Le contraddizioni del Torino Jazz Festival

aprile 29, 2012 § 2 commenti

Colonna sonora (1): Niente più- Leo Ferrè

-Ma hai visto che figata il Jazz Festival?-
-Chi c’è?-
-Jamal! E un sacco d’altra roba pazzesca.-
-Figo. Aggratis?
-Tutto gratis e in piazza.

Mica male, devo essermi detto. Ho portato il flyer a casa e l’ho appeso con una puntina alla scrivania, illuso che mi potesse mai passare di mente. Ovviamente non è stato così. Aspettavo il festival con voglia sempre maggiore. Dovrei studiare. Ma sì, vado direttamente alle 6 per il primo concerto, così prima studio un po’. Magari un po’ prima; sì ma non molto, eh. Tanto è in piazza, troverò posto. Ricevo una telefonata: “Ah, ma non sei ancora arrivato? Avrai una brutta sorpresa…”
Il palco di piazzale Valdo Fusi è in una posizione improbabile. C’è davvero qualcosa di strano. Sembra una propaggine del Jazz Club. La piazza è completamente vuota, perché il palco gli dà le spalle. Mi spiegano che ci sono 400 posti a sedere(un po’ pochini), alcuni sono riservati per le autorità e poi non è più possibile accedere alla “sala”. Alla sala? Doveva essere un evento di massa. Lo so, il jazz non è di massa, ma è pur sempre una musica dalle forti radici popolari e forse è un bel regalo, riportarlo nelle strade per essere goduto, come circa un secolo fa, da qualsiasi persona. Ecco, cosa ho pensato: non sarà facile, ma potrebbe essere una buona occasione. Anche solo per togliere al jazz quella patina di intellettualismo di cui si è vestito negli ultimi anni in Europa, più che negli States. Tant’è: ci si prova, vediamo come funziona sbattere Jamal in mezzo alla gente. Sta per iniziare il concerto e la gente si accalca al lato del palco, dove c’è una discesetta erbosa e le grate d’areazione del parcheggio. Che tu bestemmi e pensi perché cazzo con tutte le splendide e sconfinate piazze della Torino monarchica dovevi scegliere un maledetto parcheggio a forma di imbuto. Provi anche ad ascoltarti le note (che, poi, entrando sotto, con un po’ di stalking sui volontari e un po’ di fortuna sono riuscito a godermi) di Franco Cerri, Renato Sellani e Dino Piana: tre autentici senatori del jazz italiano. Ma il pensiero inizia a roderti: perché una roba del genere? Perché fare un evento di massa e escludere la massa? Strano, perché l’assessore Braccialarghe aveva detto tra un concerto e l’altro «Con il Tjf voglio allargare l’offerta culturale con iniziative di alto profilo, completamente gratuite, per avvicinare pubblici nuovi, e uscire dalla solita cerchia ristretta di frequentatori. Se anche non c’è stato un turista venuto per il festival ma 30 mila persone l’hanno scoperto, anche per caso, sono contento. Abbiamo fatto centro». Ci sono un po’ di tarli che mi rodono e un fastidio crescente per l’organizzazione approssimativa. Qualcuno dice “ma dai, è la prima edizione, miglioreranno”; qualcun altro “queste porcate solo a Torino”. Anche se chi non è torinese e si gira concerti e festival in tutta Italia da anni lo sa bene che non si tratta solo di Torino, in piazzale Fusi non è difficile trovare il perno: il Jazz Club Torino e il suo Presidente Fondatore, il benemerito Fulvio Albano.

Casualmente, il Presidente del Jazz Club, musicista di buon livello e organizzatore da sempre di eventi nel mondo del jazz, occupa il ruolo di Curatore Artistico di piazzale Fusi per il Festival. Altrettanto casualmente, il palco è montato come una vera e propria propaggine del Jazz Club, in cui, appena finisce il concerto sul Main Stage, parte un concerto con aperitivo e cena.

A pensare male si fa peccato ma spesso ci si azzecca (cit. il divo Giulio)

Colonna sonora (2): Take Five – Dave Brubeck

Secondo giorno di festival; si parte da casa con largo anticipo per riuscire a entrare nell’esclusiva platea approntata per l’evento, c’è Ahamd Jamal, impedibile, non si può rischiare di rimanere fuori e improvvisarsi come il giorno prima esperti di free-climbing insieme agli avventori più attempati e diversamente giovani. Arriviamo in piazzale Valdo Fusi con largo anticipo (sono le 16.30), tant’è che gli ingressi sono ancora chiusi e la fila davanti a questi è di modesta entità. In fila ritornano le stesse domande: perché mettere il palco in quella posizione? Perché non mettere il palco all’estremo opposto del Jazz Club, in modo da avere tutta una piazza a disposizione? Perché non girare il palco?

A dire il vero  in pochi si arrovellano con noi intorno a questi interrogativi, i più sono completamente protesi ad accedere all’esclusivo privilegio di un posto a sedere, hanno lo sguardo del predatore, sono attenti, svegli, sanno che dovranno correre e sgomitare per non rischiare di rimanere fuori. Ma noi fungiamo da calamita per tutti i polemisti di professione presenti in piazza e  attorno a noi c’è molta meno tensione. In realtà, i nostri amici entrano presto nella spirale della rabbia più incancrenita, arrivando a scagliarsi rabbiosamente contro chiunque, in una guerra tra poveri che ha dell’assurdo. In successione ne subiranno l’ira funesta: i furbi della fila, i ragazzini dello staff, i fotografi. Decisamente più sobrio l’atteggiamento del tipo rassegnato per cui l’accesso alla cultura derivato da questo tipo di eventi gratuiti è una concessione di una qualche non meglio specificata autorità o sponsor economico, e tanto vale non lamentarsi visto l’eccesso di generosità dimostrato nel rendere gratuite performance di questa portata e pazienza se i posti sono limitati e non ce n’è per tutti, è già tanto quello che ci è stato concesso, meglio non esagerare con le pretese. Ma a noi sobillatori di polemisti sobillati dai polemisti stessi non sfugge la matrice economica di un festival del genere, dai nomi degli sponsor principali (Iren e Intesa San Paolo- tralasciamo per ora la polemica sui finanziamenti, per cui rimandiamo a queste congetture de Lo Spiffero) all’eccessivo zelo mostrato dall’organizzazione affinché ci fosse un sicuro rientro economico per le attività commerciali della Torino centrale. L’ennesimo investimento economico in turismo e intrattenimento, travestito da evento culturale.
Siamo dentro, siamo tra i pochi fortunati.

La “sala” si presenta elegante e raccolta, tinta di nero rispetta l’etichetta che alcuni pretendono per questo genere di musica. È subito piena nel giro di pochi minuti. Ma la folla esclusa è tanta, spinge sulle transenne e preme per poter entrare. I ragazzini dello staff, messi di guardia (13/14 anni), hanno evidenti difficoltà a trattenere ragionevolmente questa folla inferocita. Qualcuno fa il furbo e passa, ma viene subito avvisato che se dovesse presentarsi in ritardo l’assessore comunale dovrà cedergli la sedia conquistata (mai parole furono così tanto fuori luogo).

Ormai ci siamo, Jamal, Riley, Cammack e Badrena dopo un inizio in sordina partono per la tangente; i brani da “Blue moon” sono brillanti e le rare incursione nel primo repertorio si vestono di una luce tutta caribbean data dall’apporto sempre puntuale di “Manolo” Badrena alle percussioni. Tutto il set prende quota e coinvolge sempre di più il pubblico, dentro e fuori la sala: si battono addirittura le mani. Sembra di recuperare un po’ delle radici che c’è nel jazz…magia “dell’uomo dalle due mani destre”.  Presi dal battito di mani fragoroso, ci guardiamo intorno: in questo secondo giorno di festival gli alpinisti improvvisati si sono quintuplicati. Anche il resto della piazza è piena. Un evento con un’enorme partecipazione castrato. Nel resto della serata possiamo apprezzare particolarmente, ritenendola geniale, la trovata di far suonare un solista su di una chiatta in mezzo al Po; dei lati positivi e per una recensione completa del festival ci riserviamo di aspettare la fine.

