Omosessuali scontenti? Malati no, disabili sì.

aprile 13, 2012 § Lascia un commento

Come spigare all’Inps perché in Italia gli omosessuali e i bisessuali meritano l’unica pensione della loro vita.

ICD9 non è il nuovo tipo di lacrimogeno cancerogeno a disposizione delle forze dell’ordine in Val di Susa, ma lo strumento diagnostico che assegna a ogni patologia o condizione di interesse medico un codice di lettere e numeri. In base a questo codice si può sapere se si tratta di una patologia psichiatria piuttosto che cardiaca. Ad esempio ICD “K “sono tutte le patologie dell’apparato digerente, ICD “A” e “B” tutte le infezioni di virus e microrganismi vari.
Proprio per la sua ateoreticità (la sua stesura e tutte le sue revisioni sono dell’Organizzazione Mondiale della Sanità) e praticità, è lo strumento usato nelle unità di valutazione handicap come in tutte le commissioni pubbliche che certificano inabilità al lavoro, indennizzi per incidenti ecc…
Niente di strano fino a qua; ma perché questo tomo di svariate pagine e dal nome da androide di George Lucas è tornato alla ribalta?
Nessuno se ne è accorto, per anni, ma in questo strumento utilizzato quotidianamente dai medici di tutta Italia è ancora presente l’omosessualità, capitolo V lettera F, patologie psichiatriche. Quando gli attivisti del movimento GLBT l’hanno scoperto e l’hanno fatto notare, funzionari del ministero e delle ASL di tutta Italia, increduli, sono andati a controllare e verificare. È vero: se per i manuali di psicopatologia comunemente usati per le diagnosi psichiatriche l’omosessualità non è più una malattia, e da diverso tempo ormai, per il manuale di certificazione delle disabilità non è lo stesso. Per lo Stato, insomma, gli omosessuali magari non sono proprio malati. Ma disabili, sì.
Come è possibile?
C’è da chiarire che l’ICD è arrivato alla sua decima revisione. Il lavoro di riscrittura è iniziato nel 1983, con diverse pubblicazioni che attestavano lo stato dei lavori e le novità di classificazione diagnostica apportate, ed è stato completato nel lontano 1992. Questa edizione ha ampiamente accolto le criticità dei movimenti GLBT e delle associazioni psichiatriche di tutto il mondo, e l’orientamento sessuale non è mai né diagnosi, né criterio diagnostico per qualche psicopatologia.
1992.
Nel 1992 la nazionale italiana era ancora ferma a 3 mondiali vinti, per dire.
Non che i medici non sappiano che sia uscita una nuova edizione dell’ICD; lo sanno bene e la utilizzano anche come testo di riferimento diagnostico. Contraddizione tutta nostrana: le patologie psichiatriche vengono diagnosticate anche in base ai criteri ICD10 (motivo per cui nessuno fa più diagnosi di omosessualità egodistonica), ma le pensioni percepite dai pazienti psichiatrici vengono date in base all’ICD9. Questo perché nessuno in 20 anni si è mai preoccupato di convertire i criteri di assegnazione degli assegni di accompagnamento, invalidità e disabilità in base alla nuova classificazione. Pigrizia, immobilismo e burocrazia, insomma, rendono tutti gli omosessuali per lo Stato Italiano soggetti clinicamente sani, ma potenzialmente aventi diritto a una pensione. Cosa che negli ultimi tempi non è da tutti.
L’adozione del “nuovo” testo, come la chiama il Ministro, che definirebbe la mia camicia anni 80 comprata in un second hand shop ad Amsterdam, sotto chiaro effetto psicotropo, come “non così vecchia”, non è nelle priorità dei lavori del Ministero. Per cui abbiamo tutti un sacco di tempo per recarci all’INPS e chiedere di percepire la nostra pensione da omosessuali egodistonici.
Ora va spiegato un attimo questo concetto di egodistonia e del perché sia stato superato dal progredire delle conoscenze sulla psicopatologia sessuale.
