Una giornata di ordinario confronto

Maggio 11, 2012 § 4 commenti

“L’accredito stampato insieme a me,

il manganello scagliato sopra di me”

 (Cit.)

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Giovedì 10 maggio, Lingotto.

Un preteso movimento di giovani né di destra né di sinistra. Ritornello tipico di questi tempi che non viene difficile immaginare dove voglia andare a parare. Organizza un incontro con due ministri della Repubblica (c’è da capire cosa abbiano di eccezionale questi giovani per essere riusciti a portare ben due ministri a una loro iniziativa): il Ministro dell’Istruzione Profumo e la Ministra del Lavoro e delle Politiche sociali Fornero, anche se quest’ultima alla fine diserterà l’incontro.

Il preteso movimento nei giorni precedenti all’incontro fa sapere che per accedere all’iniziativa è necessario avere un accredito, facilmente ottenibile dal loro stesso sito. Studenti medi, universitari, precari, lavoratori e cittadini eseguono la procedura ottenendo l’accredito. Alcuni di loro, appartenenti a Studenti Indipendenti e Last – Laboratorio Studentesco, ricevono la disdetta dell’accredito in quanto “violenti” e vengono informati del fatto che i loro nomi sono “in mano alla Questura di Torino”.

Alla richiesta di informazione, la segreteria di MPN risponde:

Il suo accredito è sospeso per motivi di sicurezza. Non sarà quindi consentito il suo ingresso in sala al convegno di domani. Chiediamo urgente invio di copia di documento di identità per valutare, con la Polizia di Stato, la sua eventuale riammissione in aula.

La Segreteria”

Ad attenderli all’ingresso dell’incontro più di dieci camionette delle forze dell’ordine e una cinquantina di poliziotti e carabinieri in tenuta antisommossa con l’immancabile supervisione della Digos.

Gli studenti, documenti alla mano, tentano di far valere il loro accredito stampato ricevendo come risposta: non siete in lista. Perché gli accrediti non erano validi? Su quale base alcuni sono meno cittadini degli altri? “Se fossi stato una persona normale ti avremmo fatto entrare” viene detto ai ragazzi chiedevano di prendere parte all’incontro.

Si tenta ancora di accedere passando dall’ingresso principale, ma si scopre che tutti gli accrediti sono stati cancellati. Un giornalista, più degli altri, Andrea Velardi, porta avanti la causa dei presidianti. Il capo della Digos, dott. Ferrara, mette le mani addosso al giornalista che tenta di proteggere gli studenti. Inizia il tiramolla: le persone “normali” vengono fatte passare dalle entrate laterali, le persone a cui l’accesso è interdetto tentano di entrare, scavalcando la barricata. La polizia con gli scudi allontana il presidio. Non si riesce a superare la barricata. Si tenta allora di passare da un’entrata sul retro dell’edificio raggiunta in corteo. Prima tentano di spintonare fuori studenti, tra cui molti liceali, con “cariche di alleggerimento”, poi la polizia chiude i ragazzi, con un’assurda manovra a tenaglia, rischiando di spingerne alcuni giù dalle scale del parcheggio. I poliziotti si piazzano anche nella passerella sopraelevata, non si sa perché, caricano per un centinaio di metri, con la Digos che non riesce a contenere i celerini in preda a una rabbia sconsiderata. Il presidio viene spinto fuori; gli opliti serrano i ranghi. Nicola Malanga, Presidente del Senato Studenti, viene ferito da una manganellata sulla testa; portato fuori, quasi sviene. Un’altra ragazza, Florentina, cade a terra, durante la corsa per sfuggire alla carica. Uno dei poliziotti inciampa su un cestino (sarà refertato come ferito dai pericolosi sovversivi?). Nel giro di dieci minuti un’ambulanza soccorre lo studente ferito e il presidio si scioglie

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I fatti di oggi pomeriggio sono la prova che il tanto sbandierato dialogo, vanto del governo “tecnico”, non è che una formula vuota per legittimare provvedimenti che si vorrebbero oggettivamente necessari, ma che hanno un chiaro indirizzo ideologico alle spalle. L’ideologia, che questa crisi ha provocato e con la quali si pretende di risolverla, è quella del mercato, delle liberalizzazioni, delle privatizzazioni.

Un governo che non è sostenuto da alcuna maggioranza elettoralmente legittimata, né dal consenso popolare, non può che portare avanti la propria linea con la forza. Una forza che è schierata ad impedire il reale confronto tra opinioni differenti, perpetrando la retorica del “buon governo” che dialoga con i giovani e con le parti sociali. Un aiuto arriva dalle tante testate giornalistiche servili che, ignorando i concetti di cittadinanza e libera espressione, lasciano intendere, con frasi sibilline, che a contestare sono solo i professionisti della protesta, gente che non ha di meglio da fare che perdere le proprie giornate a rincorrere ministri.

Ci stupisce che avere vent’anni per alcuni significhi accettare acriticamente le manovre di un governo o farsi strumentalizzare per fini propagandistici.

Ci stupisce che avere vent’anni per alcuni significhi accogliere il mantra del “sacrificio necessario” e non essere più in grado di immaginare un futuro diverso e migliore, credendo che questo sia il migliore dei mondi possibili.

