Una giornata di ordinario confronto

Maggio 11, 2012 § 4 commenti

“L’accredito stampato insieme a me,

il manganello scagliato sopra di me”

 (Cit.)

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Giovedì 10 maggio, Lingotto.

Un preteso movimento di giovani né di destra né di sinistra. Ritornello tipico di questi tempi che non viene difficile immaginare dove voglia andare a parare. Organizza un incontro con due ministri della Repubblica (c’è da capire cosa abbiano di eccezionale questi giovani per essere riusciti a portare ben due ministri a una loro iniziativa): il Ministro dell’Istruzione Profumo e la Ministra del Lavoro e delle Politiche sociali Fornero, anche se quest’ultima alla fine diserterà l’incontro.

Il preteso movimento nei giorni precedenti all’incontro fa sapere che per accedere all’iniziativa è necessario avere un accredito, facilmente ottenibile dal loro stesso sito. Studenti medi, universitari, precari, lavoratori e cittadini eseguono la procedura ottenendo l’accredito. Alcuni di loro, appartenenti a Studenti Indipendenti e Last – Laboratorio Studentesco, ricevono la disdetta dell’accredito in quanto “violenti” e vengono informati del fatto che i loro nomi sono “in mano alla Questura di Torino”.

Alla richiesta di informazione, la segreteria di MPN risponde:

Il suo accredito è sospeso per motivi di sicurezza. Non sarà quindi consentito il suo ingresso in sala al convegno di domani. Chiediamo urgente invio di copia di documento di identità per valutare, con la Polizia di Stato, la sua eventuale riammissione in aula.

La Segreteria”

Ad attenderli all’ingresso dell’incontro più di dieci camionette delle forze dell’ordine e una cinquantina di poliziotti e carabinieri in tenuta antisommossa con l’immancabile supervisione della Digos.

Gli studenti, documenti alla mano, tentano di far valere il loro accredito stampato ricevendo come risposta: non siete in lista. Perché gli accrediti non erano validi? Su quale base alcuni sono meno cittadini degli altri? “Se fossi stato una persona normale ti avremmo fatto entrare” viene detto ai ragazzi chiedevano di prendere parte all’incontro.

Si tenta ancora di accedere passando dall’ingresso principale, ma si scopre che tutti gli accrediti sono stati cancellati. Un giornalista, più degli altri, Andrea Velardi, porta avanti la causa dei presidianti. Il capo della Digos, dott. Ferrara, mette le mani addosso al giornalista che tenta di proteggere gli studenti. Inizia il tiramolla: le persone “normali” vengono fatte passare dalle entrate laterali, le persone a cui l’accesso è interdetto tentano di entrare, scavalcando la barricata. La polizia con gli scudi allontana il presidio. Non si riesce a superare la barricata. Si tenta allora di passare da un’entrata sul retro dell’edificio raggiunta in corteo. Prima tentano di spintonare fuori studenti, tra cui molti liceali, con “cariche di alleggerimento”, poi la polizia chiude i ragazzi, con un’assurda manovra a tenaglia, rischiando di spingerne alcuni giù dalle scale del parcheggio. I poliziotti si piazzano anche nella passerella sopraelevata, non si sa perché, caricano per un centinaio di metri, con la Digos che non riesce a contenere i celerini in preda a una rabbia sconsiderata. Il presidio viene spinto fuori; gli opliti serrano i ranghi. Nicola Malanga, Presidente del Senato Studenti, viene ferito da una manganellata sulla testa; portato fuori, quasi sviene. Un’altra ragazza, Florentina, cade a terra, durante la corsa per sfuggire alla carica. Uno dei poliziotti inciampa su un cestino (sarà refertato come ferito dai pericolosi sovversivi?). Nel giro di dieci minuti un’ambulanza soccorre lo studente ferito e il presidio si scioglie

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I fatti di oggi pomeriggio sono la prova che il tanto sbandierato dialogo, vanto del governo “tecnico”, non è che una formula vuota per legittimare provvedimenti che si vorrebbero oggettivamente necessari, ma che hanno un chiaro indirizzo ideologico alle spalle. L’ideologia, che questa crisi ha provocato e con la quali si pretende di risolverla, è quella del mercato, delle liberalizzazioni, delle privatizzazioni.

Un governo che non è sostenuto da alcuna maggioranza elettoralmente legittimata, né dal consenso popolare, non può che portare avanti la propria linea con la forza. Una forza che è schierata ad impedire il reale confronto tra opinioni differenti, perpetrando la retorica del “buon governo” che dialoga con i giovani e con le parti sociali. Un aiuto arriva dalle tante testate giornalistiche servili che, ignorando i concetti di cittadinanza e libera espressione, lasciano intendere, con frasi sibilline, che a contestare sono solo i professionisti della protesta, gente che non ha di meglio da fare che perdere le proprie giornate a rincorrere ministri.

Ci stupisce che avere vent’anni per alcuni significhi accettare acriticamente le manovre di un governo o farsi strumentalizzare per fini propagandistici.

Ci stupisce che avere vent’anni per alcuni significhi accogliere il mantra del “sacrificio necessario” e non essere più in grado di immaginare un futuro diverso e migliore, credendo che questo sia il migliore dei mondi possibili.

Ci stupisce che avere vent’anni per alcuni significhi aver introiettato il modello elitario, gerarchico, clerico-fascista, un’ottica puramente individualistica (citiamo l’articolo di Repubblica: “Il messaggio del ministro ai ragazzi è: sfruttate tutte le opportunità che ci sono”), l’indifferenza verso la giustizia sociale.

La nostra è un’altra idea di democrazia che non si fonda sull’esclusione di chi ha opinioni differenti, che non mette alla porta nessuno, che crede nella dialettica, pur aspra e dura, e non in un dialogo finto e posticcio.

Gli organizzatori sostengono che la politica, quella vera, si faccia solo nei luoghi istituzionali e non nelle piazze. Noi crediamo che la politica debba essere prerogativa di tutti i cittadini, perché una politica autistica, chiusa in sé stessa e distante dai reali bisogni della società non può portare nulla.