L’omosessuale egodistonico distingue molto bene i colori, contrariamente al suo cugino daltonico, ma non è in sintonia con il proprio orientamento sessuale. Non vuol dire niente di particolarmente sensato, ma si intendeva: è gay, lesbica o bisessuale ma soffre di questa condizione.
I motivi di non accettazione di quello che si è possono essere svariati. Si è visto però che spesso sono riflesso di condizioni esistenti fuori dall’individuo, nei giudizi nella società e nei valori culturali della comunità dove il nostro omosessuale o bisessuale scontento vive, salvo rari casi dove questo disagio sottende altri disagi psichici clinicamente obiettivabili come stati depressivi, problemi di personalità ecc… Insomma non è tanto l’omosessualità o la bisessualità la malattia, ma l’omofobia che rende tale condizione motivo di stress psicologico.
Però aggiornare i criteri con cui vengono certificate le pensioni non è priorità del Ministro, per cui ci teniamo l’ICD9 che passare all’ICD10 è faticoso. E poi rischiamo di dover passare alll’ICD11 tra vent’anni, e allora che senso avrà avuto tutto questo lavoro?
Uno può anche chiedersi come fa l’INPS a sapere l’orientamento e il livello di disagio che questo mi provoca.
Ho immaginato il mio colloquio con l’addetto gay scontenti della pubblica amministrazione.
Innanzitutto non c’è pericolo che metta in dubbio il mio orientamento sessuale: ho un blog dove carico quotidianamente i miei filmati porno, e che riceve anche 1000 visite al giorno, che può testimoniarlo; e se proprio dovesse insistere ho il “limone facile” e non ho paura ad usarlo, soprattutto se questo è lo step necessario per ottenere l’unica pensione che, grazie al Ministro Fornero, probabilmente percepirò mai.
Poi gli porterei gli esempi di tutte quelle volte in cui è disagiante essere omosessuale. Allora, a Natale, quando tua nonna continua a martellarti con il solito ritornello della fidanzata e la vecchia tecnica “ubriaca la vecchia”, tramandata segretamente da generazioni, sembra non funzionare come dovrebbe. Sabato mattina scorso: credevo di essermi fermato a dormire da due centravanti di sfondamento della nazionale ungherese invece era la “over 65” di Canasta di Alba. Quando ho scoperto che il ragazzo a cui ho detto no un po’ di anni fa ora è diventato schifosamente ricco; e lui mi amava davvero e mi avrebbe mantenuto, non come lei signor impiegato dell’Inps che fa tutte queste storie per una pensione. Ma ora il riccastro mi odia e non mi offre nemmeno da bere il venerdì sera.
Quando scopro che in tv gli unici omosessuali che hanno spazio e diritto di parola sono Maggioglio (a cui voglio dire che le cotte per i calciatori si prendono a 14 anni, non a 70) e Signorini.
SIGNORINI, capito?! Non è un motivo valido per percepire una pensione?!
E se non fosse ancora convinto potrei portare un sacco di altri esempi: l’omosessualità mi procura disagio quando scopro che essere omosessuale è peccato, però mettere i propri soldi in banche che investono in armi e petrolio no. L’omosessualità mi crea un sacco di egodistonia quando so che se cerco lavoro sono discriminato, e le assicuro che per uno della mia età non è facile cercare lavoro già così. Ah certo, forse non per tutti i lavori, vero: volessi commentare come cantano ad Amici o cantare ad Amici sarebbe un requisito (chissà se esistono le pensioni per eterosessuali egodistonici che vorrebbero cantare da Maria de Filippi ma non possono…) ma se volessi insegnare in una scuola elementare, in un asilo o fare il pediatra…
Ma ciò che mi rende più egodistonico di tutti è scoprire che essere omosessuale mi crea più problemi nel mondo del lavoro, della ricerca universitaria e in tantissimi ambiti della vita comunitaria che se fossi fascista o leghista. E credo di meritarmi una pensione per questo.