Ma si fa tardi nello scrivere questo resoconto, bisogna scappare a prendere i posti.

I Jazzemani

Le vacanze in Spagna costano un occhio

aprile 25, 2012 § Lascia un commento

Quest’anno è la Germania che detta le tendenze per la primavera e l’estate. In Spagna per esempio, nella centralissima ed esclusivissima della Moncloa (la sede del Governo) politici ed amministratori stanno inaugurando una nuova stagione di colori sbiaditi e tagli netti, a cominciare dalla sanitá. Il taglio annunciato è del 10% rispetto al budget degli anni passati; in abbinamento alla mise «vedo non vedo, forse non c’è più» troviamo anche un tocco d’altri tempi: l’obbligo della donna a giustificare l’aborto al medico che le rilascia l’autorizzazione a procedere, non includendo tra le motivazioni accettate quella «socioeconomica».
Quest’ultima misura al momento non è nell’agenda delle prossime azioni del Governo, ma la dottrina pro-life è stata piú volte difesa pubblicamente dalla destra spagnola.
Nell’istruzione le forme suggerite appaiono familiari all’italico gusto: tagli al Fondo di Finanziamento universitario, aumento delle tasse attraverso la celebre formula dell’innalzamento della percentuale di contribuzione studentesca (non vi diamo meno soldi, è che dovete essere più collaborativi!) e della riduzione delle borse di studio; i Consigli di Amministrazione si popoleranno di rappresentanti «del mercato» non eletti da nessuno. Nell’insegnamento inferiore ogni professore vedrà aumentate le ore settimanali (licenziamenti) e faranno lezione a classi un 20% più numerose (più licenziamenti).
Questo e molto altro è previsto dala stragia «EU 2015«, l’attuazione delle direttive europee del piano di Bologna e di Nizza sull’istruzione.
Sul lato del lavoro la riforma continua la precarizzazione, o flessibilizzazione, del lavoro attraverso il libero sfoggio del licenziamento “per motivi economici” senza l’incorrere in sanzioni e con un’indennizzo al lavoratore corrispondente a 33 giorni lavorativi per anno di lavoro effettivo; maggiori possibilità di modifica del salario, delle mansioni e dell’orario
lavorativo, incentivi per chi sospende temporalmente il contratto, nuovo contratto di formazioni per giovani sotto i 30 anni, con salario minimo e durata tra uno e tre anni (periodo di prova di 12 mesi), possibilità di licenziamento collettivo senza passare dalla contrattazione sindacale. Questo e molto altro sulle passerelle iberiche. Sorpresi?
Se l’originalità non sta nell’essenza delle nuove mise proposte, la possiamo trovare nelle forme di attuazione di queste misure.

La risposta da parte di chi soffrirà i tagli è stata imponente: il 29 marzo. Lo sciopero generale in tutta la Spagna è stato attuato anche grazie a decine di picchetti che hanno fermato fabbriche, negozi e mezzi di trasporto pubblici, a blocchi del traffico per permettere alle persone di camminare verso un unico obiettivo per tutta la giornata: il futuro da riprendersi.
Una giornata che da ogni fronte di movimento è apparsa come ben riuscita. I media nazionali hanno riportato solamente le cifre del numero di cassonetti distrutti, dei danni totali ad edifici e cose, del numero degli arrestati e dei feriti.
La risposta statale e autonomica è stata più spaventosa che imponente: in Catalunya, a Barcellona, due elicotteri sorvolavano la città fin dalla notte precedente, e Guardia Urbana e Mossos d’Esquadra occupati in assetto antisommossa, che hanno cercato di mantenere l’ordine con non poche difficoltà: numeriche per le molte manifestazioni in contemporanea della giornata, e logistiche per l’ubiquità dei gruppi più aggressivi nei punti caldi (banche,
uffici dell’impiego, multinazionali, centri commerciali, imprese e auto di lusso).
La risposta si è articolata con arresti, lacrimogeni e proiettili di gomma: la prima misura ha riportato le persone all’epoca franchista, in molti associano le «bombas du humo» alla repressione del dittatore finita nel ’75, ma che ogni giorno di più sembra ricomparire nelle azioni politiche e di piazza.
I proiettili di gomma sono in dotazione alla polizia spagnola e alle polizie autonomiche, che in Catalunya ne fa abbondante uso; sono classificate come armi «non eccessivamente letali», ma dal ’95 ad oggi si stima che abbiano fatto già quasi venti morti, e centinaia di feriti gravi.
Le «balas de goma» hanno privato di un occhio tre italiani in situazioni non pericolose nell’ultimo anno, e lo scorso mese hanno ucciso un ragazzo basco per l’emmoragia cranica che possono provocare.
La violenza che si percepiva sfilando per le strade di Barcellona durante la huelga general è disorientante: le polizie (nazionale e autonomica) arrivano all’improvviso sfrecciando a tutta velocità per disperdere le persone (spesso facendo male a qualcuno), e se le persone non se ne vanno saltano giù dalle camionette ancora in movimento per picchiare alla cieca: manifestanti con le mani alzate, fotografi, giornalisti, turisti ignari, fino a che esauriscono la scarica di adrenalina per poter continuare la loro folle corsa a sirene spiegate, in gruppi di 6- 10 camionette con 8-12 mossos per ognuna. Non importa «di che spezzone tu sia», non devi stare in strada, nemmeno sul marciapiede, la strada è loro.
Alti incarichi del ministro dell’Interno e della Polizia hanno rivendicato la buona attuazione poliziale, che di fronte a «masse tanto aggressive» non poteva discernere i buoni dai cattivi: si dispiacciono per i buoni che hanno pagato, ma avrebbero dovuto semplicemente allontanarsi dalla manifestazione.
Le reazioni a questa giornata sono state duramente repressive da parte dello Stato: è stata infatti proposta una riforma del Codice Penale riguardante le norme processuali per atti di guerriglia urbana e la legge di sicurezza cittadina. Il ministro dell’Interno Díaz – un nome una garanzia – vuole introdurre il reato di attentato all’autorità attraverso resistenza passiva o attiva grande, con una pena tra 1 e 6 anni, il reato di diffusione di convocatorie violente attraverso internet e l’allungamento della detenzione preventiva; inoltre si estenderà la quantificazione dei danni alle interruzioni di servizi pubblici, mentre attualmente si valutano solo i danni a cose.
Si è negato che queste misure servano a restringere la libertà di manifestazione, affermando che si vuole punire solamente chi compia un atto di «autentica prostituzione del diritto di manifestazione». Un aneddoto su questa frase: oltre a non aver sicuramente convinto chi dubitava sulle finalità di queste misure, ha aumentato l’indignazione delle lavoratrici sessuali spagnole, già organizzate da tempo in una piattaforma e che il 26 aprile scenderanno in piazza per rivendicare la dignità della propria attività, sentendosi anche loro sempre più in pericolo trovandosi in uno spazio pubblico, e il pericolo è costituito dalle forze dell”ordine. (Prostitutas indignadas).
I movimenti hanno reagito súbito ai 70 arresti nel giorno della manifestazione, di cui 3 preventivi confermati in vista della riunione della Banca Centrale Europea a Barcelona il 2 e 3 di maggio. Sta nascendo una piattaforma antirepressiva che riunisce, al momento, una quindicina di movimenti politicamente trasversali di quella che si potrebbe chiamare
l’area extraparlamentare, che hanno chiamato una manifestazione ieri a Barcellona contro la repressione crescente; si muoveranno in direzione tecnica (supporto legale agli arrestati e durante le manifestazioni) e politica, perchè la grande domanda che le persone sentono crescere è: che cos’è la violenza? Ed è una domanda che molti italiani si sono ritrovati a farsi dopo gli avvenimenti in Valsusa quest’anno.
Alla fine della manifestazione contro la repressione di domenica 22 aprile sono state fermate 6 persone, di cui 2 ora in arresto per aver fatto delle scritte sui muri, reato che normalmente è punito con una multa. Non solo non si sono giustificati gli arresti, ma si continua con la violenza verbale da parte delle forza dell’ordine, che hanno replicato attraverso il suo Coordinatore generale regionale David Piqué: «si possono nascondere dove vogliono, perchè li troveremo. Sia in una caverna o in una cloaca, dove si nascondono i ratti, o in un’assemblea, che non rappresenta nessuno, o dietro la scrivania di un’università». Parole quanto meno dinamitarde in un momento di crisi ecnomica senza possibilità all’orizzone di risalita. Il primo maggio ci sarà la manifestazione annunciata già dal 30 marzo.
In tutto questo clima di violenza, non è mancato chi ha cercato negli stranieri la causa delle violenze: un articolo della Vanguardia dell’8 aprile a firma di Enric Juliana accusa anarchici italiani affiliati del movimento No Tav di essere «il germoglio anarcoitaliano violento degli scontri nel giorno dello sciopero generale». Un tocco di esoticità che piace di qua e di là.
Intanto continuano gli sgomberi di persone che non possono pagare il mutuo, continua l’emigrazione degli spagnoli, le uscite africane a caccia di elefanti del re e il lancio di «nuove collezioni»: il vintage è tornato davvero di moda, e guardando bene ci si accorge che non sono capi nuovi a cui si è volontariamente deciso di attaccare delle «pins» o di aggiustare con spalline perchè sembrassero antichi: qualcuno ha tirato fuori vestiti da un armadio che si sperava definitivamente chiuso.