Ci stupisce che avere vent’anni per alcuni significhi aver introiettato il modello elitario, gerarchico, clerico-fascista, un’ottica puramente individualistica (citiamo l’articolo di Repubblica: “Il messaggio del ministro ai ragazzi è: sfruttate tutte le opportunità che ci sono”), l’indifferenza verso la giustizia sociale.

La nostra è un’altra idea di democrazia che non si fonda sull’esclusione di chi ha opinioni differenti, che non mette alla porta nessuno, che crede nella dialettica, pur aspra e dura, e non in un dialogo finto e posticcio.

Gli organizzatori sostengono che la politica, quella vera, si faccia solo nei luoghi istituzionali e non nelle piazze. Noi crediamo che la politica debba essere prerogativa di tutti i cittadini, perché una politica autistica, chiusa in sé stessa e distante dai reali bisogni della società non può portare nulla.

ESCC (esperimento scrittura collettiva consolidata)

Aggiungiamo alcuni link a foto e video della giornata:

http://www.youtube.com/watch?v=q4karfKRMTs

http://www.youtube.com/watch?v=c1eaIxAYZV0&feature=watch_response

http://www.flickr.com/photos/mirko_isaia/sets/72157629669676462/with/7172631632/

https://www.facebook.com/media/set/?set=a.383409388369415.86053.100001010709645&type=3

http://www.infoaut.org/index.php/blog/saperi/item/4697-profumo-avere-20-anni-non-vuol-dire-pagare-la-vostra-crisi


			

Cette élection est une farce (parte prima)

Maggio 3, 2012 § 5 commenti

Francia, Caen.

Dalla Francia soffia un forte vento. Ma l’odore che si porta appresso non è certo dei migliori: puzza di merda e di vecchio. Il vento che puzza di merda ha una velocità di 18 nodi, ma in costante crescita, quelli che puzzano di vecchio si attestano poco sotto i 30 nodi.
Mi dispiace irrompere così nelle vostre speranze di cambiamento, ma è il caso che interrompiate il vostro monologo interiore: ”Hollande rappresenta un cambiamento per un’Europa socialista e libera dal giogo Merkel-Sarkozy…”.
No. Non è così. Hollande non rappresenta il cambiamento più di quanto in Italia l’abbia rappresentato la vittoria di Prodi nel 2006 o lo rappresenterebbe un’ eventuale vittoria di Bersani alle prossime elezioni.
Tanto per cominciare la vittoria di Hollande non è per nulla definitiva, il secondo turno potrebbe ancora riservare delle sorprese e il punto e mezzo che divide i due finalisti è ben poca roba. In secondo luogo c’è da dire che nonostante Hollande si sia aggiudicato il primo turno, ancora una volta il popolo francese ha votato a destra e, se si sommano grossolanamente i voti di destra e di sinistra, vediamo che la prima (47%) ha la meglio sulla seconda (44%).
Ma il dato più inquietante che emerge da questo primo turno è senza dubbio il trionfo del “Front National” della Le Pen, non tanto per l’ottimo risultato ottenuto (record assoluto del partito, meglio anche del 2002 quando Le Pen padre riuscì ad approdare al secondo turno con il 16%), ma piuttosto per il peso che ha avuto nel determinare i toni e gli argomenti della prima fase di questa campagna elettorale e per l’atteggiamento accondiscendente dei media verso l’elettorato fascista considerato come “La France qui souffre” .
E il gioco non è ancora finito, perché se la crescente popolarità del FN ha spinto Hollande a sbraitare per il voto utile (aiutandolo non poco a imporsi) e Sarkò a spostare i toni della campagna elettorale sempre più a destra su temi quali la sicurezza e l’immigrazione, l’ influenza dell’estrema destra sulla politica francese non è che cominciata.
La Le Pen infatti è l’unica che ha la certezza di poter sorridere la sera del 6 maggio: nel caso in cui a spuntarla sia Sarkò i fasci terranno per le palle il suo governo, nel caso in cui sia Hollande a spuntarla, la bionda urlatrice avrà l’occasione di riorganizzare la destra francese sfruttando la crisi che si verificherà all’interno dell’UMP e contando su un incremento significativo delle preferenze nelle elezioni legislative previste per metà giugno.
Chiudiamo la parentesi sul fronte fascista citando un dato statistico, denunciato sul web nelle ore immediatamente successive alla chiusura del voto, riguardante l’impressionante incremento delle preferenze per la Le Pen nei comuni con meno di mille abitanti in zone della Francia da sempre considerate “rosse”.
Torniamo ora ad occuparci del presunto vincitore di questo primo turno, che ha incentrato la sua campagna elettorale su temi populisti (l’abolizione della legge sulle pensioni di Sarkò e più in generale un alleviamento delle politiche di austeritiy) condite con una dose preoccupante di ambiguità e incertezza su temi fondamentali come l’Europa e il nucleare. Che il programma di Hollande sulla carta rappresenti la possibilità di affievolire le politiche di austerity che pesano su tutta l’Europa è fuor di dubbio, che ciò accada realmente è tutta un’altra storia.
Il candidato socialista dà infatti l’impressione del classico politico pronto a fare la voce grossa mentre è in procinto di sbottonarsi i pantaloni e mettersi chinato.
In ogni caso, per ora, Hollande ha fatto più danni che altro, tramite la strategia del voto utile ha infatti frenato nettamente la volata di Jean-Luc Mélenchon contro la Le Pen che lo ha staccato di ben 7 punti.
La sconfitta di Melenchon è però, per fortuna, solo parziale: al contrario di quella del centrista Bayrou, egli è riuscito infatti a creare in poco tempo una forza politica nuova, l’unica tra i 10 candidati, riunendo nel suo “Front de Gauche” il variegato universo della sinistra francese. Tramite un programma dalla forza rivoluzionaria (a cui Vendola farebbe bene a dare un’ occhiata invece di esultare ingiustificatamente per la vittoria di Hollande), invocando la creazione della sesta repubblica francese (attualmente ci troviamo nella quinta in vigore dal 1958 e caratterizzata dalla “monarchia presidenziale”) e il referendum per abolire il trattato di Lisbona, è riuscito a riunire i vari movimenti sociali creatisi negli ultimi anni sotto il sarkozysmo.
Mélenchon, che aspirava a raggiungere almeno il 15% delle preferenze e ad attestarsi come terza forza politica del paese davanti alla Le Pen, si è dovuto accontentare dell’11% e della vittoria dei socialisti sperando così di potersi ritagliare un posto di tutto rispetto nell’eventuale governo Hollande.
Chi invece è uscito con le gambe rotte da questo primo turno è il centrista Bayrou, che ha visto il suo MoDem perdere circa la metà dei voti rispetto alle presidenziali del 2007 (il 19% allora, il 9% oggi), nonostante goda di un ottima reputazione presso la maggioranza dei francesi, grazie a un programma realistico e al riparo da qualsivoglia ideologia (la sua proposta era quella di formare un governo di unità nazionale con elementi di destra e di sinistra per traghettare la Francia fuori dalla crisi), non è riuscito a sfondare il muro del 10% perdendo così l’occasione di far spostare Sarkò verso posizioni centriste.
Questa è, a grandi linee, la situazione politica francese, e spero di essere riuscito a convincervi che per un vero cambiamento è necessario guardare altrove – perché la situazione francese di oggi non si allontana di molto da situazioni simili vissute in Italia (per esempio la parzialissima vittoria di Prodi nel 2006 che ha poi portato alla catastrofe del 2008).
Non ci resta quindi che aspettare il risultato definitivo e sperare, parafrasando il titolo dell’ultimo numero del mensile satirico “Sinemensuel”, che queste siano le ultime elezioni prima della rivoluzione.