Pivo Andrić
Fotografia: Mattia Sansoni

HVALA, TITO!

aprile 6, 2012 § 1 Commento

Cronache di una vita slava mancata, trascorsa per lo più sulla sponda sbagliata dell’Adriatico. Perché l’ex-Jugoslavia è la prima ex che la mia generazione abbia avuto.

Ricordo ancora bene il mio debutto letterario, se così vogliamo chiamarlo. Erano gli anni in cui, finalmente, anche gli ottusi cronisti del tg1 cominciavano ad interessarsi di quello che accadeva sull’altra sponda dell’Adriatico. Certo, perché la notizia entrasse nelle coscienze e nelle case degli italiani, la guerra civile jugoslava doveva trasformarsi in un conflitto internazionale. Il mio immaginario di bambino venne contagiato da quelle scene, verdi di raid notturni e bombardamenti e da quei caschi blu, con quella bella scritta bianca “U. N.”. Contate che in casa mia non si è mai saltato l’appuntamento con il telegiornale. Non che i miei fossero mai stati grandi appassionati di politica, anzi, però la guerra è la guerra e ci tenevano che, in qualche modo, mio fratello e io capissimo quanto fossimo bambini fortunati, specie rispetto a quei bambini che perdevano piedi, addirittura gambe, facendo esplodere, giocando nei campi, le famigerate mineantiuomo. Che poi avrebbero dovuto chiamarsi antibambino, perché i bambini ne erano per lo più vittime. Ma forse un nome tanto crudele non era adatto ad un prodotto della cui prodizione l’Italia era, e restò a lungo, leader indiscusso.
Nella mia mente di bambino la Jugoslavia era un luogo misterioso e magico, indissolubilmente legato all’impresa che valse a mio zio una foto e un articolo su un giornale di motociclismo amatoriale: “Torino – Sarajevo in due su una vespa”. E ora in quella città lontanissima ma vicina, che se raggiungevi potevi finire anche sui giornali, era scoppiata la guerra.
Quando iniziò l’assedio di Sarajevo il 5 aprile 1992 avevo 6 anni non compiuti e ne avevo 8 e mezzo quando i caschi blu presero in mano le sorti del conflitto. Mi venne abbastanza naturale svolgere il tema assegnatomi dalla maestra. Il tema piacque tanto alla mia maestra, e piacque molto anche a mia madre. Non so chi dei due lo decise, ma venne poi pubblicato sul giornale del mio Paese. Mia nonna molto orgogliosa ne comprò diverse copie.
Ricordo ancora abbastanza bene quei giorni. Finiti i compiti mia madre mi disse che avrei dovuto scrivere il tema sui bambini jugoslavi in bella. No mamma, l’ho già scritto sul quaderno blu. Ma questa bella era destinata a qualcosa di diverso, mi spiegò mia madre, tirando fuori un foglio protocollo. Io non avevo mai scritto su un foglio protocollo, avevo solo conosciuto fogli sparsi e quaderni per i compiti. Quella era una cosa da grandi, da ragazzi che avevano l’età di mio fratello almeno. Non capii cosa sarebbe succeso finché non mi venne spiegato che la maestra Elena l’avrebbe poi portato al “giornale”.
Provai un misto di emozioni. Orgoglio, certo; i bambini sanno essere molto orgogliosi. Però anche stupore. Non capivo perché il mio tema piacesse tanto: in fondo avevo scritto quello che avevano scritto tutti gli altri bambini e che avrebbe scritto chiunque altro. La guerra è brutta, i bambini non devono morire, le mine antiuomo sono una cosa cattiva perché vengono raccolte dai bambini che giocano, cose così. Forse era solo la versione “8 anni” di incomprensioni tra pubblico, critica e autore, però, davvero, avevo scritto “pensierini” più originali, raccontini e altre cose di cui andavo più orgoglioso. Però la soddisfazione di passare al foglio protocollo e alla cartellina trasparente mi comprarono definitivamente. Ah, i compromessi che ogni aspirante scribacchino, anche a 8 anni, deve accettare! Come segno di non piegamento totale alle logiche del mercato giornalistico, imposi l’inchiostro verde invece di quello blu.
Poi, così come erano scoppiate improvvisamente, la guerra e la mia carriera giornalistica finirono. I politici di quegli anni (che sono gli stessi di questi) e quanti contro ogni logica avevano parlato di guerre giuste, bombe che uccidevano solo i cattivi e altre disgraziate invenzioni la cui falsità era evidente a un bambino di 8 anni ma non a loro, smisero di parlare di Sarajevo e si occuparono di altro. Calcio e benzina, per lo più.
Il conflitto ritornò nella mia vita qualche anno dopo. Facevo seconda o terza media e nel mio Paese si trasferì un ragazzo più grande di me di qualche anno, ma finito nella nostra scuola e non alle superiori per il suo scarsissimo italiano. Era serbo.
Ora non so come ve lo immaginavate voi un serbo in seconda media, ma io non ci avevo forse mai pensato abbastanza o più probabilmente ero solo ignorante. Comunque un serbo e un arabo erano due cose diverse. L’arabo è quello scuro di pelle musulmano, il serbo è quello biondo, con la faccia da slavo (cosa alla quale ci stavamo abituando anche in provincia, nella seconda metà degli anni 90). Invece questo ragazzo altissimo, con due spalle robuste e la timidezza di chi non parla e non capisce cosa gli viene detto, in mensa non mangiava il prosciutto e aveva un nome decisamente musulmano. Avevo anche un compagno metà egiziano il cui padre era musulmano, ma cavolo, era egiziano, non serbo. Non mi stupiva come mi stupiva questa famiglia di musulmani dell’est.