ESCC (esperimento scrittura collettiva consolidata)

Aggiungiamo alcuni link a foto e video della giornata:

http://www.youtube.com/watch?v=q4karfKRMTs

http://www.youtube.com/watch?v=c1eaIxAYZV0&feature=watch_response

http://www.flickr.com/photos/mirko_isaia/sets/72157629669676462/with/7172631632/

https://www.facebook.com/media/set/?set=a.383409388369415.86053.100001010709645&type=3

http://www.infoaut.org/index.php/blog/saperi/item/4697-profumo-avere-20-anni-non-vuol-dire-pagare-la-vostra-crisi


			

Cette élection est une farce (parte prima)

Maggio 3, 2012 § 5 commenti

Francia, Caen.

Dalla Francia soffia un forte vento. Ma l’odore che si porta appresso non è certo dei migliori: puzza di merda e di vecchio. Il vento che puzza di merda ha una velocità di 18 nodi, ma in costante crescita, quelli che puzzano di vecchio si attestano poco sotto i 30 nodi.
Mi dispiace irrompere così nelle vostre speranze di cambiamento, ma è il caso che interrompiate il vostro monologo interiore: ”Hollande rappresenta un cambiamento per un’Europa socialista e libera dal giogo Merkel-Sarkozy…”.
No. Non è così. Hollande non rappresenta il cambiamento più di quanto in Italia l’abbia rappresentato la vittoria di Prodi nel 2006 o lo rappresenterebbe un’ eventuale vittoria di Bersani alle prossime elezioni.
Tanto per cominciare la vittoria di Hollande non è per nulla definitiva, il secondo turno potrebbe ancora riservare delle sorprese e il punto e mezzo che divide i due finalisti è ben poca roba. In secondo luogo c’è da dire che nonostante Hollande si sia aggiudicato il primo turno, ancora una volta il popolo francese ha votato a destra e, se si sommano grossolanamente i voti di destra e di sinistra, vediamo che la prima (47%) ha la meglio sulla seconda (44%).
Ma il dato più inquietante che emerge da questo primo turno è senza dubbio il trionfo del “Front National” della Le Pen, non tanto per l’ottimo risultato ottenuto (record assoluto del partito, meglio anche del 2002 quando Le Pen padre riuscì ad approdare al secondo turno con il 16%), ma piuttosto per il peso che ha avuto nel determinare i toni e gli argomenti della prima fase di questa campagna elettorale e per l’atteggiamento accondiscendente dei media verso l’elettorato fascista considerato come “La France qui souffre” .
E il gioco non è ancora finito, perché se la crescente popolarità del FN ha spinto Hollande a sbraitare per il voto utile (aiutandolo non poco a imporsi) e Sarkò a spostare i toni della campagna elettorale sempre più a destra su temi quali la sicurezza e l’immigrazione, l’ influenza dell’estrema destra sulla politica francese non è che cominciata.
La Le Pen infatti è l’unica che ha la certezza di poter sorridere la sera del 6 maggio: nel caso in cui a spuntarla sia Sarkò i fasci terranno per le palle il suo governo, nel caso in cui sia Hollande a spuntarla, la bionda urlatrice avrà l’occasione di riorganizzare la destra francese sfruttando la crisi che si verificherà all’interno dell’UMP e contando su un incremento significativo delle preferenze nelle elezioni legislative previste per metà giugno.
Chiudiamo la parentesi sul fronte fascista citando un dato statistico, denunciato sul web nelle ore immediatamente successive alla chiusura del voto, riguardante l’impressionante incremento delle preferenze per la Le Pen nei comuni con meno di mille abitanti in zone della Francia da sempre considerate “rosse”.
Torniamo ora ad occuparci del presunto vincitore di questo primo turno, che ha incentrato la sua campagna elettorale su temi populisti (l’abolizione della legge sulle pensioni di Sarkò e più in generale un alleviamento delle politiche di austeritiy) condite con una dose preoccupante di ambiguità e incertezza su temi fondamentali come l’Europa e il nucleare. Che il programma di Hollande sulla carta rappresenti la possibilità di affievolire le politiche di austerity che pesano su tutta l’Europa è fuor di dubbio, che ciò accada realmente è tutta un’altra storia.
Il candidato socialista dà infatti l’impressione del classico politico pronto a fare la voce grossa mentre è in procinto di sbottonarsi i pantaloni e mettersi chinato.
In ogni caso, per ora, Hollande ha fatto più danni che altro, tramite la strategia del voto utile ha infatti frenato nettamente la volata di Jean-Luc Mélenchon contro la Le Pen che lo ha staccato di ben 7 punti.
La sconfitta di Melenchon è però, per fortuna, solo parziale: al contrario di quella del centrista Bayrou, egli è riuscito infatti a creare in poco tempo una forza politica nuova, l’unica tra i 10 candidati, riunendo nel suo “Front de Gauche” il variegato universo della sinistra francese. Tramite un programma dalla forza rivoluzionaria (a cui Vendola farebbe bene a dare un’ occhiata invece di esultare ingiustificatamente per la vittoria di Hollande), invocando la creazione della sesta repubblica francese (attualmente ci troviamo nella quinta in vigore dal 1958 e caratterizzata dalla “monarchia presidenziale”) e il referendum per abolire il trattato di Lisbona, è riuscito a riunire i vari movimenti sociali creatisi negli ultimi anni sotto il sarkozysmo.
Mélenchon, che aspirava a raggiungere almeno il 15% delle preferenze e ad attestarsi come terza forza politica del paese davanti alla Le Pen, si è dovuto accontentare dell’11% e della vittoria dei socialisti sperando così di potersi ritagliare un posto di tutto rispetto nell’eventuale governo Hollande.
Chi invece è uscito con le gambe rotte da questo primo turno è il centrista Bayrou, che ha visto il suo MoDem perdere circa la metà dei voti rispetto alle presidenziali del 2007 (il 19% allora, il 9% oggi), nonostante goda di un ottima reputazione presso la maggioranza dei francesi, grazie a un programma realistico e al riparo da qualsivoglia ideologia (la sua proposta era quella di formare un governo di unità nazionale con elementi di destra e di sinistra per traghettare la Francia fuori dalla crisi), non è riuscito a sfondare il muro del 10% perdendo così l’occasione di far spostare Sarkò verso posizioni centriste.
Questa è, a grandi linee, la situazione politica francese, e spero di essere riuscito a convincervi che per un vero cambiamento è necessario guardare altrove – perché la situazione francese di oggi non si allontana di molto da situazioni simili vissute in Italia (per esempio la parzialissima vittoria di Prodi nel 2006 che ha poi portato alla catastrofe del 2008).
Non ci resta quindi che aspettare il risultato definitivo e sperare, parafrasando il titolo dell’ultimo numero del mensile satirico “Sinemensuel”, che queste siano le ultime elezioni prima della rivoluzione.