Nicola Porno

Le vacanze in Spagna costano un occhio

aprile 25, 2012 § Lascia un commento

Quest’anno è la Germania che detta le tendenze per la primavera e l’estate. In Spagna per esempio, nella centralissima ed esclusivissima della Moncloa (la sede del Governo) politici ed amministratori stanno inaugurando una nuova stagione di colori sbiaditi e tagli netti, a cominciare dalla sanitá. Il taglio annunciato è del 10% rispetto al budget degli anni passati; in abbinamento alla mise «vedo non vedo, forse non c’è più» troviamo anche un tocco d’altri tempi: l’obbligo della donna a giustificare l’aborto al medico che le rilascia l’autorizzazione a procedere, non includendo tra le motivazioni accettate quella «socioeconomica».
Quest’ultima misura al momento non è nell’agenda delle prossime azioni del Governo, ma la dottrina pro-life è stata piú volte difesa pubblicamente dalla destra spagnola.
Nell’istruzione le forme suggerite appaiono familiari all’italico gusto: tagli al Fondo di Finanziamento universitario, aumento delle tasse attraverso la celebre formula dell’innalzamento della percentuale di contribuzione studentesca (non vi diamo meno soldi, è che dovete essere più collaborativi!) e della riduzione delle borse di studio; i Consigli di Amministrazione si popoleranno di rappresentanti «del mercato» non eletti da nessuno. Nell’insegnamento inferiore ogni professore vedrà aumentate le ore settimanali (licenziamenti) e faranno lezione a classi un 20% più numerose (più licenziamenti).
Questo e molto altro è previsto dala stragia «EU 2015«, l’attuazione delle direttive europee del piano di Bologna e di Nizza sull’istruzione.
Sul lato del lavoro la riforma continua la precarizzazione, o flessibilizzazione, del lavoro attraverso il libero sfoggio del licenziamento “per motivi economici” senza l’incorrere in sanzioni e con un’indennizzo al lavoratore corrispondente a 33 giorni lavorativi per anno di lavoro effettivo; maggiori possibilità di modifica del salario, delle mansioni e dell’orario
lavorativo, incentivi per chi sospende temporalmente il contratto, nuovo contratto di formazioni per giovani sotto i 30 anni, con salario minimo e durata tra uno e tre anni (periodo di prova di 12 mesi), possibilità di licenziamento collettivo senza passare dalla contrattazione sindacale. Questo e molto altro sulle passerelle iberiche. Sorpresi?
Se l’originalità non sta nell’essenza delle nuove mise proposte, la possiamo trovare nelle forme di attuazione di queste misure.

