in Paris (TFF29)

novembre 29, 2011 § 4 commenti

A Woody.

Dove sei finito Woody?

O Woody mio Woody, maestro di parola, ispirazione per molti, fonte di luce divina, sperma dello sperma d’ogni rabbino d’ America.
Oh Woody dalle fluente chioma e dallo sguardo perso e scanzonato;
Woody che ha fatto l’amore, piccolo topino circonciso, con ogni donna d’ogni latitudine; rachitico adone ti prego torna.

(anonima poesia trovata dalla maschera Giuseppina Khoo lavoratrice Rear del Reposi e gentilmente donatami alla fine della proiezione.)

Partirò da questo urlo d’amore disperato, capitato nelle mie mani più per caso che per desio, affronto l’ultimo lavoro del nostro. Certamente l’ Allen di questo lungometraggio, converranno appassionati, critici e acritici, non è l’Allen d’oro, genio vulcanico e inaspettato, ma è ormai un Allen-altro, meno straordinario e più ordinario. Con questo voglio marcare nettamente la distinzione fra pre e post, in modo da dividere e scindere i personaggi in entità differenti per poter affrontare il film con spirito non appesantito dai ricordi terribili del tempo che ormai non è più.
Quindi miei prodi sono lieto di presentarvi un giovane autore che ho avuto l’ onore d’intervistare in merito al suo Ultimo film presentato in concorso al Torino film festival, il giovane Allen-altro.

– Buongiorno Signor Allen-altro e grazie d’esser venuto appositamente a farsi intervistare dal paese di Città Laggù.
– Buona sera vorrà dire;è un piacere essere intervistato da un importante giornale come il vostro, devo anche rivelarvi che da dopo l’ operazione è la prima intervista che rilascio.
– Operazione?
– Si finalmente quest’anno ho preso la decisone definitiva e ho capito che per lavorare al mio film..
– Midnight in Paris?
– Si si proprio Midnigt in Paris, dovevo farlo, eliminare quella parte di me, ormai era solamente ingombrante e inutile; ovunque andassi la gente continuava a dire “Buongiorno Signor Allen quand’è che farà un film come Zelig?” oppure “o Woody, finalmente questo nuovo film magnifico!”, capisce anche lei che non potevo più andar avanti così, ero distrutto, diviso, parcellizzato, con un ospite ingombrante dentro di me, io.
– E allora, ci dica che ha fatto?
– Ho fatto quello che ogni persona malata avrebbe fatto, sono andato in clinica e ho profumatamente chiesto che mi venisse asportato.
– Asportato cosa?
– Aspetti aspetti che arrivo;i dottori erano scettici ma entrambi noi eravamo d’ accordo non potevamo più coesistere pacificamente, quello che è stato e potrebbe essere, il vecchio Woody, e questo nuovo, non erano fatti per coabitare lo stesso corpo e nome. Certo avevamo paura ma già altri lo avevano fatto prima di noi.
– Altri chi?
– Mi spiace ma questo non posso dirlo, la scissione è qualcosa di molto intimo e alcuni se ne vergognano oppure se ne pentono, ma tornare indietro è impossibile.
– Allora la prego, riprendiamo da dove eravamo rimasti, stava parlando dell’operazione.
– Si l’operazione lunga e dolorosa i nostri corpi vennero divisi in due metà speculari, una Woddy fiera nel suo antico retaggio ma bloccata e paurosa e io, L’ Allen altro prolifico e fine paroliere ma senza la ricerca stressante e spossante che prima mi contrastingueva.
– Ci parli di cosa è cambiato in lei
– Ora ad esempio nella creazione di questo film, mi sono principalmente basato sui gusti del mio pubblico abituale e non su me stesso, ad esempio ho rielaborato l’ idea originaria avuta da Woddy ma tarandola sul pubblico medio dei giorni nostri, è mestiere non arte, l’ esperienza mi fa dire ” Questo li farà ridere”, ” questo no”. So benissimo, e lo sanno anche loro, lo sapete anche voi, che il pubblico vuole una cosa sola ridere ma il mio pubblico ne vuole una in più far finta di pensare, avere la percezione d’ intelligenza.
– Ma lei è felice? il suo altro che ne pensa?
– Felicità, cosa è la felicità, con un film all’anno e milioni di dollari cosa vuole che sia la felicità? Ora sono più felice, ho finalmente rivelato al mondo l’ altro me stesso, non devo più nascondermi, la gente che si aspettava altro da me, di più, di ragionare, ridere consapevolmente, non lo farà e io sarò finalmente libero da quel terribile complesso d’inferiorità che provavo verso me stesso.
– Collaborerà ancora in futuro con Woody?
– Devo dire che anche in questo film, per alcune battute s’ intende mi sono avvalso del suo prezioso aiuto. Io non avrei mai pensato a dei rinoceronti.
-La ringraziamo e siamo felici che sia venuto e la salutiamo augurandole salute e prosperità per i suoi futuri film.
– Grazie a voi e buona visione.