Nicola Porno

Le vacanze in Spagna costano un occhio

aprile 25, 2012 § Lascia un commento

Quest’anno è la Germania che detta le tendenze per la primavera e l’estate. In Spagna per esempio, nella centralissima ed esclusivissima della Moncloa (la sede del Governo) politici ed amministratori stanno inaugurando una nuova stagione di colori sbiaditi e tagli netti, a cominciare dalla sanitá. Il taglio annunciato è del 10% rispetto al budget degli anni passati; in abbinamento alla mise «vedo non vedo, forse non c’è più» troviamo anche un tocco d’altri tempi: l’obbligo della donna a giustificare l’aborto al medico che le rilascia l’autorizzazione a procedere, non includendo tra le motivazioni accettate quella «socioeconomica».
Quest’ultima misura al momento non è nell’agenda delle prossime azioni del Governo, ma la dottrina pro-life è stata piú volte difesa pubblicamente dalla destra spagnola.
Nell’istruzione le forme suggerite appaiono familiari all’italico gusto: tagli al Fondo di Finanziamento universitario, aumento delle tasse attraverso la celebre formula dell’innalzamento della percentuale di contribuzione studentesca (non vi diamo meno soldi, è che dovete essere più collaborativi!) e della riduzione delle borse di studio; i Consigli di Amministrazione si popoleranno di rappresentanti «del mercato» non eletti da nessuno. Nell’insegnamento inferiore ogni professore vedrà aumentate le ore settimanali (licenziamenti) e faranno lezione a classi un 20% più numerose (più licenziamenti).
Questo e molto altro è previsto dala stragia «EU 2015«, l’attuazione delle direttive europee del piano di Bologna e di Nizza sull’istruzione.
Sul lato del lavoro la riforma continua la precarizzazione, o flessibilizzazione, del lavoro attraverso il libero sfoggio del licenziamento “per motivi economici” senza l’incorrere in sanzioni e con un’indennizzo al lavoratore corrispondente a 33 giorni lavorativi per anno di lavoro effettivo; maggiori possibilità di modifica del salario, delle mansioni e dell’orario
lavorativo, incentivi per chi sospende temporalmente il contratto, nuovo contratto di formazioni per giovani sotto i 30 anni, con salario minimo e durata tra uno e tre anni (periodo di prova di 12 mesi), possibilità di licenziamento collettivo senza passare dalla contrattazione sindacale. Questo e molto altro sulle passerelle iberiche. Sorpresi?
Se l’originalità non sta nell’essenza delle nuove mise proposte, la possiamo trovare nelle forme di attuazione di queste misure.