La risposta da parte di chi soffrirà i tagli è stata imponente: il 29 marzo. Lo sciopero generale in tutta la Spagna è stato attuato anche grazie a decine di picchetti che hanno fermato fabbriche, negozi e mezzi di trasporto pubblici, a blocchi del traffico per permettere alle persone di camminare verso un unico obiettivo per tutta la giornata: il futuro da riprendersi.
Una giornata che da ogni fronte di movimento è apparsa come ben riuscita. I media nazionali hanno riportato solamente le cifre del numero di cassonetti distrutti, dei danni totali ad edifici e cose, del numero degli arrestati e dei feriti.
La risposta statale e autonomica è stata più spaventosa che imponente: in Catalunya, a Barcellona, due elicotteri sorvolavano la città fin dalla notte precedente, e Guardia Urbana e Mossos d’Esquadra occupati in assetto antisommossa, che hanno cercato di mantenere l’ordine con non poche difficoltà: numeriche per le molte manifestazioni in contemporanea della giornata, e logistiche per l’ubiquità dei gruppi più aggressivi nei punti caldi (banche,
uffici dell’impiego, multinazionali, centri commerciali, imprese e auto di lusso).
La risposta si è articolata con arresti, lacrimogeni e proiettili di gomma: la prima misura ha riportato le persone all’epoca franchista, in molti associano le «bombas du humo» alla repressione del dittatore finita nel ’75, ma che ogni giorno di più sembra ricomparire nelle azioni politiche e di piazza.
I proiettili di gomma sono in dotazione alla polizia spagnola e alle polizie autonomiche, che in Catalunya ne fa abbondante uso; sono classificate come armi «non eccessivamente letali», ma dal ’95 ad oggi si stima che abbiano fatto già quasi venti morti, e centinaia di feriti gravi.
Le «balas de goma» hanno privato di un occhio tre italiani in situazioni non pericolose nell’ultimo anno, e lo scorso mese hanno ucciso un ragazzo basco per l’emmoragia cranica che possono provocare.
La violenza che si percepiva sfilando per le strade di Barcellona durante la huelga general è disorientante: le polizie (nazionale e autonomica) arrivano all’improvviso sfrecciando a tutta velocità per disperdere le persone (spesso facendo male a qualcuno), e se le persone non se ne vanno saltano giù dalle camionette ancora in movimento per picchiare alla cieca: manifestanti con le mani alzate, fotografi, giornalisti, turisti ignari, fino a che esauriscono la scarica di adrenalina per poter continuare la loro folle corsa a sirene spiegate, in gruppi di 6- 10 camionette con 8-12 mossos per ognuna. Non importa «di che spezzone tu sia», non devi stare in strada, nemmeno sul marciapiede, la strada è loro.
Alti incarichi del ministro dell’Interno e della Polizia hanno rivendicato la buona attuazione poliziale, che di fronte a «masse tanto aggressive» non poteva discernere i buoni dai cattivi: si dispiacciono per i buoni che hanno pagato, ma avrebbero dovuto semplicemente allontanarsi dalla manifestazione.
Le reazioni a questa giornata sono state duramente repressive da parte dello Stato: è stata infatti proposta una riforma del Codice Penale riguardante le norme processuali per atti di guerriglia urbana e la legge di sicurezza cittadina. Il ministro dell’Interno Díaz – un nome una garanzia – vuole introdurre il reato di attentato all’autorità attraverso resistenza passiva o attiva grande, con una pena tra 1 e 6 anni, il reato di diffusione di convocatorie violente attraverso internet e l’allungamento della detenzione preventiva; inoltre si estenderà la quantificazione dei danni alle interruzioni di servizi pubblici, mentre attualmente si valutano solo i danni a cose.
Si è negato che queste misure servano a restringere la libertà di manifestazione, affermando che si vuole punire solamente chi compia un atto di «autentica prostituzione del diritto di manifestazione». Un aneddoto su questa frase: oltre a non aver sicuramente convinto chi dubitava sulle finalità di queste misure, ha aumentato l’indignazione delle lavoratrici sessuali spagnole, già organizzate da tempo in una piattaforma e che il 26 aprile scenderanno in piazza per rivendicare la dignità della propria attività, sentendosi anche loro sempre più in pericolo trovandosi in uno spazio pubblico, e il pericolo è costituito dalle forze dell”ordine. (Prostitutas indignadas).
I movimenti hanno reagito súbito ai 70 arresti nel giorno della manifestazione, di cui 3 preventivi confermati in vista della riunione della Banca Centrale Europea a Barcelona il 2 e 3 di maggio. Sta nascendo una piattaforma antirepressiva che riunisce, al momento, una quindicina di movimenti politicamente trasversali di quella che si potrebbe chiamare
l’area extraparlamentare, che hanno chiamato una manifestazione ieri a Barcellona contro la repressione crescente; si muoveranno in direzione tecnica (supporto legale agli arrestati e durante le manifestazioni) e politica, perchè la grande domanda che le persone sentono crescere è: che cos’è la violenza? Ed è una domanda che molti italiani si sono ritrovati a farsi dopo gli avvenimenti in Valsusa quest’anno.
Alla fine della manifestazione contro la repressione di domenica 22 aprile sono state fermate 6 persone, di cui 2 ora in arresto per aver fatto delle scritte sui muri, reato che normalmente è punito con una multa. Non solo non si sono giustificati gli arresti, ma si continua con la violenza verbale da parte delle forza dell’ordine, che hanno replicato attraverso il suo Coordinatore generale regionale David Piqué: «si possono nascondere dove vogliono, perchè li troveremo. Sia in una caverna o in una cloaca, dove si nascondono i ratti, o in un’assemblea, che non rappresenta nessuno, o dietro la scrivania di un’università». Parole quanto meno dinamitarde in un momento di crisi ecnomica senza possibilità all’orizzone di risalita. Il primo maggio ci sarà la manifestazione annunciata già dal 30 marzo.
In tutto questo clima di violenza, non è mancato chi ha cercato negli stranieri la causa delle violenze: un articolo della Vanguardia dell’8 aprile a firma di Enric Juliana accusa anarchici italiani affiliati del movimento No Tav di essere «il germoglio anarcoitaliano violento degli scontri nel giorno dello sciopero generale». Un tocco di esoticità che piace di qua e di là.
Intanto continuano gli sgomberi di persone che non possono pagare il mutuo, continua l’emigrazione degli spagnoli, le uscite africane a caccia di elefanti del re e il lancio di «nuove collezioni»: il vintage è tornato davvero di moda, e guardando bene ci si accorge che non sono capi nuovi a cui si è volontariamente deciso di attaccare delle «pins» o di aggiustare con spalline perchè sembrassero antichi: qualcuno ha tirato fuori vestiti da un armadio che si sperava definitivamente chiuso.