L’arrivo di Ahmed a scuola fu davvero un evento: le ragazze lo guardavano come non guardavano di sicuro i miei compagni, ma difficilmente gli rivolgevano la parola e se lo facevano non erano quasi mai parole gentili. Non so perché, ma su Ahmed si abbattè tutto la xenofobia che non si era mai abbattuta tra quelli della nostra età. I ragazzi più grandi si erano già divisi tra fascisti, anarchici, comunisti. Litigavano, facevano a botte qualche volta e spesso discutevano. Ma fino ad allora noi c’eravamo tenuti lontano da “A” cerchiate, falci e martelli e croci celtiche. Non so ancora spiegarmi se fu l’arrivo di Ahmed davvero, o eravamo diventati i ragazzi grandi anche noi, però quell’anno qualcosa cambiò.
Forse perché era più grande, forse perché era bello. L’imperativo che girava tra le ragazze era che chi si faceva una storia con lui, era una troia. I ragazzi, che all’inizio lo invitavano a giocare a calcio con loro, cominciarono prima a non chiamarlo più, poi ad escluderlo e poi ad insultarlo più o meno apertamente. Non ho mai saputo bene il perché di questo cambiamento, ma credo che come da miglior tradizione eteromachista, tutto fosse iniziato per qualche ragazza.
Comunque degenerò abbastanza in fretta e nei diari e sui quaderni cominciarono a comparire svastiche, scritte in tedesco che nessuno sapeva leggere e qualche sparutissimo “w il cominismo e l’anarchia”, che per me e per i miei amici, erano ancora la stessa cosa. La tensione si faceva sempre più calda, e la nostra professoressa di italiano, storia e geografia si sentì in dovere di insegnarci qualcosa sulla questione balcanica.
Non so voi, ma io ho sempre provato molta invidia per i nostalgici del PCI, per i marxisti vecchio stile. Vorrei avere le loro certezze dogmatiche, la loro inaccessibile sicurezza nei giudizi storici. Ore di lezione dove sfilavano macedoni, turchi (sì, con mio sommo stupore apparvero i turchi, forse Ahmed non era davvero serbo, era solamente l’ultimo ottomano), sloveni di Slovenia e sloveni di Slavonia, che era poi la romana Pannonia, croati, serbi, cattolici, ebrei, ortodossi e mussulmani per giungere alla conclusione che a un certo punto della storia venne un uomo che aveva riunito tutti gli Slavi del Sud nella Jugoslavia e che aveva tenuto tutti i bambini litigiosi uniti come fratelli. Era un po’ un nonno buono, questo Tito, e alla sua morte i parenti ingrati avevano cominciato a litigare. Potete pensare che me lo stia inventando ora, ma la professoressa usò davvero la metafora del nonno buono per descrivere Tito. I miei compagni che si dichiaravano fascisti probabilmente non sapevano molto di foibe e violenze consumatesi negli anni a Trieste – Trst, insensatamente compiute a danno di civili italiani e sloveni da entrambi i regimi, e nessuno ebbe da obiettare qualcosa su un generale che in realtà era un nonno gentile.
Volli vederci un po’ più chiaro, andai in biblioteca e chiesi alla bibliotecaria un aiuto. Finii divorato dal succedersi di date e imperi e il mio interesse storiografico per l’impero turco-ottomano durò un sabato. Credo nemmeno tutto il sabato, perché in quegli anni dalle 4 alle 6 di sabato provavo con la mia prima band e la biblioteca chiudeva per pranzo.
Di nuovo la Jugoslavia, come era comparsa, scomparì, si inabissò per svariati anni. Era ormai un nome vecchio, smembrato in tanti nomi diversi e se veniva nominato era sempre preceduto dalla particella “ex”.
Fino all’anno in cui andai in vacanza per la prima volta in Croazia, con gli amici. Macchina, tenda, sacchi a pelo, isole dai nomi impronunciabili. Spiagge e scogli, non sabbia e cemento. Mercati dove paprika vuol dire peperone e peperone non vuol dire niente, dove mediča non significa dottoressa, ma grappa aromattizzata al miele (med). Mi ripromisi di tornare a casa e cominciare a studiare la storia dei balcani, ancora una volta. Volevo, dovevo, capirci di più.
Avevo incontrato durante quelle vacanze in campeggio una giovane coppia, neosposini, bosniaci. Parlavano un inglese con un accento veramente affascinante, che ti costringeva all’ascolto ad ogni “th”, pronunciato tra i denti come una “z” stanca. Avevano il camper e diventammo amici perché gli rubavamo l’elettricità per la lampadina. Era bello pensare che dopo tanto tempo dei bosniaci potessero fare delle vacanze su un’isola croata di Korčula. Si sarebbero fermati lì una settimana e poi avrebbero raggiunto la città vicino a Zagreb di dove era originaria lei. E da dove lei non metteva più piede da quando era bambina.
Con racconti come questi in testa mi buttai nella letteratura e nella storia dei balcani, ma, solo ora che comincio ad essere vecchio anche io, capisco perché il mio tema di bambino di 8 anni avesse entusiasmato tanto maestre e parenti. In fondo tutto quello che dovevo sapere sui conflitti balcanici, e sui conflitti in generale, lo sapevo già a 8 anni.