La risposta da parte di chi soffrirà i tagli è stata imponente: il 29 marzo. Lo sciopero generale in tutta la Spagna è stato attuato anche grazie a decine di picchetti che hanno fermato fabbriche, negozi e mezzi di trasporto pubblici, a blocchi del traffico per permettere alle persone di camminare verso un unico obiettivo per tutta la giornata: il futuro da riprendersi.
Una giornata che da ogni fronte di movimento è apparsa come ben riuscita. I media nazionali hanno riportato solamente le cifre del numero di cassonetti distrutti, dei danni totali ad edifici e cose, del numero degli arrestati e dei feriti.
La risposta statale e autonomica è stata più spaventosa che imponente: in Catalunya, a Barcellona, due elicotteri sorvolavano la città fin dalla notte precedente, e Guardia Urbana e Mossos d’Esquadra occupati in assetto antisommossa, che hanno cercato di mantenere l’ordine con non poche difficoltà: numeriche per le molte manifestazioni in contemporanea della giornata, e logistiche per l’ubiquità dei gruppi più aggressivi nei punti caldi (banche,
uffici dell’impiego, multinazionali, centri commerciali, imprese e auto di lusso).
La risposta si è articolata con arresti, lacrimogeni e proiettili di gomma: la prima misura ha riportato le persone all’epoca franchista, in molti associano le «bombas du humo» alla repressione del dittatore finita nel ’75, ma che ogni giorno di più sembra ricomparire nelle azioni politiche e di piazza.
I proiettili di gomma sono in dotazione alla polizia spagnola e alle polizie autonomiche, che in Catalunya ne fa abbondante uso; sono classificate come armi «non eccessivamente letali», ma dal ’95 ad oggi si stima che abbiano fatto già quasi venti morti, e centinaia di feriti gravi.
Le «balas de goma» hanno privato di un occhio tre italiani in situazioni non pericolose nell’ultimo anno, e lo scorso mese hanno ucciso un ragazzo basco per l’emmoragia cranica che possono provocare.
La violenza che si percepiva sfilando per le strade di Barcellona durante la huelga general è disorientante: le polizie (nazionale e autonomica) arrivano all’improvviso sfrecciando a tutta velocità per disperdere le persone (spesso facendo male a qualcuno), e se le persone non se ne vanno saltano giù dalle camionette ancora in movimento per picchiare alla cieca: manifestanti con le mani alzate, fotografi, giornalisti, turisti ignari, fino a che esauriscono la scarica di adrenalina per poter continuare la loro folle corsa a sirene spiegate, in gruppi di 6- 10 camionette con 8-12 mossos per ognuna. Non importa «di che spezzone tu sia», non devi stare in strada, nemmeno sul marciapiede, la strada è loro.
Alti incarichi del ministro dell’Interno e della Polizia hanno rivendicato la buona attuazione poliziale, che di fronte a «masse tanto aggressive» non poteva discernere i buoni dai cattivi: si dispiacciono per i buoni che hanno pagato, ma avrebbero dovuto semplicemente allontanarsi dalla manifestazione.
Le reazioni a questa giornata sono state duramente repressive da parte dello Stato: è stata infatti proposta una riforma del Codice Penale riguardante le norme processuali per atti di guerriglia urbana e la legge di sicurezza cittadina. Il ministro dell’Interno Díaz – un nome una garanzia – vuole introdurre il reato di attentato all’autorità attraverso resistenza passiva o attiva grande, con una pena tra 1 e 6 anni, il reato di diffusione di convocatorie violente attraverso internet e l’allungamento della detenzione preventiva; inoltre si estenderà la quantificazione dei danni alle interruzioni di servizi pubblici, mentre attualmente si valutano solo i danni a cose.
Si è negato che queste misure servano a restringere la libertà di manifestazione, affermando che si vuole punire solamente chi compia un atto di «autentica prostituzione del diritto di manifestazione». Un aneddoto su questa frase: oltre a non aver sicuramente convinto chi dubitava sulle finalità di queste misure, ha aumentato l’indignazione delle lavoratrici sessuali spagnole, già organizzate da tempo in una piattaforma e che il 26 aprile scenderanno in piazza per rivendicare la dignità della propria attività, sentendosi anche loro sempre più in pericolo trovandosi in uno spazio pubblico, e il pericolo è costituito dalle forze dell”ordine. (Prostitutas indignadas).
I movimenti hanno reagito súbito ai 70 arresti nel giorno della manifestazione, di cui 3 preventivi confermati in vista della riunione della Banca Centrale Europea a Barcelona il 2 e 3 di maggio. Sta nascendo una piattaforma antirepressiva che riunisce, al momento, una quindicina di movimenti politicamente trasversali di quella che si potrebbe chiamare
l’area extraparlamentare, che hanno chiamato una manifestazione ieri a Barcellona contro la repressione crescente; si muoveranno in direzione tecnica (supporto legale agli arrestati e durante le manifestazioni) e politica, perchè la grande domanda che le persone sentono crescere è: che cos’è la violenza? Ed è una domanda che molti italiani si sono ritrovati a farsi dopo gli avvenimenti in Valsusa quest’anno.
Alla fine della manifestazione contro la repressione di domenica 22 aprile sono state fermate 6 persone, di cui 2 ora in arresto per aver fatto delle scritte sui muri, reato che normalmente è punito con una multa. Non solo non si sono giustificati gli arresti, ma si continua con la violenza verbale da parte delle forza dell’ordine, che hanno replicato attraverso il suo Coordinatore generale regionale David Piqué: «si possono nascondere dove vogliono, perchè li troveremo. Sia in una caverna o in una cloaca, dove si nascondono i ratti, o in un’assemblea, che non rappresenta nessuno, o dietro la scrivania di un’università». Parole quanto meno dinamitarde in un momento di crisi ecnomica senza possibilità all’orizzone di risalita. Il primo maggio ci sarà la manifestazione annunciata già dal 30 marzo.
In tutto questo clima di violenza, non è mancato chi ha cercato negli stranieri la causa delle violenze: un articolo della Vanguardia dell’8 aprile a firma di Enric Juliana accusa anarchici italiani affiliati del movimento No Tav di essere «il germoglio anarcoitaliano violento degli scontri nel giorno dello sciopero generale». Un tocco di esoticità che piace di qua e di là.
Intanto continuano gli sgomberi di persone che non possono pagare il mutuo, continua l’emigrazione degli spagnoli, le uscite africane a caccia di elefanti del re e il lancio di «nuove collezioni»: il vintage è tornato davvero di moda, e guardando bene ci si accorge che non sono capi nuovi a cui si è volontariamente deciso di attaccare delle «pins» o di aggiustare con spalline perchè sembrassero antichi: qualcuno ha tirato fuori vestiti da un armadio che si sperava definitivamente chiuso.

Girafa Desquiciada

La solitudine degli indignati

aprile 14, 2012 § 2 commenti

Se c’è una vittima, lo sai. Lo sanno tutti quando c’è una vittima. Si siedono davanti alla TV per pranzo e sanno che c’è una vittima, da qualche parte, qualcuno da piangere.
Se c’è uno scandalo, lo sai. Non hai capito una sega della riforma del lavoro, non ti disturba la xenofobia della Lega, ma dei milioni rubati ti indigni sempre. E poi torni alla fettina al burro che ti guarda rattrappita dal piatto.
Perché l’assuefazione è così: sorprende sempre per restare uguale a se stessa. Se volessi una sorpresa reale, un cambiamento, qualcosa, non accenderesti l’ennesima sigaretta, sperando che faccia sfumare il nervosismo. Tireresti via il pacco, masticheresti liquirizia. Passando ad un’altra dipendenza.
Sono diviso tra una nuova sfiducia, una disillusione fiorita nelle ultime settimane riguardo all’agire collettivo e il rancore provocato dall’individualismo d’indignazione. Perché questo, sugli ultimi mesi, dobbiamo dirci: abbiamo sbagliato parole d’ordine, abbiamo impostato un immaginario fallimentare. L’indignazione non basta, ci dicevamo. L’indignazione non serve, avremmo dovuto dire. Perché l’indignazione fa appello alla dignità, un senso individuale, per tutti diverso, l’indignazione è diversa dalla rabbia, ma non più costruttiva. Solo una sfumatura diversa della sconfitta. La costruzione di una collettività non può partire da un sentimento così beceramente individuale: il movimento negli ultimi anni è caduto nella trappola che gli era stata preparata. Ha raccontato una storia già sconfitta, per assuefazione. Così, come si fuma una sigaretta.
Il nostro, a memoria, è il Paese sempre indignato. Al punto che pure l’indignazione, che dicono meglio di niente, dicono, forse era meglio niente, forse era meglio rabbia, è spenta, è un rito, assieme al caffè, o all’amaro dopo i pranzi pesanti, la Colomba e l’Uovo di Cioccolato a Pasqua. Insomma, 8-12.30 lavoro 12.30-13.00 viaggio verso casa 13.00-14.00 pranzo e mi indigno un po’ 14.00-15.00 riposino 15.00-18.30 lavoro 18.30-19,30 traffico, bestemmie e radio 19.30 casa. La routine dello scagliarsi contro la casta e della pasta scotta, la routine dei broccoli saltati e dell’alternativa possibile a sinistra. Quando, poi, tutto cade a pezzi e la violenza dei decreti del governo tecnico di acclamazione popolare(GTAP) viene nascosta dall’ennesimo scandalo che coinvolge la famiglia di questo o quel politico (è toccato a Bossi, toccherà a qualcun altro, in perpetuum), semplicemente sai qual è la prassi: ti indigni, versi un bicchiere di vinaccio della cantina sociale, finisci la cena, fumi una sigaretta. E vedi che dice Carlo Conti.