Girafa Desquiciada

HVALA, TITO!

aprile 6, 2012 § 1 Commento

Cronache di una vita slava mancata, trascorsa per lo più sulla sponda sbagliata dell’Adriatico. Perché l’ex-Jugoslavia è la prima ex che la mia generazione abbia avuto.

Ricordo ancora bene il mio debutto letterario, se così vogliamo chiamarlo. Erano gli anni in cui, finalmente, anche gli ottusi cronisti del tg1 cominciavano ad interessarsi di quello che accadeva sull’altra sponda dell’Adriatico. Certo, perché la notizia entrasse nelle coscienze e nelle case degli italiani, la guerra civile jugoslava doveva trasformarsi in un conflitto internazionale. Il mio immaginario di bambino venne contagiato da quelle scene, verdi di raid notturni e bombardamenti e da quei caschi blu, con quella bella scritta bianca “U. N.”. Contate che in casa mia non si è mai saltato l’appuntamento con il telegiornale. Non che i miei fossero mai stati grandi appassionati di politica, anzi, però la guerra è la guerra e ci tenevano che, in qualche modo, mio fratello e io capissimo quanto fossimo bambini fortunati, specie rispetto a quei bambini che perdevano piedi, addirittura gambe, facendo esplodere, giocando nei campi, le famigerate mineantiuomo. Che poi avrebbero dovuto chiamarsi antibambino, perché i bambini ne erano per lo più vittime. Ma forse un nome tanto crudele non era adatto ad un prodotto della cui prodizione l’Italia era, e restò a lungo, leader indiscusso.
Nella mia mente di bambino la Jugoslavia era un luogo misterioso e magico, indissolubilmente legato all’impresa che valse a mio zio una foto e un articolo su un giornale di motociclismo amatoriale: “Torino – Sarajevo in due su una vespa”. E ora in quella città lontanissima ma vicina, che se raggiungevi potevi finire anche sui giornali, era scoppiata la guerra.
Quando iniziò l’assedio di Sarajevo il 5 aprile 1992 avevo 6 anni non compiuti e ne avevo 8 e mezzo quando i caschi blu presero in mano le sorti del conflitto. Mi venne abbastanza naturale svolgere il tema assegnatomi dalla maestra. Il tema piacque tanto alla mia maestra, e piacque molto anche a mia madre. Non so chi dei due lo decise, ma venne poi pubblicato sul giornale del mio Paese. Mia nonna molto orgogliosa ne comprò diverse copie.
Ricordo ancora abbastanza bene quei giorni. Finiti i compiti mia madre mi disse che avrei dovuto scrivere il tema sui bambini jugoslavi in bella. No mamma, l’ho già scritto sul quaderno blu. Ma questa bella era destinata a qualcosa di diverso, mi spiegò mia madre, tirando fuori un foglio protocollo. Io non avevo mai scritto su un foglio protocollo, avevo solo conosciuto fogli sparsi e quaderni per i compiti. Quella era una cosa da grandi, da ragazzi che avevano l’età di mio fratello almeno. Non capii cosa sarebbe succeso finché non mi venne spiegato che la maestra Elena l’avrebbe poi portato al “giornale”.
Provai un misto di emozioni. Orgoglio, certo; i bambini sanno essere molto orgogliosi. Però anche stupore. Non capivo perché il mio tema piacesse tanto: in fondo avevo scritto quello che avevano scritto tutti gli altri bambini e che avrebbe scritto chiunque altro. La guerra è brutta, i bambini non devono morire, le mine antiuomo sono una cosa cattiva perché vengono raccolte dai bambini che giocano, cose così. Forse era solo la versione “8 anni” di incomprensioni tra pubblico, critica e autore, però, davvero, avevo scritto “pensierini” più originali, raccontini e altre cose di cui andavo più orgoglioso. Però la soddisfazione di passare al foglio protocollo e alla cartellina trasparente mi comprarono definitivamente. Ah, i compromessi che ogni aspirante scribacchino, anche a 8 anni, deve accettare! Come segno di non piegamento totale alle logiche del mercato giornalistico, imposi l’inchiostro verde invece di quello blu.
Poi, così come erano scoppiate improvvisamente, la guerra e la mia carriera giornalistica finirono. I politici di quegli anni (che sono gli stessi di questi) e quanti contro ogni logica avevano parlato di guerre giuste, bombe che uccidevano solo i cattivi e altre disgraziate invenzioni la cui falsità era evidente a un bambino di 8 anni ma non a loro, smisero di parlare di Sarajevo e si occuparono di altro. Calcio e benzina, per lo più.
Il conflitto ritornò nella mia vita qualche anno dopo. Facevo seconda o terza media e nel mio Paese si trasferì un ragazzo più grande di me di qualche anno, ma finito nella nostra scuola e non alle superiori per il suo scarsissimo italiano. Era serbo.
Ora non so come ve lo immaginavate voi un serbo in seconda media, ma io non ci avevo forse mai pensato abbastanza o più probabilmente ero solo ignorante. Comunque un serbo e un arabo erano due cose diverse. L’arabo è quello scuro di pelle musulmano, il serbo è quello biondo, con la faccia da slavo (cosa alla quale ci stavamo abituando anche in provincia, nella seconda metà degli anni 90). Invece questo ragazzo altissimo, con due spalle robuste e la timidezza di chi non parla e non capisce cosa gli viene detto, in mensa non mangiava il prosciutto e aveva un nome decisamente musulmano. Avevo anche un compagno metà egiziano il cui padre era musulmano, ma cavolo, era egiziano, non serbo. Non mi stupiva come mi stupiva questa famiglia di musulmani dell’est.