Girafa Desquiciada

La solitudine degli indignati

aprile 14, 2012 § 2 commenti

Se c’è una vittima, lo sai. Lo sanno tutti quando c’è una vittima. Si siedono davanti alla TV per pranzo e sanno che c’è una vittima, da qualche parte, qualcuno da piangere.
Se c’è uno scandalo, lo sai. Non hai capito una sega della riforma del lavoro, non ti disturba la xenofobia della Lega, ma dei milioni rubati ti indigni sempre. E poi torni alla fettina al burro che ti guarda rattrappita dal piatto.
Perché l’assuefazione è così: sorprende sempre per restare uguale a se stessa. Se volessi una sorpresa reale, un cambiamento, qualcosa, non accenderesti l’ennesima sigaretta, sperando che faccia sfumare il nervosismo. Tireresti via il pacco, masticheresti liquirizia. Passando ad un’altra dipendenza.
Sono diviso tra una nuova sfiducia, una disillusione fiorita nelle ultime settimane riguardo all’agire collettivo e il rancore provocato dall’individualismo d’indignazione. Perché questo, sugli ultimi mesi, dobbiamo dirci: abbiamo sbagliato parole d’ordine, abbiamo impostato un immaginario fallimentare. L’indignazione non basta, ci dicevamo. L’indignazione non serve, avremmo dovuto dire. Perché l’indignazione fa appello alla dignità, un senso individuale, per tutti diverso, l’indignazione è diversa dalla rabbia, ma non più costruttiva. Solo una sfumatura diversa della sconfitta. La costruzione di una collettività non può partire da un sentimento così beceramente individuale: il movimento negli ultimi anni è caduto nella trappola che gli era stata preparata. Ha raccontato una storia già sconfitta, per assuefazione. Così, come si fuma una sigaretta.
Il nostro, a memoria, è il Paese sempre indignato. Al punto che pure l’indignazione, che dicono meglio di niente, dicono, forse era meglio niente, forse era meglio rabbia, è spenta, è un rito, assieme al caffè, o all’amaro dopo i pranzi pesanti, la Colomba e l’Uovo di Cioccolato a Pasqua. Insomma, 8-12.30 lavoro 12.30-13.00 viaggio verso casa 13.00-14.00 pranzo e mi indigno un po’ 14.00-15.00 riposino 15.00-18.30 lavoro 18.30-19,30 traffico, bestemmie e radio 19.30 casa. La routine dello scagliarsi contro la casta e della pasta scotta, la routine dei broccoli saltati e dell’alternativa possibile a sinistra. Quando, poi, tutto cade a pezzi e la violenza dei decreti del governo tecnico di acclamazione popolare(GTAP) viene nascosta dall’ennesimo scandalo che coinvolge la famiglia di questo o quel politico (è toccato a Bossi, toccherà a qualcun altro, in perpetuum), semplicemente sai qual è la prassi: ti indigni, versi un bicchiere di vinaccio della cantina sociale, finisci la cena, fumi una sigaretta. E vedi che dice Carlo Conti.

Iosonolodio

Omosessuali scontenti? Malati no, disabili sì.

aprile 13, 2012 § Lascia un commento

Come spigare all’Inps perché in Italia gli omosessuali e i bisessuali meritano l’unica pensione della loro vita.