Le parole di Allen-altro ci lasciano soli e pensosi, molte sono le domande che ci poniamo, sarà vero? sarà l’ennesimo scherzo?cosa farà in futuro? e Woody altro? Per ora non ci sono risposte ma solo mille porte che si aprono e mille specchi che si riflettono incessanti. Una cosa si può ancora dire di questo film è un muffin sgonfiato tolto troppo precocemente dal frigo. Un’atto d’amore verso una città e il suo spirito, ma a parer nostro più che amore sa di onanismo, dell’ottimo onanismo.

Raz – Rub II

Requiem for Bertrando

novembre 11, 2011 § 1 Commento

Galles, e la nebbia. Una donna viaggia sul far della sera, quando in mezzo alla bruma settembrina la macchina comincia a rallentare, si ferma (la benzina, la benzina è finita). La donna scende dalla macchina e raggiunge a piedi, pazientemente, il primo villaggio.
Il nome incomprensibile è poco rassicurante: Penrhyndeudraeth. (che cazzo di nome è?)
La donna decide di fermarsi ad assaporare un bicchiere di whiskey nella prima osteria: un luogo deserto, semibuio, pervaso da quell’odore umidiccio che ha del fungino e del ligneo.
Al bancone un solo uomo: una figura canuta, dal naso lungo e camuso. E’ chino sul bancone, la pipa alla bocca, lo sguardo irraggiungibile, perso nel fumo profumato del tabacco.
“Salve”
(Silenzio)
“C’è un bagno qui?”
“Sì”
(Silenzio)
“Sa mica dirmi dov’è il bagno?”
“Le ho già risposto. Qui”
“Ma come qui?”
“Qui. In questo edificio”
“Sì ma dove”
(Indica una porta)
“Che razza di maleducato del cazzo”, borbotta la donna sottovoce mentre si allontana in direzione del bagno
(La donna torna dal bagno)
“Senta, sa mica che giorno è? Devo rimettere l’orologio”
“E’ oggi, signora, è oggi, che giorno crede che sia”
“Si vabbè”
(Silenzio)
“Guardi, non intendevo disturbarla o farla innervosire, ma ho finito la benzina a sono rimasta bloccata in questo paese. Lei sembra del luogo, sa mica indicarmi più o meno dove siamo?”
“Qui”
“Ma allora è proprio stronzo”
(Silenzio)
“E cos’è che ha in mano?”
“Questa”
(Silenzio)
(Lei guarda fuori)
“Secondo lei sta per cominciare a piovere?”
“O pioverà, o non pioverà”
“Eloquente e inconfutabile, eh”
Lui ridacchia. Lancia uno sbuffo di pipa e decreta serafico:
“Magari”
“A suo modo, lei ha sempre ragione”
“Si”
“Allora mi dica un po’ questa cosa. Dio esiste?”
“Se io ho sei braccia, Dio esiste”
“Scusi?”
“Se io ho otto gambe, Dio esiste”
(la donna riflette)
(riflette ancora)
“La sua risposta è evasiva”
“La sua domanda era priva di significato”
“Lei ha sempre la risposta pronta”
“Sempre mi sembra una quantificazione eccessiva”
“Ha da accendere?”
“Sì”
(non le porge da accendere)
“Mi dà da accendere?”
(la fa accendere)
“Senta, visto che lei è di compagnia, me ne vado. Comunque sono Rossella”
“Piacere, Bertrando”
“Piacere, Rossella”
“Beh, io vado a cercare un po’ di benzina”
“Addio, Rossella”
“Addio, Bertrando”
(Lei esce dalla porta. Bertrando appoggia la pipa sul bancone. Contorce un po’ la bocca in un sorriso abortito. Poi muore.)

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