Iosonolodio

Una battaglia per immagini

aprile 2, 2012 § Lascia un commento

Sullo schermo la Fornero appare distesa a tratti e, ignorando le rughe che le segnano elegantemente il volto, senza mai guardare in camera, ci racconta un altro pezzo della favola, dipinge un’altra porzione dell’affresco che la legittima, che legittima in misura sacrale i tecnici di cui si gloria di fare parte. La ministra del welfare e delle politiche sociali giustifica il proprio lavoro da macellaio contrapponendolo a quello dei venditori di caramelle che eravamo abituati a chiamare politici, giocando sul campo semantico ma ancora maggiormente sul meccanismo vecchio di millenni del capro espiatorio, per il quale chi non ha argomenti di difesa rilancia sull’altrui offesa. Denunciando la pericolosità di provvedimenti antisociali promossi soffiando sul fuoco della sfiducia nella politica e della contrapposizione ai meccanismi di legittimazione democratica, occorre considerare che prima o poi gli italiani torneranno al voto, dovendosi confrontare con il sistema della democrazia rappresentativa oggi infangato con la ferocia degli slogan e delle immagini promosse tanto dai celebrati tecnici quanto dal concerto dei media.
Proprio sulle immagini, sulle rappresentazioni, su una narrazione che non lascia elementi al caso si gioca la legittimazione dell’esecutivo guidato da Mario Monti che da questo meccanismo ha mutuato anche l’approccio alla riforma del lavoro, fatto di un dibattito arricchito nella forma e svilito nella sostanza dei provvedimenti adottati.
Il premier ha cominciato da subito, avendo deciso di chiudere la partita entro marzo, con una sparata degna del suo predecessore, la cui pochezza regala oggi tanta popolarità ai professori stessi. Senza allontanarsi minimamente dal pessimo senso dell’umorismo berlusconiano, a gennaio Monti definiva “monotono” il posto fisso, assestando il primo colpo di accetta su quel soggetto sociale, il lavoro, già messo in ginocchio in un paese che manca da trent’anni di un piano industriale diffuso e da venti vive il moltiplicarsi delle forme contrattuali ed il conseguente dilagare della piaga precarietà.
Piaga che l’esecutivo Monti aveva promesso, nelle parole materne del ministro Fornero, di estirpare introducendo un altro insopportabile ritornello della propria azione di governo. La contrapposizione tra giovani e meno giovani, il dualismo tra garantiti e non, è stato presentato fin da subito come uno delle principali inadeguatezze del sistema italiano che il governo Monti si proponeva di eliminare. Non risulta affatto sorprendente scoprire oggi come le 46 tipologie contrattuali che rendono il mercato del lavoro italiano tanto precario non vengano minimamente toccate dalla riforma dei tecnici che impongono invece il livellamento delle tutele verso il basso, aumentando la flessibilità in uscita, mutilando l’articolo 18.
Che non sia questo passaggio fondamentale dello statuto dei lavoratori a frenare gli investitori esteri rispetto ad interventi nel nostro paese appare evidente anche al leader designato di Confindustria Giorgio Squinzi che spiega al “Sole 24 Ore” come siano piuttosto “la burocrazia, il costo dell’energia, la mancanza di infrastrutture” a frenare il Paese. Viene allora naturale chiedersi per chi l’articolo 18 rappresenti un totem e chi lo veda piuttosto come un presidio fondamentale di dignità e giustizia. Accanendovisi in modo così deciso i tecnici hanno dato un segnale molto forte, hanno firmato una dichiarazione di intenti molto chiara: ripercorrere a gambero gli ultimi cinquant’anni di storia partendo dal cuore delle tutele ai lavoratori dipendenti.
La mente torna allora beffarda al mantra supremo recitato dal governo dei tecnici, quell’equità che risulta ad oggi ancora assente nell’operato di quest’ultimo rendendo sempre più concreto il rischio di una frattura in quel patto sociale che i professori si erano ripromessi di tutelare: una riforma portata avanti accordando la priorità al responso dell’Europa piuttosto che all’opinione di coloro che vedranno la propria vita condizionata da tali provvedimenti non può che segnalare l’apertura di una fase delicata che, se gestita con tanta miopia ed irresponsabilità (proprio da chi ci richiama alla responsabilità), porterà a fratture difficilmente sanabili nel paese.

Girlson Film
Foto: Federica Peyronel

La valle che resiste e non si arrende

marzo 18, 2012 § Lascia un commento

Riceviamo dal comitato NoTav Torino e pubblichiamo:

La Valle di Susa è per natura geografica luogo di scambio, non solo in senso trasportistico e commerciale. Lo è stata per i primi contadini del neolitico a cavallo delle Alpi, per eserciti e pellegrini lungo i sentieri dei boschi e la via Francigena; lo è tuttora e in qualche modo continuerà ad esserlo in futuro. Non si può comprendere l’originalità del movimento No Tav se non partendo dalla Storia sociale del territorio (parlo degli ultimi decenni, tranquilli)