ICD9 non è il nuovo tipo di lacrimogeno cancerogeno a disposizione delle forze dell’ordine in Val di Susa, ma lo strumento diagnostico che assegna a ogni patologia o condizione di interesse medico un codice di lettere e numeri. In base a questo codice si può sapere se si tratta di una patologia psichiatria piuttosto che cardiaca. Ad esempio ICD “K “sono tutte le patologie dell’apparato digerente, ICD “A” e “B” tutte le infezioni di virus e microrganismi vari.
Proprio per la sua ateoreticità (la sua stesura e tutte le sue revisioni sono dell’Organizzazione Mondiale della Sanità) e praticità, è lo strumento usato nelle unità di valutazione handicap come in tutte le commissioni pubbliche che certificano inabilità al lavoro, indennizzi per incidenti ecc…
Niente di strano fino a qua; ma perché questo tomo di svariate pagine e dal nome da androide di George Lucas è tornato alla ribalta?
Nessuno se ne è accorto, per anni, ma in questo strumento utilizzato quotidianamente dai medici di tutta Italia è ancora presente l’omosessualità, capitolo V lettera F, patologie psichiatriche. Quando gli attivisti del movimento GLBT l’hanno scoperto e l’hanno fatto notare, funzionari del ministero e delle ASL di tutta Italia, increduli, sono andati a controllare e verificare. È vero: se per i manuali di psicopatologia comunemente usati per le diagnosi psichiatriche l’omosessualità non è più una malattia, e da diverso tempo ormai, per il manuale di certificazione delle disabilità non è lo stesso. Per lo Stato, insomma, gli omosessuali magari non sono proprio malati. Ma disabili, sì.
Come è possibile?
C’è da chiarire che l’ICD è arrivato alla sua decima revisione. Il lavoro di riscrittura è iniziato nel 1983, con diverse pubblicazioni che attestavano lo stato dei lavori e le novità di classificazione diagnostica apportate, ed è stato completato nel lontano 1992. Questa edizione ha ampiamente accolto le criticità dei movimenti GLBT e delle associazioni psichiatriche di tutto il mondo, e l’orientamento sessuale non è mai né diagnosi, né criterio diagnostico per qualche psicopatologia.
1992.
Nel 1992 la nazionale italiana era ancora ferma a 3 mondiali vinti, per dire.
Non che i medici non sappiano che sia uscita una nuova edizione dell’ICD; lo sanno bene e la utilizzano anche come testo di riferimento diagnostico. Contraddizione tutta nostrana: le patologie psichiatriche vengono diagnosticate anche in base ai criteri ICD10 (motivo per cui nessuno fa più diagnosi di omosessualità egodistonica), ma le pensioni percepite dai pazienti psichiatrici vengono date in base all’ICD9. Questo perché nessuno in 20 anni si è mai preoccupato di convertire i criteri di assegnazione degli assegni di accompagnamento, invalidità e disabilità in base alla nuova classificazione. Pigrizia, immobilismo e burocrazia, insomma, rendono tutti gli omosessuali per lo Stato Italiano soggetti clinicamente sani, ma potenzialmente aventi diritto a una pensione. Cosa che negli ultimi tempi non è da tutti.
L’adozione del “nuovo” testo, come la chiama il Ministro, che definirebbe la mia camicia anni 80 comprata in un second hand shop ad Amsterdam, sotto chiaro effetto psicotropo, come “non così vecchia”, non è nelle priorità dei lavori del Ministero. Per cui abbiamo tutti un sacco di tempo per recarci all’INPS e chiedere di percepire la nostra pensione da omosessuali egodistonici.
Ora va spiegato un attimo questo concetto di egodistonia e del perché sia stato superato dal progredire delle conoscenze sulla psicopatologia sessuale.
L’omosessuale egodistonico distingue molto bene i colori, contrariamente al suo cugino daltonico, ma non è in sintonia con il proprio orientamento sessuale. Non vuol dire niente di particolarmente sensato, ma si intendeva: è gay, lesbica o bisessuale ma soffre di questa condizione.
I motivi di non accettazione di quello che si è possono essere svariati. Si è visto però che spesso sono riflesso di condizioni esistenti fuori dall’individuo, nei giudizi nella società e nei valori culturali della comunità dove il nostro omosessuale o bisessuale scontento vive, salvo rari casi dove questo disagio sottende altri disagi psichici clinicamente obiettivabili come stati depressivi, problemi di personalità ecc… Insomma non è tanto l’omosessualità o la bisessualità la malattia, ma l’omofobia che rende tale condizione motivo di stress psicologico.
Però aggiornare i criteri con cui vengono certificate le pensioni non è priorità del Ministro, per cui ci teniamo l’ICD9 che passare all’ICD10 è faticoso. E poi rischiamo di dover passare alll’ICD11 tra vent’anni, e allora che senso avrà avuto tutto questo lavoro?
Uno può anche chiedersi come fa l’INPS a sapere l’orientamento e il livello di disagio che questo mi provoca.
Ho immaginato il mio colloquio con l’addetto gay scontenti della pubblica amministrazione.
Innanzitutto non c’è pericolo che metta in dubbio il mio orientamento sessuale: ho un blog dove carico quotidianamente i miei filmati porno, e che riceve anche 1000 visite al giorno, che può testimoniarlo; e se proprio dovesse insistere ho il “limone facile” e non ho paura ad usarlo, soprattutto se questo è lo step necessario per ottenere l’unica pensione che, grazie al Ministro Fornero, probabilmente percepirò mai.
Poi gli porterei gli esempi di tutte quelle volte in cui è disagiante essere omosessuale. Allora, a Natale, quando tua nonna continua a martellarti con il solito ritornello della fidanzata e la vecchia tecnica “ubriaca la vecchia”, tramandata segretamente da generazioni, sembra non funzionare come dovrebbe. Sabato mattina scorso: credevo di essermi fermato a dormire da due centravanti di sfondamento della nazionale ungherese invece era la “over 65” di Canasta di Alba. Quando ho scoperto che il ragazzo a cui ho detto no un po’ di anni fa ora è diventato schifosamente ricco; e lui mi amava davvero e mi avrebbe mantenuto, non come lei signor impiegato dell’Inps che fa tutte queste storie per una pensione. Ma ora il riccastro mi odia e non mi offre nemmeno da bere il venerdì sera.
Quando scopro che in tv gli unici omosessuali che hanno spazio e diritto di parola sono Maggioglio (a cui voglio dire che le cotte per i calciatori si prendono a 14 anni, non a 70) e Signorini.
SIGNORINI, capito?! Non è un motivo valido per percepire una pensione?!
E se non fosse ancora convinto potrei portare un sacco di altri esempi: l’omosessualità mi procura disagio quando scopro che essere omosessuale è peccato, però mettere i propri soldi in banche che investono in armi e petrolio no. L’omosessualità mi crea un sacco di egodistonia quando so che se cerco lavoro sono discriminato, e le assicuro che per uno della mia età non è facile cercare lavoro già così. Ah certo, forse non per tutti i lavori, vero: volessi commentare come cantano ad Amici o cantare ad Amici sarebbe un requisito (chissà se esistono le pensioni per eterosessuali egodistonici che vorrebbero cantare da Maria de Filippi ma non possono…) ma se volessi insegnare in una scuola elementare, in un asilo o fare il pediatra…
Ma ciò che mi rende più egodistonico di tutti è scoprire che essere omosessuale mi crea più problemi nel mondo del lavoro, della ricerca universitaria e in tantissimi ambiti della vita comunitaria che se fossi fascista o leghista. E credo di meritarmi una pensione per questo.

Pivo Andrić
Fotografia: Mattia Sansoni

Articolo 18: Tafazzi come il Che

aprile 8, 2012 § Lascia un commento

Di Golia Magro*

L’Articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori è stato – di fatto – abolito. Prima che ciò avvenisse ad opera di strani tecno-robot di governo, a discapito di qualunque principio della robotica asimoviana, il reintegro nel posto di lavoro – garantito dall’articolo 18 – scattava laddove l’azienda non riuscisse a provare che il licenziamento fosse giustificato. Se questo non avveniva, o se l’argomentazione non era sufficientemente efficace, o se le carte provavano un’altra storia, il padrone doveva riassumere il lavoratore.

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Adesso, invece, il reintegro scatta solo se il licenziamento è “manifestatamente” ingiustificato. Oppure se è discriminatorio. In pratica, ti posso discriminare – ma devo assolutamente dire che il fatto che sei comunista, o nero o donna, non ha influito per nulla sul tuo licenziamento: il fatto è che sei rimasto intrappolato in teleologiche strategie aziendali.  Vediamo più nel dettaglio come funziona.

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Se sei negro non ti posso licenziare in quanto negro. Ma se ti voglio licenziare comunque, perché io sono leghista e tu sei negro e non ti voglio pagare i contributi che rubi ai miei figli; o perché tu sei donna e mi hai tirato uno schiaffo perché t’ho palpato le chiappe mentre eri in catena (e che sarà mai!); bhè, negro di merda o femminista del cazzo, lo posso fare comunque.

Mi basta licenziarti. Poi tu scegli se fare ricorso o no – nel qual caso rischi di perderti pure la liquidazione. Ma se per caso sei uno di quei comunisti del cazzo, sempre a parlare parlare senza mai far nulla, e fai ricorso al giudice… Spetterà a me l’onere della prova.

Significa che la storia del tuo licenziamento la racconto io. E dirò al giudice che il tuo licenziamento è per motivi economici, e gli sparerò una serie di numeri e dati inventati o falsati, dipingendo la tua cacciata come una moderna, innovativa ristrutturazione di governance. Lo so… è una bugia. Ma vedi, il giudice non potrà dirmelo. Lo sancisce la legge. Il giudice potrà solo verificare la “manifesta insussistenza” della giusta causa. Questa è la condizione scritta nella legge per il reintegro. Ma qui di “manifesto” non c’è un cazzo. E’ tutto motivato, tutto scritto, ci sono le cifre. E se prima quelle toghe rosse potevano venirmi a fare le pulci sul fatto che licenziare un negro a caso non aveva niente a che vedere con la ristrutturazione aziendale, adesso non possono mica dire nulla. Ci sono le tabelle. C’è tutto. La giusta causa, la racconto io. La giusta causa, è la mia. Ed è l’unica valida per la Legge. E la Legge, negretto di merda, è lo Stato. E lo Stato, puttanella comunista, è più forte di Dio, dei Power Rangers e persino della Merkel.