L’arrivo di Ahmed a scuola fu davvero un evento: le ragazze lo guardavano come non guardavano di sicuro i miei compagni, ma difficilmente gli rivolgevano la parola e se lo facevano non erano quasi mai parole gentili. Non so perché, ma su Ahmed si abbattè tutto la xenofobia che non si era mai abbattuta tra quelli della nostra età. I ragazzi più grandi si erano già divisi tra fascisti, anarchici, comunisti. Litigavano, facevano a botte qualche volta e spesso discutevano. Ma fino ad allora noi c’eravamo tenuti lontano da “A” cerchiate, falci e martelli e croci celtiche. Non so ancora spiegarmi se fu l’arrivo di Ahmed davvero, o eravamo diventati i ragazzi grandi anche noi, però quell’anno qualcosa cambiò.
Forse perché era più grande, forse perché era bello. L’imperativo che girava tra le ragazze era che chi si faceva una storia con lui, era una troia. I ragazzi, che all’inizio lo invitavano a giocare a calcio con loro, cominciarono prima a non chiamarlo più, poi ad escluderlo e poi ad insultarlo più o meno apertamente. Non ho mai saputo bene il perché di questo cambiamento, ma credo che come da miglior tradizione eteromachista, tutto fosse iniziato per qualche ragazza.
Comunque degenerò abbastanza in fretta e nei diari e sui quaderni cominciarono a comparire svastiche, scritte in tedesco che nessuno sapeva leggere e qualche sparutissimo “w il cominismo e l’anarchia”, che per me e per i miei amici, erano ancora la stessa cosa. La tensione si faceva sempre più calda, e la nostra professoressa di italiano, storia e geografia si sentì in dovere di insegnarci qualcosa sulla questione balcanica.
Non so voi, ma io ho sempre provato molta invidia per i nostalgici del PCI, per i marxisti vecchio stile. Vorrei avere le loro certezze dogmatiche, la loro inaccessibile sicurezza nei giudizi storici. Ore di lezione dove sfilavano macedoni, turchi (sì, con mio sommo stupore apparvero i turchi, forse Ahmed non era davvero serbo, era solamente l’ultimo ottomano), sloveni di Slovenia e sloveni di Slavonia, che era poi la romana Pannonia, croati, serbi, cattolici, ebrei, ortodossi e mussulmani per giungere alla conclusione che a un certo punto della storia venne un uomo che aveva riunito tutti gli Slavi del Sud nella Jugoslavia e che aveva tenuto tutti i bambini litigiosi uniti come fratelli. Era un po’ un nonno buono, questo Tito, e alla sua morte i parenti ingrati avevano cominciato a litigare. Potete pensare che me lo stia inventando ora, ma la professoressa usò davvero la metafora del nonno buono per descrivere Tito. I miei compagni che si dichiaravano fascisti probabilmente non sapevano molto di foibe e violenze consumatesi negli anni a Trieste – Trst, insensatamente compiute a danno di civili italiani e sloveni da entrambi i regimi, e nessuno ebbe da obiettare qualcosa su un generale che in realtà era un nonno gentile.
Volli vederci un po’ più chiaro, andai in biblioteca e chiesi alla bibliotecaria un aiuto. Finii divorato dal succedersi di date e imperi e il mio interesse storiografico per l’impero turco-ottomano durò un sabato. Credo nemmeno tutto il sabato, perché in quegli anni dalle 4 alle 6 di sabato provavo con la mia prima band e la biblioteca chiudeva per pranzo.
Di nuovo la Jugoslavia, come era comparsa, scomparì, si inabissò per svariati anni. Era ormai un nome vecchio, smembrato in tanti nomi diversi e se veniva nominato era sempre preceduto dalla particella “ex”.
Fino all’anno in cui andai in vacanza per la prima volta in Croazia, con gli amici. Macchina, tenda, sacchi a pelo, isole dai nomi impronunciabili. Spiagge e scogli, non sabbia e cemento. Mercati dove paprika vuol dire peperone e peperone non vuol dire niente, dove mediča non significa dottoressa, ma grappa aromattizzata al miele (med). Mi ripromisi di tornare a casa e cominciare a studiare la storia dei balcani, ancora una volta. Volevo, dovevo, capirci di più.
Avevo incontrato durante quelle vacanze in campeggio una giovane coppia, neosposini, bosniaci. Parlavano un inglese con un accento veramente affascinante, che ti costringeva all’ascolto ad ogni “th”, pronunciato tra i denti come una “z” stanca. Avevano il camper e diventammo amici perché gli rubavamo l’elettricità per la lampadina. Era bello pensare che dopo tanto tempo dei bosniaci potessero fare delle vacanze su un’isola croata di Korčula. Si sarebbero fermati lì una settimana e poi avrebbero raggiunto la città vicino a Zagreb di dove era originaria lei. E da dove lei non metteva più piede da quando era bambina.
Con racconti come questi in testa mi buttai nella letteratura e nella storia dei balcani, ma, solo ora che comincio ad essere vecchio anche io, capisco perché il mio tema di bambino di 8 anni avesse entusiasmato tanto maestre e parenti. In fondo tutto quello che dovevo sapere sui conflitti balcanici, e sui conflitti in generale, lo sapevo già a 8 anni.