“Ma la violenza non è una bestia invisibile, ha pure lei dei punti deboli: l’amicizia, la calma, la ragione, ottime medicine per questa brutta malattia.”

Pivo Andrić, 8 anni.
Fotografia: Federica Peyronel

Santificare le feste: 8 marzo

marzo 8, 2012 § 3 commenti

Ricordati di santificare le feste. Se c’è un insegnamento biblico che la società consumistica ha fatto proprio, questo è di sicuro il terzo comandamento dell’Antico Testamento. Non c’è ricorrenza che non sia stata trasformata in una festa: qualcosa da segnare nei calendari, l’occasione per entrare nei negozi, nei ristoranti e nei cinema sostituendo “auguri” ai saluti. La festa dell’amore è la festa della cioccolata e dei fiorai; la nascita di Dio (o Babbo Natale, non ero bravo a catechismo) la festa dei bambini e dei giocattoli; la festa della donna fa la fortuna di spogliarellisti e, di nuovo, dei fortunatissimi fiorai. Che riescono anche a sbarcare il lunario quando si festeggiano i morti.
Viviamo in una società talmente felice che c’è una festa per tutto, insomma.

Ma l’8 marzo ha una storia diversa, che con la felicità dei manifesti pubblicitari giallo mimosa ha ben poco: una giornata di lotta, nata nel socialismo prerivoluzionario, dove le donne combattevano per un mondo migliore, più giusto, con più pace e diritti. Per tutti. Combattevano per salari, raprresentanza nelle fabbriche come nelle istituzioni, per il diritto ad eleggere ed essere elette. Dov’è finito l’8 marzo oggi? Perché le rivendicazioni femminili hanno lasciato il posto ai tanga argentati dei palestrati?

Se sei arrivato fin qui dandomi ragione, permettimi di dire che sei stupido. Puntualmente ogni 8 marzo mi tocca leggere analisi di questo tenore. Certo, il consumismo ha preso posto dei valori; e non ci sono più le mezze stagioni, a ricordare la vittoria del Capitale sulla natura umana ed atmosferica. Certo, la mimosa è la sublimazione dell’autodeterminazione, resa bene regalabile dall’uomo alla donna, voluta dai mercati che rispecchiano un’economia violenta, soprafattrice ed intrensicamente maschilista. E tutte quelle cose che postate sui vostri blog dai vostri mac e tablet, evidente beni rivoluzionari, avendo una mela morsicata stampata sopra, in accordo con il green marketing con cui le multinazionali vi fottonosempre.
L’8 marzo rimane, al di là di tutti i facili giudizi da intellettualoidi nostalgici del fervore dell’ottobre 1917, l’occasione in cui metà della popolazione si riappropria di se stessa. La metà che subisce violenze e discriminazioni negli ambienti di lavoro, in politica e in famiglia in tutto il mondo, tra l’altro. E a me questo già basta per ricordare le donne, lottare con le donne e festeggiare le donne.
Come ogni donna desideri vivere la sua festa è esente da ogni giudizio morale: al ristorante con le amiche, in discoteca tra cubisti ungheresi, o nei circoli arci a fumare sigari e parlando di femminismo, parlando per gli stereotipi che si leggono followandovi su twitter.
La realtà è fatta di ragazze e donne di ogni età che si riappropriano degli spazi sociali per fare quello che pare a loro, in barba agli analisti politici, agli scribacchini della rete (tra cui me stesso) e ai movimenti. Autodeterminate nella pratica dell’autodeterminazione, possono partecipare ai numerosi cortei che vengono organizzati ogni anno nelle più importanti città di Italia per proseguire poi la serata al ristorante con le amiche, servite e riverite da un cameriere cubano di un metro e ottantacinque per novanta chili di muscoli, vestito di solo papillon nero e shorts. Si tratta di diritto alla scelta anche questo. Il diritto che vogliamo difendere.