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Giovane italiano di 22 anni, studente di materie umanistiche, mediamente interessato alla cultura e alla politica del suo tempo. E’ l’identikit della depressione post-ideologica. Una volta ho visto una puntata di Ballarò su questo target. Protagonista di un servizio bello lungo era una giovane studentessa laureata in Lettere (ovvio!) a Roma col massimo dei voti (altrettanto ovvio!), disoccupata (ovvio!), nullafacente (ovvio!), rifiutata nei colloqui di lavoro (ovvio!) nonostante le sue grandi doti intellettuali (ovvio!). La frase neorealista del servizio era: “mi sveglio tutti i giorni a mezzogiorno e cerco lavoro su inernet”. Ecco, la nostra generazione c’ha questa immagine in testa. Siamo già depressi. Siamo disillusi, convinti che nulla ci possa – ormai – scalfire.

E invece… vedi che questo grande paese ti riserva sempre una sorpresa? Che la frontiera della tristezza è sempre un po’ più in là di quanto pensi?

***

Funziona così.

Ti svegli un giorno di febbraio e scopri che qualcuno che parla come un robot vuole cancellare l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori. Una tizia piena di rughe, della tua città, stronza come pochi, con quella litania vocale da serial killer da film di Dario Argento, sostiene che non ci sono cazzi: lo cancellano davvero. Perché? “Perché è giusto così, che domande!”

Ti svegli un giorno di marzo e senti che quel tipo con l’accento da gnocco fritto e il toscanello nelle labbra (perché l’immagine è tutto; in mancanza di cervello / meglio un toscanello) promette dura opposizione, che no pasaràn, che possiamo stare tranquilli. Anche l’altra, quella bassa e brutta che fa la sindacalista, ammonisce dure iniziative popolari. Eddaje, Susà! Daje! Famo casino!

Poi ti svegli un giorno d’aprile, in dopo sbronza, sei incazzato con te stesso ché stai male dalla sera prima, accendi il pc, ti fai un caffè e rolli una sigaretta. Non stai bene, fisicamente; moralmente aspetti i prossimi dieci minuti di news fitte fitte che bisogna valutare bene il proprio umore a seconda dei giorni (non si deve essere tristi senza motivo). Click – repubblica.it – click – ilmanifesto.it – click – corriere.it. Adesso sei sveglio. E scopri che alla fine l’articolo 18 lo eliminano davvero.

***

La mia prima manifestazione nazionale a Roma fu contro l’eliminazione dell’Articolo 18. Era quella grande, con milioni di persone, che manco si passava al Circo Massimo. Marzo 2002. C’era Cofferati, che poi divenne uno un po’ stronzo, ma che mio zio ex-Lotta Comunista definiva il “leoncino”. E se lo diceva mio zio, ch’era mezzo bombarolo, vuol dire che era un tipo a posto. Avevo 11 anni. Che svacco quel treno! Ma quanta gente. Alla fine l’avevamo pure spuntata. Mi ricordo di amici e compagni, militanti di vario tipo, che mi dicevano: “la CGIL s’è bruciata tutti i soldi che aveva per fare sta manifestazione, coi treni, con gli autobus…” c’erano pure i panini e le cioccolate e le acque minerali.

***

Lo eliminano. E già sei arrabbiato.

Poi leggi meglio, e scopri che il tizio col sigaro dello gnocco fritto è contento, perché l’hanno spuntata loro, quelli che… il riformismo. E’ contenta anche la tipa brutta e bassa con le sembianze da cocker. Perché alla fine c’è scritto, nero su bianco, “reintegro”!

A questo punto non sei più incazzato. Sei solo frastornato.

***

Immagina che un enorme pugile tenti di stuprarti. Hai perso tutte le speranze di fuggire e salvarti dal destino infame e penetrante. Improvvisamente spunta un poliziotto. A quel punto, sollevato, chiedi aiuto; ma invece di salvarti, lo sbirro prende il manganello e passandolo con gusto al pugile dice: “sputaci sopra, che entra meglio”. E’ quell’emozione lì.

***

Non è ancora finita. Continui a leggere, accendi la TV (cosa che non fai mai) e lasci RaiNews su per ore e ore; e succedono tre cose.

Prima di tutto, la donnina da chihuahua e cocaina che gestisce Confindustria dice che secondo loro questa riforma è una fregatura, che così non basta mica, ci vuole la frusta coi lavoratori sennò quelli si fanno strane idee.

Poi, il robot inaugura un progetto europeo a Pompei. E per rimanere nel tema “rovine della nostra civiltà”, non si lascia sfuggire un commento: è inutile che gli industriali e le donnine da chihuahua e cocaina protestino, perché tanto non si sono accorti che il reintegro è ormai un ricordo, non succederà mai, basta stare accorti coi giudici e pagare gli avvocati. Emma, dai, non fare le bizze!

E infine, il grande P. Ichino, giuslavorista e campione nazionale di strip-tease padronale, rilascia un’intervista a Il Sole 24 Ore:

“è la prima volta in quarant’anni che viene apportata una correzione in questo senso all’articolo 18. Certo, è un passo più piccolo di quello che sarebbe stato possibile, se tutte le forze politiche avessero cooperato per il passaggio del nostro mercato del lavoro dal vecchio modello arretrato, caratterizzato da un marcato dualismo fra protetti e non protetti, a un modello nuovo, più efficiente ed inclusivo”

***

Forse esiste un punto della razionalità umana che, semplicemente, non può essere sorpassato per ragioni genetico-biologiche. Giunti ad una certa soglia, non esistono più parole, metafore o aneddoti in grado di esprimere ciò che si prova di fronte agli avvenimenti del mondo e ai comportamenti degli altri esseri umani.

Non c’è storiella divertente, battutina su Ichino e sui suoi orifizi, su Bersani e il suo cervello palesemente in fuga da anni, su Camusso e Marcegaglia o Monti o Fornero in grado di spezzare la tragicità degli eventi e rilanciare a speranza futura.

E’ lo zero comico. Il punto d’arrivo e d’arresto della satira. E’ Tafazzi. E’ lui il nostro unico e possibile eroe, di questi tempi. Avevano ragione Aldo, Giovanni e Giacomo.

Tafazzi è il nostro Che. Speriamo non lo uccidano in Bolivia.

*Golia Magro è ricercatore precario di Sociologia Economica all’Università degli Studi di Pordenone. Il suo ultimo libro è “Weber e le Diseguaglianze di Classe: uno studio comparativo”.

Standard and Poor’s declassa Roma 3

aprile 7, 2012 § Lascia un commento

Scioccante decisione dell’agenzia di rating Standard and Poor’s che, nella giornata di ieri, ha annunciato di aver declassato il giudizio sui titoli dell’università Roma 3 da A++ ad A. Per rassicurare i mercati, il C.d.A. dell’ateneo ha annunciato l’immediata espulsione di tutti i fuoricorso nonostante la ferma opposizione degli studenti del terzo polo (universitario).
Ha colto l’occasione una cordata guidata da Unicredit che ha subito annunciato l’apertura di una nuova università presso l’outlet di Valmontone; ancora non si sa se il nuovo polo si chiamerà Università C.R.T. (Ciao Roma Tre) o Roma 4 S.p.A..
Intervistato da un quotidiano locale, il rettore dell’università di Catania dichiara: “non temiamo la concorrenza, per rassicurare i nostri clienti abbasseremo ulteriormente la qualità dell’offerta formativa.”.
Malgrado questo scossone, grazie alla risalita dell’euro, tengono bene i titoli nostrani: La Sapienza resta stabile a quota 0.6 Ph.D Yale, risale a 0.47 il Politecnico di Torino, in leggera flessione la Bocconi a causa dell’improvvisa carenza di docenti dopo l’ultimo aumenti dei ministeri del governassimo.
In crescita esponenziale i titoli delle università inglesi dopo l’aumento delle rette e il dimezzamento degli iscritti: la strategia congiunta con i petrolieri del Quait per affamare la domanda e far salire i prezzi comincia a dare i suoi frutti. Non sapendo come reagire a questa contingenza i mercati mimano una rassicurata tensione con sopracciglio alzato.
Procedono intanto le manovre di Austerity al San Raffaele, ormai commissariato dopo la sfilza di suicidi tra i membri del Consiglio di Amministrazione. Per sbloccare i prestiti del F.M.I. La Troika ha imposto la vendita della famosa cupola a un interessatissimo magnate giapponese che ha già inviato gli elicotteri per il trasferimento. Misura inaccettabile per studenti e professori che si sono scontrati anche oggi con le forze dell’ordine.
Il leader della protesta, Massimo Cacciari, dichiara: “ci sentiamo vicini ai compagni di Piazza Syntagma”. Credendo di parlare di un collettivo di linguisti.