La società civile attiva in Val di Susa

Già terra di brigate partigiane, nel dopoguerra la bassa valle industrializzata è stata significativa protagonista delle lotte per i diritti dei lavoratori, nonché del pacifismo cattolico di base attivo contro la produzione di armi e per l’obiezione di coscienza al servizio militare. All’inizio degli anni 70, con il Collettivo Operai e Studenti questo lembo del Torinese ha rappresentato un’importante esperienza di aggregazione politica dal basso nel campo della sinistra extra-parlamentare: a tutto tondo, anche con un paio dei suoi figli entrati in Prima Linea e poi per anni incarcerati.
Intanto, fin dagli anni ’60, la crisi di alcune aziende manifatturiere (Cotonificio Valle Susa) aveva già dato inizio, qui più precocemente che altrove, ad un processo di deindustrializzazione che ha generato lotte socialmente aggreganti in difesa del posto di lavoro ed al contempo ha posto drammaticamente l’interrogativo sulle prospettive future del territorio. A quel punto il destino della valle poteva reincamminarsi verso un’economia di valorizzazione delle produzioni agro-silvo-pastorali tipiche (ma a quei tempi ciò era culturalmente considerato un regresso), oppure verso la trasformazione in anonimo corridoio di transito: l’idea progettuale di attraversare la valle con un’autostrada verso la Francia era già all’ordine del giorno.
L’alta valle delle stazioni sciistiche (dove impazzava quel boom edilizio delle seconde case che porterà allo scioglimento del Comune di Bardonecchia per infiltrazione mafiosa) vede con favore la nuova infrastruttura che “l’avvicina” alle grandi città del nord Italia ed alla stessa Francia; la bassa valle sa che ne ricaverà solo inquinamento dei TIR, scempio del paesaggio ed esproprio di fertili terreni pianeggianti che scarseggiano. Nella battaglia contro l’A32 prende corpo la coscienza ambientalista, che va ad arricchire di valori i cittadini attivi, di sinistra o cattolici; anche molti sindaci si oppongono, ma alla fine la resistenza della bassa valle sarà sconfitta ed avrà il danno temuto più la beffa di compensazioni promesse e non mantenute, di ripristini ambientali mai realizzati. Il “mediatore” che convinse uno ad uno i sindaci con le sue promesse era un architetto con in tasca la tessera del PCI, un certo Mario Virano che poi diventerà amministratore delegato della Sitaf, società di gestione dell’arteria.

Il movimento NO-TAV: un parto spontaneo

Tutti gli affluenti di partecipazione che hanno percorso la società civile attiva in valle convergeranno a dare linfa all’embrione NO-TAV; la lunga lotta degli anni 80 contro l’autostrada, la sconfitta e le beffe lasciano in eredità molti insegnamenti, alla popolazione ed agli amministratori locali. Quando, nel 1989, viene lanciata l’idea di una nuova ferrovia ad alta velocità lungo il solito corridoio i primi NO-TAV sono già in piedi: tra loro molti di coloro che ancora oggi, dopo 22 anni, sono tra i protagonisti più noti del movimento.
Il Comitato Habitat è la prima forma di auto-organizzazione su questa tematica. Il suo merito è di aver saputo dare il via ad una aggregazione di cittadini, amministratori locali e tecnici di varie discipline contro i progetti dell’opera: è questa “trinità” che rappresenta il carattere originale del nascente movimento, in confronto a molti altri.
Nessuna struttura gerarchica, nessuna delega alla politica, ma trasversalità, partecipazione dal basso ed inclusione: sono questi gli ingredienti istintivamente portati ad amalgama. Massima diffusione delle conoscenze sui progetti, i rischi, i costi locali e generali: la popolazione deve essere pienamente consapevole e decidere il proprio futuro. Una specie di scuola serale, anno dopo anno, informa e forma; spiega i retroscena ed aggiorna senza mai smettere: la popolazione risponde e l’aggregazione cresce nel tempo. Non ci sono altri segreti.

Oltre i confini della valle, oltre la tematica TAV

Dopo infinite proposte di tracciato, il primo vero progetto della linea (2002-2003) descrive, esso stesso, un impatto fortissimo sulle risorse ambientali (acqua) e la salute dei viventi (amianto, uranio, polveri e gas). Il movimento costruisce i primi presidi sul territorio, punti di vigilanza e di incontro; da allora in poi saranno un’altra chiave di volta dell’aggregazione, questa volta anche di molte realtà esterne alla Valsusa.
Nel 2005 le vicende di Venaus, la prima militarizzazione dei luoghi, la notte dei manganelli, la riconquista dei terreni occupati portano il movimento NO-TAV alla ribalta nazionale. Nasce la rete del Patto di Mutuo Soccorso con tantissime realtà italiane impegnate nella difesa dei territori e dei beni comuni: un’eccezionalescambio di esperienze, di energie e di affetto. L’esperienza valsusina è vista da molti come un esempio da imitare, la dimostrazione che resistere è possibile, una speranza per tutti.
La scuola permanente di formazione si arricchisce di molte nuove materie, che diventa necessario conoscere dopo aver toccato con mano che il TAV non è solo un’infrastruttura, ma un paradigma di sviluppo neoliberista con implicazioni su più piani, dalla finanza globale all’economia locale, alla qualità di vita spicciola, alla stessa democrazia: tutti contesti già entrati in un percorso di deriva. E allora si studia e sperimenta di economie alternative, di energie rinnovabili, di democrazia partecipata e di decrescita. Dall’Italia e dall’estero nuovi docenti, intellettuali, ricercatori si avvicinano al movimento e portano il loro contributo di conoscenze ed analisi; quasi sempre rimangono affascinati e tornano ancora oggi. Si chiama sempre movimento NO-TAV, ma ormai è qualcosa di più.
Arrivano da più parti visitatori, singoli o in gruppo, che restano subito contagiati dalla natura autenticamente popolare ed inclusiva di questa originale socialità. Qualcuno viene con la pretesa di dare una sua ricetta vincente sul piano dell’organizzazione o delle forme di lotta; qualcuno vuole usare il movimento per i suoi scopi, spostarlo sul proprio terreno: nessuno viene respinto, ma qualsiasi sia la dose di carisma espresso lo si fa sentire alla pari di tutti gli altri. Molti capiscono che nessuna ricetta verrà presa in blocco, che si esige rispetto; chi è animato da disponibilità genuina allo scambio sviluppa un legame autenticamente affettivo e finisce per comportarsi, in valle, secondo le decisioni del movimento, chi è incapace di affetto e vuole imporre i propri metodi forse riesce a farlo qualche volta, ma poi se ne va.
Intanto, dal 2006 in poi, è andato in scena un finto dialogo tra le istituzioni e la Valle, alla fine aperto solo a chi è favorevole all’infrastruttura: carte truccate, confusione voluta sui costi, illusionismo mediatico. Non stupisce: il commissario governativo alla Torino-Lione, confermato dai governi di diverso colore è di nuovo Mario Virano. Il progetto cambia sì tracciato, ma le implicazioni sui vari piani non mutano granché ed i presupposti della lotta di opposizione sono gli stessi anche oggi. I sindaci (23 su 43), rappresentativi dei loro elettori, continuano con coerenza la loro battaglia di dignità, nonostante manovre politiche degne di un neo- maccartismo che tendono a metterli fuori gioco.