“Ma la violenza non è una bestia invisibile, ha pure lei dei punti deboli: l’amicizia, la calma, la ragione, ottime medicine per questa brutta malattia.”

Pivo Andrić, 8 anni.
Fotografia: Federica Peyronel

ACAB (2011) – Sinossi del film

febbraio 1, 2012 § 1 Commento

Acab è un piccolo capolavoro del cinema italiano. Torinese, autoprodotto, fresco fresco di uscita. Si tratta di una favola metropolitana che immortala il percorso di formazione di Pino, giovane valsusino, ricostruendo gli ultimi atti di antagonismo che hanno scombussolato la nostra cara urbe. Riportiamo qui la recensione pubblicata sul “Venerdì di Repubblica” (30/1/12), che apprezziamo per la sua neutralità. Per esigenze di stringatezza l’abbiamo ridotta, attinendoci al modello di sinossi wikipediano.

Pino, studente sbarbatello, si dirige a scuola con un amico, quando i due vengono fermati da un poliziotto rasato con un Uzi che chiede loro i documenti. Pino mostra la sua carta mentre l’altro, non trovando la propria, tenta di scappare. Il poliziotto s’incazza e lo pesta, ma non riesce ad immobilizzarlo del tutto, finendo per lasciarselo scappare. Dopo un breve ma inutile inseguimento, lo sbirro acchiappa un gatto di passaggio: lo apre in due per berne il sangue e si tinge di rosso una svastica sulla testa. Booom! Titolo di apertura: “ACAB”. Sullo sfondo una serie di scene di pestaggi ad opera della polizia sui manifestanti locali. Nel mezzo anche alcune scene tratte dal film 1984 basato sul famoso libro di Orwell.

Dissolvenza. Scena a luci basse ambientata nelle sedi della polizia.

Siedono a un tavolo, rispettivamente, un inquietante generale con un bottone al posto di un occhio dall’accento fortemente tedesco, il maiale Napoleone, Rasputin, Jafar ed il Commisario Basettoni. I cinque cattivoni cantano vecchie e gloriose canzoni fasciste, mentre giocano a freccette con una foto di Mahatma Ghandi. Entra un marine, trascinando un bambino addormentato, completamente nudo. Jafar lo scuoia vivo invocando la potenza del Sistema. Un lampo di luce ed il bambino scompare. Nel frattempo Pino, all’esterno dell’edificio in una manifestazione NOTAV, sviene. In un mondo indistinto, fatto di corpi senza volti, gli appare l’immagine di Carlo Giuliani, vestito di bianco e con un bellissimo paio di ali. Carlo gli intima di seguire l’uovo bianco. Pino si alza e prende un uovo dalla cesta delle uove lanciabili e la lancia verso la finestra. L’uovo finisce in mezzo alla sede della polizia ed esplode, distruggendo tutto l’edificio. La profezia è avverata. I NOTAV hanno vinto. L’ASKA ha vinto. I SI all’esterno si piangono addosso per l’abuso di violenza. Tra la folla, il direttore dell’Ode esamina il tutto affascinato sotto effetto di DMT.

Si scopre così che Pino è l’Eletto, e viene ribattezzato Jaco-pino. La gente ricomincia a credere nella lotta al Sistema, e tutti confidano nelle potenzialità di Jac. Il giorno dopo, mentre Pino è all’università per seguire un corso, un poliziotto gli spara nei bagni e lo rapisce.
Il film si chiude con l’immagine di Jacopino col pugno alzato. Acab II: Reloaded saprà raccontarci il resto.

Acab (2011) – Scheda Tecnica

REGIA: Antonio Negri & Michael Hardt
SCENEGGIATURA: Lorenzo Cesarano, Barbara Petronio, Leonardo Marsili
ATTORI: Pierfrancesco Favino, Marco Giallini, Antonio Negri, Domenico Diele, Andrea Sartoretti, Roberta Spagnuolo, Eugenio Mastrandrea, Eradis Josende Oberto
Ruoli ed Interpreti

FOTOGRAFIA: Paolo Carnera
MONTAGGIO: Patrizio Marone
PRODUZIONE: Mamma e Papà
PAESE: Italia 2012
GENERE: Drammatico
DURATA: 112 Min
FORMATO: Colore

Laurenti – Il Corpo del Duce (TFF 29)

dicembre 3, 2011 § Lascia un commento

All’uscita del cinema, con la testa in sala e l’incazzatura crescente, la prima cosa che colpisce è la dicotomia fra l’attonito silenzio della sala e i campanelli di persone che fuori vociferano e vociferano e vociferano e vociferano.