Kollettivo Automatizzato Anvur

HVALA, TITO!

aprile 6, 2012 § 1 Commento

Cronache di una vita slava mancata, trascorsa per lo più sulla sponda sbagliata dell’Adriatico. Perché l’ex-Jugoslavia è la prima ex che la mia generazione abbia avuto.

Ricordo ancora bene il mio debutto letterario, se così vogliamo chiamarlo. Erano gli anni in cui, finalmente, anche gli ottusi cronisti del tg1 cominciavano ad interessarsi di quello che accadeva sull’altra sponda dell’Adriatico. Certo, perché la notizia entrasse nelle coscienze e nelle case degli italiani, la guerra civile jugoslava doveva trasformarsi in un conflitto internazionale. Il mio immaginario di bambino venne contagiato da quelle scene, verdi di raid notturni e bombardamenti e da quei caschi blu, con quella bella scritta bianca “U. N.”. Contate che in casa mia non si è mai saltato l’appuntamento con il telegiornale. Non che i miei fossero mai stati grandi appassionati di politica, anzi, però la guerra è la guerra e ci tenevano che, in qualche modo, mio fratello e io capissimo quanto fossimo bambini fortunati, specie rispetto a quei bambini che perdevano piedi, addirittura gambe, facendo esplodere, giocando nei campi, le famigerate mineantiuomo. Che poi avrebbero dovuto chiamarsi antibambino, perché i bambini ne erano per lo più vittime. Ma forse un nome tanto crudele non era adatto ad un prodotto della cui prodizione l’Italia era, e restò a lungo, leader indiscusso.
Nella mia mente di bambino la Jugoslavia era un luogo misterioso e magico, indissolubilmente legato all’impresa che valse a mio zio una foto e un articolo su un giornale di motociclismo amatoriale: “Torino – Sarajevo in due su una vespa”. E ora in quella città lontanissima ma vicina, che se raggiungevi potevi finire anche sui giornali, era scoppiata la guerra.
Quando iniziò l’assedio di Sarajevo il 5 aprile 1992 avevo 6 anni non compiuti e ne avevo 8 e mezzo quando i caschi blu presero in mano le sorti del conflitto. Mi venne abbastanza naturale svolgere il tema assegnatomi dalla maestra. Il tema piacque tanto alla mia maestra, e piacque molto anche a mia madre. Non so chi dei due lo decise, ma venne poi pubblicato sul giornale del mio Paese. Mia nonna molto orgogliosa ne comprò diverse copie.
Ricordo ancora abbastanza bene quei giorni. Finiti i compiti mia madre mi disse che avrei dovuto scrivere il tema sui bambini jugoslavi in bella. No mamma, l’ho già scritto sul quaderno blu. Ma questa bella era destinata a qualcosa di diverso, mi spiegò mia madre, tirando fuori un foglio protocollo. Io non avevo mai scritto su un foglio protocollo, avevo solo conosciuto fogli sparsi e quaderni per i compiti. Quella era una cosa da grandi, da ragazzi che avevano l’età di mio fratello almeno. Non capii cosa sarebbe succeso finché non mi venne spiegato che la maestra Elena l’avrebbe poi portato al “giornale”.
Provai un misto di emozioni. Orgoglio, certo; i bambini sanno essere molto orgogliosi. Però anche stupore. Non capivo perché il mio tema piacesse tanto: in fondo avevo scritto quello che avevano scritto tutti gli altri bambini e che avrebbe scritto chiunque altro. La guerra è brutta, i bambini non devono morire, le mine antiuomo sono una cosa cattiva perché vengono raccolte dai bambini che giocano, cose così. Forse era solo la versione “8 anni” di incomprensioni tra pubblico, critica e autore, però, davvero, avevo scritto “pensierini” più originali, raccontini e altre cose di cui andavo più orgoglioso. Però la soddisfazione di passare al foglio protocollo e alla cartellina trasparente mi comprarono definitivamente. Ah, i compromessi che ogni aspirante scribacchino, anche a 8 anni, deve accettare! Come segno di non piegamento totale alle logiche del mercato giornalistico, imposi l’inchiostro verde invece di quello blu.
Poi, così come erano scoppiate improvvisamente, la guerra e la mia carriera giornalistica finirono. I politici di quegli anni (che sono gli stessi di questi) e quanti contro ogni logica avevano parlato di guerre giuste, bombe che uccidevano solo i cattivi e altre disgraziate invenzioni la cui falsità era evidente a un bambino di 8 anni ma non a loro, smisero di parlare di Sarajevo e si occuparono di altro. Calcio e benzina, per lo più.
Il conflitto ritornò nella mia vita qualche anno dopo. Facevo seconda o terza media e nel mio Paese si trasferì un ragazzo più grande di me di qualche anno, ma finito nella nostra scuola e non alle superiori per il suo scarsissimo italiano. Era serbo.
Ora non so come ve lo immaginavate voi un serbo in seconda media, ma io non ci avevo forse mai pensato abbastanza o più probabilmente ero solo ignorante. Comunque un serbo e un arabo erano due cose diverse. L’arabo è quello scuro di pelle musulmano, il serbo è quello biondo, con la faccia da slavo (cosa alla quale ci stavamo abituando anche in provincia, nella seconda metà degli anni 90). Invece questo ragazzo altissimo, con due spalle robuste e la timidezza di chi non parla e non capisce cosa gli viene detto, in mensa non mangiava il prosciutto e aveva un nome decisamente musulmano. Avevo anche un compagno metà egiziano il cui padre era musulmano, ma cavolo, era egiziano, non serbo. Non mi stupiva come mi stupiva questa famiglia di musulmani dell’est.
L’arrivo di Ahmed a scuola fu davvero un evento: le ragazze lo guardavano come non guardavano di sicuro i miei compagni, ma difficilmente gli rivolgevano la parola e se lo facevano non erano quasi mai parole gentili. Non so perché, ma su Ahmed si abbattè tutto la xenofobia che non si era mai abbattuta tra quelli della nostra età. I ragazzi più grandi si erano già divisi tra fascisti, anarchici, comunisti. Litigavano, facevano a botte qualche volta e spesso discutevano. Ma fino ad allora noi c’eravamo tenuti lontano da “A” cerchiate, falci e martelli e croci celtiche. Non so ancora spiegarmi se fu l’arrivo di Ahmed davvero, o eravamo diventati i ragazzi grandi anche noi, però quell’anno qualcosa cambiò.
Forse perché era più grande, forse perché era bello. L’imperativo che girava tra le ragazze era che chi si faceva una storia con lui, era una troia. I ragazzi, che all’inizio lo invitavano a giocare a calcio con loro, cominciarono prima a non chiamarlo più, poi ad escluderlo e poi ad insultarlo più o meno apertamente. Non ho mai saputo bene il perché di questo cambiamento, ma credo che come da miglior tradizione eteromachista, tutto fosse iniziato per qualche ragazza.
Comunque degenerò abbastanza in fretta e nei diari e sui quaderni cominciarono a comparire svastiche, scritte in tedesco che nessuno sapeva leggere e qualche sparutissimo “w il cominismo e l’anarchia”, che per me e per i miei amici, erano ancora la stessa cosa. La tensione si faceva sempre più calda, e la nostra professoressa di italiano, storia e geografia si sentì in dovere di insegnarci qualcosa sulla questione balcanica.
Non so voi, ma io ho sempre provato molta invidia per i nostalgici del PCI, per i marxisti vecchio stile. Vorrei avere le loro certezze dogmatiche, la loro inaccessibile sicurezza nei giudizi storici. Ore di lezione dove sfilavano macedoni, turchi (sì, con mio sommo stupore apparvero i turchi, forse Ahmed non era davvero serbo, era solamente l’ultimo ottomano), sloveni di Slovenia e sloveni di Slavonia, che era poi la romana Pannonia, croati, serbi, cattolici, ebrei, ortodossi e mussulmani per giungere alla conclusione che a un certo punto della storia venne un uomo che aveva riunito tutti gli Slavi del Sud nella Jugoslavia e che aveva tenuto tutti i bambini litigiosi uniti come fratelli. Era un po’ un nonno buono, questo Tito, e alla sua morte i parenti ingrati avevano cominciato a litigare. Potete pensare che me lo stia inventando ora, ma la professoressa usò davvero la metafora del nonno buono per descrivere Tito. I miei compagni che si dichiaravano fascisti probabilmente non sapevano molto di foibe e violenze consumatesi negli anni a Trieste – Trst, insensatamente compiute a danno di civili italiani e sloveni da entrambi i regimi, e nessuno ebbe da obiettare qualcosa su un generale che in realtà era un nonno gentile.
Volli vederci un po’ più chiaro, andai in biblioteca e chiesi alla bibliotecaria un aiuto. Finii divorato dal succedersi di date e imperi e il mio interesse storiografico per l’impero turco-ottomano durò un sabato. Credo nemmeno tutto il sabato, perché in quegli anni dalle 4 alle 6 di sabato provavo con la mia prima band e la biblioteca chiudeva per pranzo.
Di nuovo la Jugoslavia, come era comparsa, scomparì, si inabissò per svariati anni. Era ormai un nome vecchio, smembrato in tanti nomi diversi e se veniva nominato era sempre preceduto dalla particella “ex”.
Fino all’anno in cui andai in vacanza per la prima volta in Croazia, con gli amici. Macchina, tenda, sacchi a pelo, isole dai nomi impronunciabili. Spiagge e scogli, non sabbia e cemento. Mercati dove paprika vuol dire peperone e peperone non vuol dire niente, dove mediča non significa dottoressa, ma grappa aromattizzata al miele (med). Mi ripromisi di tornare a casa e cominciare a studiare la storia dei balcani, ancora una volta. Volevo, dovevo, capirci di più.
Avevo incontrato durante quelle vacanze in campeggio una giovane coppia, neosposini, bosniaci. Parlavano un inglese con un accento veramente affascinante, che ti costringeva all’ascolto ad ogni “th”, pronunciato tra i denti come una “z” stanca. Avevano il camper e diventammo amici perché gli rubavamo l’elettricità per la lampadina. Era bello pensare che dopo tanto tempo dei bosniaci potessero fare delle vacanze su un’isola croata di Korčula. Si sarebbero fermati lì una settimana e poi avrebbero raggiunto la città vicino a Zagreb di dove era originaria lei. E da dove lei non metteva più piede da quando era bambina.
Con racconti come questi in testa mi buttai nella letteratura e nella storia dei balcani, ma, solo ora che comincio ad essere vecchio anche io, capisco perché il mio tema di bambino di 8 anni avesse entusiasmato tanto maestre e parenti. In fondo tutto quello che dovevo sapere sui conflitti balcanici, e sui conflitti in generale, lo sapevo già a 8 anni.