Nikolau Papa

Foto: Federica Peyronel

Coulin e Coulin – 17 filles (TFF 29)

novembre 28, 2011 § Lascia un commento

Seguirò il commento delle registe Coulin riguardo il loro film, e farò di volta in volta le mie considerazioni. Recupero il testo dalle righe presenti nel megalibrone del TFF dato in dotazione agli accreditati. “Nel momento un cui abbiamo sentito parlare di questa storia ci siamo rese conto che era intrigante.” Ecco. Intrigante. Intrigante perché? È intrigante il fatto che 17 adolescenti decidano di rimanere incinte tutte assieme come segno di solidarietà verso un’amica che, per un colpo di sfiga (banalmente il preservativo rotto), è rimasta incinta? Ammettiamo che la cosa possa stuzzicare qualche cordicella, ma andiamo avanti col commento “e che nello stesso tempo poteva anche dire molto sulla società di oggi.” Ecco, giusto! Ma cosa? Perché francamente dal film non si capisce. Insomma, una ragazzina rimane incinta, contro l’opinione della madre e il generico e generale parere del mondo adulto, decide di tenere il bambino, riuscendo nel frattempo a creare una cricca di pseudo-madri diciassettenni che sognano una comune materna, non hippie (sia mai, troppo poco cool, e nemmeno vintage), in cui i figli cresceranno insieme, e dove i rapporti madri-figli risulteranno limpidi e amichevoli, aiutati dall’assenza del gap generazionale che, chiaramente, è solo un fatto di età. Insomma, sono queste le 17 figure che dovrebbero rappresentare un aspetto della nostra società?

Continuo con le citazioni “Le scelte disponibili sono poche per gli adolescenti e né i genitori né gli insegnanti o nessun altro trova un modo per offrire loro un’altra prospettiva.” Primo, la prospettiva altra, in realtà, non bisognerebbe aspettarla servita dal servo su un vassoio d’argento, la si dovrebbe creare. Ma va beh. Sarà poi vero che sono loro l’armata delle amazzoni che presenta le caratteristiche per ribaltare la nostra società? Francamente, a me, sembrano 17 cretine, e il film non fa che presentarci un’armata di 17 macchiette, senza alcun spessore psicologico e, anzi, qualsivoglia chance di scontro viene risolto senza spiegarlo. Ad esempio, il rapporto conflittuale tra la protagonista e sua madre, avrebbe potuto dirci qualcosa di più riguardo la decisione, da parte della protagonista, di tenere il figlio e fondare un Falansterio materno; invece, tempo qualche scena, e SBAM! madre e figlia ridono e scherzano, e magicamente la questione si risolve. Evviva!

Ma c’è un altro aspetto, il più grave, a mio modo di vedere, ed è l’assenza di una figura maschile reale, forte, autorevole o autoritaria. Manca il padre, manca l’uomo. E anche questo goal a porta vuota le registe riescono a mancarlo mirabilmente, spedendo il pallone sugli spalti. Infatti, mi sta bene parlare dell’assenza del maschio, e il film presenta tutte le carte in regola per poterlo fare: ma non c’è nessun approfondimento, nessuno sguardo critico su questa assenza, il che mi fa sospettare che le registe abbiano pagato i guardialinee e giochino in costante fuori gioco: ossia, per eliminare anche un ulteriore elemento di problematicità, il maschio, fanno che rimuoverlo. Ma il rimosso ritorna. La protagonista vive con la madre, e la figura paterna è incarnata dal fratello: del padre non ci viene detto niente. Perché non c’è? Che fa, dov’è? Boh? Come sono rimaste incinte le ragazze? In tutto questo, i rispettivi compagni sono cazzi eiaculanti, e basta: la paternità è esclusa totalmente dal discorso, senza che però venga fornita alcuna motivazione di questa esclusione.