Dove si andrà a parare

E chi lo sa? Costruiamo insieme una prospettiva. Negli anni 2000 molto è peggiorato per il 99% della popolazione nel nostro Paese e non solo: minor giustizia sociale, nessuna prospettiva di lavoro vero, crisi del debito pubblico, scadimento culturale imposto, militarizzazione delle menti, progressiva sottrazione di diritti e democrazia… I poteri forti delle banche si sono fatti oligarchia di governo, i partiti erano già diventati esclusive macchine di potere e ora queste paiono inceppate, inservibili, da rottamare. I correttivi anticrisi a livello nazionale e continentale in realtà confermano sostanzialmente i meccanismi che l’hanno prodotta, si genera altro debito pubblico a vantaggio solo dell’immediato tornaconto privato dell’1% sempre più ricco.
In un panorama in cui vari paesi europei tra cui il nostro possono essere considerati a rischio dittatura, come profetizzare l’evoluzione della vicenda? Il merito non potrà certo prescindere dal contesto, ma è ben arduo prevedere la reciproca influenza. Tutta la casta (e le cosche) sono per realizzare comunque l’opera; quello che viene messo in campo dal potere formale è l’affidamento all’esercito della garanzia di costruzione e il movimento di opposizione dichiara di non voler cedere (e non cederà).
Questo non significa che ci sarà “un’ora x” per la resa dei conti, muro contro muro, per decidere se si fa o non si fa il TAV in val di Susa; piuttosto l’opposizione mira a durare negli anni, anche altri 20, opponendo muri di gomma, riposizionandosi ed imparando a muoversi con resilienza in spazi di democrazia ed agibilità anche progressivamente più stretti. Questo significa “la Valle resiste e non si arrende”. Poi, certo, molto dipenderà anche da come la generalità degli Italiani reagirà ad una crisi economica, morale e democratica che sulla pelle nei fatti si fa sempre più pesante, nonostante il teatrino dello spread.

Vedi anche Notavtorino.org

Il movimento NoTav, i teoremi e la politica che crede ancora in Dio

marzo 4, 2012 § 3 commenti

Questo articolo parla di NoTav e di letteratura. Della convinzione che gli “eventi-NoTav” delle ultime settimane si possano comprendere di più attraverso la letteratura. Nulla di più odioso, a prima vista: non ho vissuto i fatti in prima persona, sono in università e ho speso tutta la mattina a scrivere questo articolo. Sulla letteratura. Eppure credo ancora in lei e poiché la mia esperienza di queste settimane è avvenuta solo a distanza, vorrei comunque cercare di dare il mio contributo.