“Ma la violenza non è una bestia invisibile, ha pure lei dei punti deboli: l’amicizia, la calma, la ragione, ottime medicine per questa brutta malattia.”

Pivo Andrić, 8 anni.
Fotografia: Federica Peyronel

Quando i tifosi della Juve cantano

aprile 4, 2012 § 3 commenti

Niente da fare. La Juve segna il terzo gol. È finita.

Non si recupera un tre a zero, a Torino.

Una domenica di inizio aprile da cancellare.

Il Napoli, poi, è un ombra di azzurro stinto e affaticato. Resto sul divano – la schiena appoggiata contro i cuscini e le mani strette fra le ginocchia – mentre la rabbia si scolora in rassegnazione. Potrei spegnere il televisore, in fondo mancano dieci minuti. Spegnerlo e porre fine all’agonia. Ma lo sconforto limita ogni mio movimento: appiccico uno sguardo passivo al manto verde.

Poi accade. Tutto lo stadio canta ‘O surdato ‘nnamurato. Migliaia di voci si insinuano fra le parole dei due telecronisti.

I tifosi della Juve cantano l’inno del Napoli.

Per scherno.

*

Prima guerra mondiale, in trincea. Un soldato rievoca la sua donna. Con il pensiero vola verso di lei. Niente vuole e niente spera, se non tenerla per sempre al suo fianco.

*

Istruzioni per l’uso dell’articolo: i pezzi vanno montati insieme, manca un ordine stabilito. Se fra le righe si nasconde un senso, solo il lettore può recuperarlo. Malgrado l’inzio, questo non è un articolo di calcio.

Non voglio architettare agguati contro la Juve e i suoi tifosi.

Se desiderassi compiangere il Napoli, lo farei in privato.

In gioco c’è altro.

Ammetto, sì, che la sconfitta brucia ancora.

*

‘O surdato ‘nnamurato. Tutto lo stadio, a Napoli, canta il canto del soldato innamorato in guerra. Lo intonano quando la partita finisce e la squadra ha vinto. Il Napoli ha battuto il Manchester City e le curve e le tribune rincorrono la melodia, le parole. Gli spalti son tinti d’azzurro, ed è sera inoltrata.

Poi chissà, torna la mattina e il cemento della metropoli afferra gli occhi e le narici.

*

Nel 2002 il Torino sta vincendo contro la Juve. Alla fine del secondo tempo Maresca, centrocampista bianconero, colpisce di testa e pareggia. Esulta, corre verso la curva dei tifosi del Torino e imita le movenze di un toro. Le dita tese verso il cielo diventano delle corna, i polsi restano attaccati alle tempie. La sua sgroppata scarta repentina a destra, poi a sinistra. Maresca si toglie la maglia e ripete la scena. Sorride. Il toro è il simbolo della squadra avversaria.

Un’imitazione.

Per scherno.

*

Oje vita, oje vita mia…

Oje cor ‘e chistu core…

Si’ stata ‘o primmo ammore…

E ‘o primmo e ll’ùrdemo sarraje pe’ me!

Non c’è dubbio che la Juve abbia giocato meglio. Perché appropriarsi della canzone del soldato?

*

«Nei primi anni sessanta, a causa dell’inquinamento dell’aria, e, soprattutto, in campagna, a causa dell’inquinamento dell’acqua (gli azzurri fiumi e le rogge trasparenti) sono cominciate a scomparire le lucciole. Il fenomeno è stato fulmineo e folgorante. Dopo pochi anni le lucciole non c’erano più.»

Di sfuggita – perché il punto è un altro! – suggerisco di notare il color dei fiumi.

*

Torino è la città dell’automobile, la capitale degli operai. La famiglia Agnelli è proprietaria della Juve. La squadra dei padroni, dicono i tifosi delle altre squadre. I tifosi di sinistra.

Ma la Juve era anche la squadra amata dai migranti che dall’Italia meridionale si spostavano per cercare lavoro a Torino. La squadra degli operai.

Oggi, la Juve, è squadra di chi?

*

È lunedì, che

delusione

tornare in fabbrica

a servire il tuo

padrone

Oh! Juventino!