Il film, in generale, è ipocrita. Le registe sembrano fin dall’inizio solidali con le 17 ragazzine, solidarietà che si rivela in tutta la sua inautenticità nel finale quando, la ragazza, leader delle madri adolescenziali, a seguito di un incidente, perde il figlio e lascia la città, abbandonando a loro stesse le altre madri-ragazze. A questo punto ha inizio un monologo, che definirei banale e del cazzo, in cui stringi stringi la morale è “ragazze, va bene, volevate i bambini, ma noi ve l’avevamo detto che erano solo capricci.” Ma anche qui, su calcio piazzato, le registe mancano la porta e addirittura si fanno autogol, perché in realtà non hanno nemmeno il coraggio di dire da quale parte stanno, ossia dalla parte degli adulti, dei grandi, che sanno che i figli non sono feticci, non sono oggetti che si portano a spasso per la città come simbolo della propria emancipazione perché per quello esistono le All Star. Ecco, no, niente di tutto ciò. La frase finale recita “una ragazza che sogna non si può fermare” o una stronzata simile. Della serie “sogna sogna, tanto sei un treno destinato a infrangersi contro il muro della realtà.”

Un film godibile, ma che lascia tutto invariato. Come le 17 isteriche.

Simone Traversa

The Oregonian – Calvin Lee Reeder (TFF 29)

novembre 26, 2011 § Lascia un commento

Una ragazza dell’Oregon – non ha mai avuto nome, o l’ha dimenticato – si schianta con la sua macchina e perde conoscenza. Bionda ed esile, dai movimenti poco eleganti e uno sguardo di ghiaccio, esce dall’auto coperta di sangue, inconsapevole di quanto sia avvenuto.

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Si addentra nel bosco e da Alice postmoderna si lascia trascinare in un’esperienza psichedelica e allucinata. Una vecchia vestita di rosso la guarda negli occhi senza mai parlare – le labbra increspate da un sorriso forzato e inquietante. Un pupazzo verde non smette di seguirla e ama nascondersi nelle docce. Un camionista asmatico non parla mai e le da’ un passaggio – prima di svenire in un parcheggio di provincia dopo aver urinato fango. Un uomo viscido e biondiccio viene sorpreso mentre si accoppia con una ragazza identica alla protagonista. Le due si guardano e sorridono, mentre dalla loro bocca esce un liquido grigiastro.

Le immagini sono sbilenche, la camera non è mai ferma e gli zoom si ripetono contro ogni gusto estetico. I contorni del bosco in cui si aggira la protagonista sono spesso sfuocati, il montaggio e compulsivo e intermittente – a tratti davvero brutto. Anche la musica è stridente, spesso insopportabile. The Oregonian è un film eccessivo e fastidioso. Il pubblico in sala ride – eppure non c’è nulla da ridere, Lee Reeder non sta giocando.

Lungo il suo sentiero allucinato, la ragazza uccide diversi uomini. Ha investito un adulto e un bambino in occasione del suo incidente e assistiamo all’assassinio del suo stupratore nella seconda metà della pellicola. Tre figure maschili sono così eliminate: colui che l’ha posseduta (l’uomo-marito), l’individuo che ha investito (l’uomo-padre: lo chiama daddy a più riprese) e il bambino (l’uomo-figlio). Mentre intorno a lei alcuni volti femminili comparsi dal nulla urlano con un sorriso paralizzato sul volto. Un quarto uomo – un compagno della protagonista, un suo amante forse – mostra i segni dell’evirazione. Non c’è proprio nulla da ridere. Ogni critica di ordine morale o di carattere stilistico ha inevitabilmente un sapore stantio e non sta in piedi di fronte alle immagini infettate dalla psicosi surreale di questo horror di gender.

Un limite – insormontabile – il film lo dimostra. Esso si fa strada nel finale: non è il caso di rivelarlo. Stia attento lo spettatore al gioco fra livelli di realtà proposto dal regista. Un gioco – questo sì – che ha un’aria ormai consunta. Lee Reeder si è accorto forse di aver fatto troppo sul serio e proprio nell’ultima scena rinnega il suo mostro con un passo indietro. Ancora una volta il nostro mondo – la provincia americana e i suoi orrori – è salvato da una critica radicale e folle.

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