  • Sporco Fascista torna nella fogna (gridato e ripetuto come sottofondo costante)
  • Sta citu tu hai visto che gli hanno fatto?bravi i tuoi eh!
  • Come hanno fatto a selezionarlo, ma poi a Torino, nella città più antifascista d’Italia.
  • Io mi ricordo quei giorni
  • non avevo mai notato la somiglianza di Mussolini con il protagonista dei Goonies.

 

Tutte queste voci, tutte queste voci nella mia testa mi fanno pensare, se fosse proprio questo il significato? E se il linguaggio, le immagini le esagerazioni fossero tese a Questo?
Uno schiaffo per reagire.
Ecco partirò da questo per l’analisi del Corpo del Duce, e anzi cercherò di essere il più obbiettivo possibile, Io sono di parte e quindi la mia critica sarà opera di parte. Laurenti mi è capitato numerose volte d’incontrarlo in questo festival, mi trovo a scrutarlo dopo le proiezioni con un cappotto troppo grande per la sua esigua figura. Ecco se mi dovessi prefigurare un italiano, un fascista tipo lo immaginerei così, lui è l’emblema lui è il corpo. Il corpo di Mussolini non è il corpo di un adone è un corpo tipo, virile certo ma non eccessivamente, atletico certo ma di quell’atletico propri del popolo. Il corpo del capo è un corpo in carne, quella carne sognata e agognata in un periodo di fame è un corpo che suda, ma è anche un corpo mitico costruito è un corpo che diventa simulacro esso diventa stato e statua.
I morti puzzano si decompongono gonfiano mutano sciolgono seccano accorciano sgretolano perdono rimangono e poi, prima o poi i corpi scompaiono quello che rimane sono le tombe, pallidi ricordi gelati.
Il nazionalsocialismo fu un regime di morte e per la morte, come segni, come richiami come parole fu qualcosa di profondo, d’antico e se mi si concederà il temine, mi scusino gli amici d’oltre il Reno fu un regime profondamente barbaro. Il fascismo fu dalle origini qualcosa di differente,esso fu rancoroso, vitalistico, s’ammantò di quella forza terribile che è la forza del sangue, della vendetta della rabbia cieca degli umili plasmata e fatta maturare in tutte le sue componenti.

.CredereobbedirecombattereCredereobbedirecombattereCredereobbedirecombattereCredereobbedirecombattereCredereobbedirecombattereCredereobbedirecombattereCredereobbedirecombattere.

Il documentario crede in un capo cristo e cesare, dio in terra, obbedisce al corpo e combatte per la sua sopravvivenza, su quel corpo sono fondate tutte le parole che è capace d’esprimere. Ci svela i retroscena è implacabile nel delineare il corso degli eventi, interpreta e reinterpreta la storia è chiaro quando ci fornisce un punto di vista, il punto di vista di sognatori che ancora non riescono a non smettere di pensare che tutto sia perso sia finito, polvere alla polvere. Il suo discorso si fa chiaro, c’incuriosisce, cerca l’effetto cerca la pietà mostrando la fine d’un sogno per alcuni e d’un incubo per altri, non si rassegna alla volubilità del popolo e implacabile lo condanna. Documenta l’esistenza di questi, i riti e i ritmi, ci mostra i feticci, le reliquie, i pellegrinaggi la religione che fa del corpo vittorioso l’oggetto del culto e aspetta la nuova venuta.
Santo Benito da Predappio, concedimi la mano ferma contro i miei nemici, l’occhio vigile e illuminami la strada verso un nuovo futuro attraverso le tue parole. Santo Benito prega per noi.
Più nascondi una cosa più sviluppi un’attrazione fatale verso questa.
Certo il corpo del Duce a Piazza Loreto venne mostrato e rimostrato per dimostrare che tutto era finalmente finito gattopardianamente; le scene note, più a noi che hai nostri padri, fecero presto il giro del mondo, ma proprio la vicenda che ne seguì e il silenzio riportarono in vita quei corpi rendendoli immortali, fino ad ora. Nascosto, trafugato, riesumato, mostrato poi occultato, conteso, diventa mito religione di un mondo in rovina. Quello che il documentario invece ci mostra è qualcosa di nettamente differente, è un corpo morto che non ha più le sembianze e la forza che ostentava con virile maestria prima, non è il corpo eroico del capo popolo è il segno della storia e del tempo. Nel mostrare quelle immagini ricade su se stesso, abbassa a un livello infimo quello che prima era qualcosa di divino, caduto il corpo quello che rimane è operetta, è teatro, grottesche rappresentazioni vuote.
Anche lui finalmente è morto , ne abbiamo le prove, il fascismo vive e non vive nei vecchi canuti nutriti di nostalgia e ricordi, ne nei giovani assetati di sangue con le suonerie d’antan , ma vive nelle persone comuni che non sanno di risentire ancora di vent’anni di fascismo e della sua macchina comunicativa, vive nei poteri forti e nello stato vero corpo del capo, esso vive.
Non è finita a piazza Loreto.
Ma no che non é finita
piazza Loreto
si é vinta una battaglia
ma non la guerra
perché il taglio di una pianta
non é completo
finché le radici restano
sotto terra.

Raz Rubb II

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