Succhiapiselli

di tutta quanta la famiglia

Agnelli.

Altre versioni riportano: ciucciapiselli.

*

Da tante notti non ti vedo, non ti sento fra queste braccia. Non ti bacio il volto. Mi risveglio dai sogni e mi vien da piangere per te.

*

«Chilometri di catrame, di strade enormi che in pochi minuti ti portano fuori da questo territorio per spingerti sull’autostrada verso Roma, dritto verso nord. Strade fatte non per auto ma per camion, non per spostare cittadini ma per trasportare vestiti, scarpe, borse. Venendo da Napoli questi paesi spuntano d’improvviso, ficcati nella terra uno accanto all’altro. Grumi di cemento. Le strade che si annodano ai lati di una retta su cui si avvicendano senza soluzione di continuità Casavatore, Caivano, Sant’Antimo, Melito, Arzano, Piscinola, San Pietro a Patierno, Frattamaggiore, Frattaminore, Grumo Nevano. Grovigli di strade. Paesi senza differenze che sembrano un’unica grande città. Strade che per metà sono un paese e per l’altra metà ne sono un altro.» R. Saviano, Gomorra.

Cosa si canta, nel mezzo del cemento di Scampia? A Frattamaggiore?

*

Forse è la squadra di chi ha perso i propri segni lungo la strada, di chi li ha persi in fabbrica, di chi li ha persi in un presente orfano di futuro.

Il mondo si è scolorito i fumi delle fabbriche hanno rubato i colori il mondo ora è nerobianco e nel bianconero le lucciole non si vedono più.

*

Scrivi sempre che sei felice, io non penso che a te. L’unico pensiero che mi consola: che tu pensi sempre a me. Se c’è donna, al mondo, che è la più bella fra le belle donne del mondo quella donna più bella del mondo non è bella quanto te.

*

Di nuovo sulle lucciole (scomparse):

«In Italia sta succedendo qualcosa di simile: e con ancora maggior violenza, poiché l’industrializzazione degli anni settanta costituisce una mutazione decisiva. Gli italiani sono divenuti in pochi anni un popolo degenerato, ridicolo, mostruoso, criminale. Basta soltanto uscire in strada per capirlo. Ma, naturalmente, per capire i cambiamenti della gente, bisogna amarla. Io, purtroppo, questa gente italiana, l’avevo amata: sia al di fuori degli schemi del potere, sia al di fuori degli schemi populistici e umanitari. Si trattava di amore reale, radicato nel mio modo di essere. Ho visto dunque coi miei sensi il comportamento coatto del potere dei consumi ricreare e deformare la coscienza del popolo italiano, fino a una irreversibile degradazione.» P.P. Pasolini, Scritti corsari.

*

Nel centro storico di Napoli i vicoli sono così stretti che non c’è lo spazio per costruire un supermercato.

Resistono i piccoli negozi.

Qualche bottega di artigiano fa capolino.

*

Perché imitare? Imitare in mezzo al vuoto.

«Il trauma italiano del contatto tra l’arcaicità pluralistica e il livellamento industriale ha forse un solo precedente: la Germania prima di Hitler. Anche qui i valori delle diverse culture particolaristiche sono stati distrutti dalla violenta omologazione dell’industrializzazione: con la conseguente formazione di quelle enormi masse, non più antiche (contadine, artigiane) e non ancora moderne (borghesi), che hanno costituito il selvaggio, aberrante, imponderabile corpo delle truppe naziste.» P.P. Pasolini, Scritti corsari.

Ma Pasolini esagera sempre. Va letto di sbieco.

 

Franciaccio Migliesco

Una battaglia per immagini

aprile 2, 2012 § Lascia un commento

Sullo schermo la Fornero appare distesa a tratti e, ignorando le rughe che le segnano elegantemente il volto, senza mai guardare in camera, ci racconta un altro pezzo della favola, dipinge un’altra porzione dell’affresco che la legittima, che legittima in misura sacrale i tecnici di cui si gloria di fare parte. La ministra del welfare e delle politiche sociali giustifica il proprio lavoro da macellaio contrapponendolo a quello dei venditori di caramelle che eravamo abituati a chiamare politici, giocando sul campo semantico ma ancora maggiormente sul meccanismo vecchio di millenni del capro espiatorio, per il quale chi non ha argomenti di difesa rilancia sull’altrui offesa. Denunciando la pericolosità di provvedimenti antisociali promossi soffiando sul fuoco della sfiducia nella politica e della contrapposizione ai meccanismi di legittimazione democratica, occorre considerare che prima o poi gli italiani torneranno al voto, dovendosi confrontare con il sistema della democrazia rappresentativa oggi infangato con la ferocia degli slogan e delle immagini promosse tanto dai celebrati tecnici quanto dal concerto dei media.
Proprio sulle immagini, sulle rappresentazioni, su una narrazione che non lascia elementi al caso si gioca la legittimazione dell’esecutivo guidato da Mario Monti che da questo meccanismo ha mutuato anche l’approccio alla riforma del lavoro, fatto di un dibattito arricchito nella forma e svilito nella sostanza dei provvedimenti adottati.
Il premier ha cominciato da subito, avendo deciso di chiudere la partita entro marzo, con una sparata degna del suo predecessore, la cui pochezza regala oggi tanta popolarità ai professori stessi. Senza allontanarsi minimamente dal pessimo senso dell’umorismo berlusconiano, a gennaio Monti definiva “monotono” il posto fisso, assestando il primo colpo di accetta su quel soggetto sociale, il lavoro, già messo in ginocchio in un paese che manca da trent’anni di un piano industriale diffuso e da venti vive il moltiplicarsi delle forme contrattuali ed il conseguente dilagare della piaga precarietà.
Piaga che l’esecutivo Monti aveva promesso, nelle parole materne del ministro Fornero, di estirpare introducendo un altro insopportabile ritornello della propria azione di governo. La contrapposizione tra giovani e meno giovani, il dualismo tra garantiti e non, è stato presentato fin da subito come uno delle principali inadeguatezze del sistema italiano che il governo Monti si proponeva di eliminare. Non risulta affatto sorprendente scoprire oggi come le 46 tipologie contrattuali che rendono il mercato del lavoro italiano tanto precario non vengano minimamente toccate dalla riforma dei tecnici che impongono invece il livellamento delle tutele verso il basso, aumentando la flessibilità in uscita, mutilando l’articolo 18.
Che non sia questo passaggio fondamentale dello statuto dei lavoratori a frenare gli investitori esteri rispetto ad interventi nel nostro paese appare evidente anche al leader designato di Confindustria Giorgio Squinzi che spiega al “Sole 24 Ore” come siano piuttosto “la burocrazia, il costo dell’energia, la mancanza di infrastrutture” a frenare il Paese. Viene allora naturale chiedersi per chi l’articolo 18 rappresenti un totem e chi lo veda piuttosto come un presidio fondamentale di dignità e giustizia. Accanendovisi in modo così deciso i tecnici hanno dato un segnale molto forte, hanno firmato una dichiarazione di intenti molto chiara: ripercorrere a gambero gli ultimi cinquant’anni di storia partendo dal cuore delle tutele ai lavoratori dipendenti.
La mente torna allora beffarda al mantra supremo recitato dal governo dei tecnici, quell’equità che risulta ad oggi ancora assente nell’operato di quest’ultimo rendendo sempre più concreto il rischio di una frattura in quel patto sociale che i professori si erano ripromessi di tutelare: una riforma portata avanti accordando la priorità al responso dell’Europa piuttosto che all’opinione di coloro che vedranno la propria vita condizionata da tali provvedimenti non può che segnalare l’apertura di una fase delicata che, se gestita con tanta miopia ed irresponsabilità (proprio da chi ci richiama alla responsabilità), porterà a fratture difficilmente sanabili nel paese.

Girlson Film
Foto: Federica Peyronel

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