Due fatti: gli arresti emessi dalla Procura di Torino a fine gennaio in seguito agli scontri  di quest’estate; gli sgomberi iniziati in Valle l’ultimo lunedì di febbraio. Mi chiedo: esiste una connessione fra i due eventi? É verosimile che esista: ventisei militanti NoTav (fra cui alcuni leader di una certa rilevanza) vengono arrestati ed esclusi dall’azione politica. Le ordinanze sono scattate tre settimane prima degli sgomberi, tre settimane prima della resistenza e degli scontri di questi giorni. Mentre i blocchi vengono forzati dalla polizia, il movimento conta fra le sue fila ventisei militanti in meno: il disegno è lineare, fin semplice nei suoi tratti.
Perino, uno dei portavoce più influenti del movimento, non componeva ragionamenti molto diversi all’indomani delle ordinanze cautelari: “è una cosa preordinata”, comunicava ai giornali, “un segnale chiarissimo a tutti quelli che stanno cercando di alzare la testa in Italia e che prendono il movimento NoTav come esempio: vogliono dire a camionisti, pescatori, e così via di stare tranquilli altrimenti si finisce tutti in galera. Si vuole criminalizzare il movimento.” Una cosa preordinata, un disegno: qualcuno – lo Stato, i poteri forti – ha causato gli arresti per ottenere un fine determinato: indebolire il movimento. Caselli, allora, è un esecutore del disegno, o teorema giudiziario.
Tutto era stato già scritto – e non lo afferma solo Perino. I giornali autorevoli e le istituzioni hanno proposto un’analisi del passato ritornante: “state attenti”, dicono, “che nel movimento si sta infiltrando l’antagonismo e vi ricordate cosa significa, vi ricordate gli anni Settanta? Il piombo, il piombo!” Il presente si legge come una scrittura del passato, un disegno finalistico dove tutto si tiene. E anche le scritte sui muri di Via Po è come se fossero già scritte: il linguaggio non sembra cambiare di molto dalle parole di un tempo. É allora perfettamente verosimile che lo Stato abbia applicato il suo teorema (il teorema giudiziario) e che lo abbia applicato perché il movimento è ormai pronto ad avviare il suo Settantasette. Tutti scrivono – sui giornali, sui muri – e le loro scritture sono in fondo lineari, credibili. Preordinate, direbbe Perino.
Il teorema – come ogni teoria del complotto – mi ricorda la Provvidenza di Manzoni, il Disegno di Dio. (Ecco la letteratura che avevo annunciato.) Tutto è scritto nelle stelle, tutto segue il suo corso. Tutto è perfettamente verosimile e comprensibile perché è stato già scritto. Il Grande Vecchio si sostituisce a Dio, ma da un punto di vista narrativo le carte in tavola non cambiano di molto: i paradigmi di interpretazione della politica e del giornalismo sono manzoniani e provvidenziali – e c’era da aspettarselo alla luce della cultura letteraria insegnata a scuola e dal nostro intrinseco cattolicesimo.
Ma Manzoni è morto, e dopo lui altri son venuti. La letteratura è cambiata e ha pensato e scritto diversamente: senza Provvidenza e senza fatti preordinati. Propongo di trascinare quest’altra letteratura nel contesto attuale  – i nostri “eventi-NoTav” – con la speranza di dischiudere riflessioni e interpretazioni più convincenti dell’esistente, e più rivoluzionarie.
Dopo Manzoni, i fatti non stanno più insieme e il mondo è un’accozzaglia i cui eventi sono spesso privi di spiegazione. Viene a mancare il grande paradigma che teneva assieme il senso del mondo: Dio – o il complotto. I fatti non si connettono armoniosamente uno all’altro, ma si disperdono, ed è estremamente faticoso recuperare dei fili sottili nel guazzabuglio. La realtà si riduce a una serie di eventi discontinui, una complessità di cause il cui motore è spesso aleatorio.
Ribalto allora quanto affermato finora dai protagonisti di queste settimane. Caselli non ha agito secondo un teorema, come vorrebbe Perino. Il movimento non è una riproposizione degli anni di piombo, come desidererebbero certi giornalisti e tutori dell’ordine. Non esiste una connessione diretta e lineare fra gli arresti di Caselli e la repressione di questi giorni durante gli sgomberi valligiani. Poste queste prime ipotesi sperimentali, si possono tentare le prime congetture, le prime riflessioni.
La Procura di Torino ha ricevuto gli incartamenti dalla polizia e ha lavorato seguendo un normale iter legale, senza infrangere in modo evidente lo stato di diritto democratico. Questa riflessione ne può aprire un’altra: cosa si intende per legalità? Un insieme di scritture determinate da un codice? O un insieme di regole che di volta in volta si incarnano nella contingenza, nei corpi che si muovono e agiscono negli spazi? E, ancora, che rapporto c’è fra la legalità e l’azione politica di movimento? Come si deve porre il movimento nei confronti delle leggi? Credo siano domande molto più interessanti, che non potrebbero essere poste se si definisse l’azione di Caselli uno strumento in mano a uno stato repressivo, quindi intrinsecamente fascista. L’attuale contesto è molto più intricato e solo i Wu Ming possono ancora credere che il mondo si divida linearmente fra buoni e cattivi (loro sì, sono manzoniani, ma forse non lo sanno).
Anche in questo anfratto del pensiero, la letteratura, in quanto scrittura agita, può tornare utile. Non riconoscere le leggi come una scrittura assoluta e preordinata, ma come un complesso di regole da porre sempre in discussione, da modificare e da riscrivere creativamente potrebbe essere una via interessante per un movimento che voglia interrogarsi sul rapporto fra azione politica e diritto. In fondo sono riflessioni non del tutto mie, e traggono spunto da un’altra scrittura originata nell’area del pensiero antagonista – una scrittura molto più interessante delle scritture stantie sui muri di Via Po. (Qui il link).
Questo filo di pensieri nato da Caselli e confluito nel dibattito su violenza, legge e giustizia può essere uno dei tanti percorsi in cui insinuarsi nel momento in cui venga disconnesso il Disegno. Un altro territorio interessante potrebbe essere quello del movimento NoTav stesso: senza il paradigma-anni-Settanta, come si può comprendere quanto sta accadendo in valle? La Stampa e La Repubblica avrebbero i loro problemi di scrittura e di interpretazione.
Vorrei che si torcesse il collo alla retorica e ci si liberasse delle frasi fatte e delle letture preconfezionate (“Manganelli lo aveva detto – lo aveva scritto – che ci sarebbe scappato il morto!”). Vorrei vedere la fine di uno spettacolo in cui a una lettura stupida – Manganelli su tutti – si risponda con altrettante interpretazioni stupide. La fine delle sceneggiature verosimili, che, gira e rigira, finiscono costantemente per avvantaggiare chi esiste già e mai chi non esiste ancora, o chi potrebbe esistere.
I fatti spesso non si legano mai bene assieme e, se qualche volta si incontrano, dietro di loro si nasconde un’infinità di cause complessa e variegata. E poi ci sono i fatti apparentemente insignificanti, inutili e casuali che possono dischiudere deboli connessioni di senso, ma impreviste: la vita di un ragazzo in carcere, i movimenti della polizia fra le due e le tre del pomeriggio, gli sguardi di un valligiano rivolti al suolo e le pause nei monologhi di un anarchico (ma era anarchico?) che catechizza uno sbirro.
Fatterelli assurdi, lo so. Ma è inevitabile che sia così: non posso ora cogliere il pulviscolo di fatterelli da cui avviare altre riflessioni, meno assurde. Io sono qui, in università, leggo le notizie dell’ultim’ora e sullo schermo del computer mi arrivano solo le sceneggiature – e i disegni della Provvidenza.

François Milieu

Il gioco delle sedie e le borse EDiSU

febbraio 27, 2012 § Lascia un commento

Questa mattina, sveglio dopo undici ore di sonno, immergendo i biscotti nel caffelatte, ho avuto l’occasione di imbattermi in un borsista idoneo e beneficiario, una categoria bistrattata di questi tempi, una cerchia di privilegiati destinata ad estinguersi: vivo infatti con uno di quei pochi studenti borsisti che è riuscito a trovare una sedia quando Cota ha spento la musica.

Quando facevo la materna, le elementari forse, andava di gran moda per le feste di compleanno all’oratorio, il gioco delle sedie, stupido ed elementare ma allo stesso tempo crudele e darwiniano: ti veniva imposto infatti di correre intorno ad un cerchio di sedie con i tuoi compagni, pronto a scaraventarti a peso morto sulla prima sedia libera quando la mamma del festeggiato spegneva la musica. Al primo giro le sedie erano tante quante i bambini se non di più; dal secondo in poi la suddetta mamma o chi per essa si premurava di togliere una o due sedie determinando così l’esclusione di quei bambini che non avrebbero trovato posto al tacere della musica.

Questa mattina, mentre facevo colazione con il mio raro esemplare di borsista idoneo beneficiario, costui mi raccontava di come la sua amica Pina, straniera, non avesse ricevuto il rimborso della prima rata e di come questo rischiasse di compromettere, meglio, stroncare la sua carriera scolastica. Prima di fermare la musica infatti, il Presidente Cota si era infatti premurato di togliere il ben più dei due terzi delle sedie.

Sicuramente il Presidente della Regione Piemonte non ha avuto occasione di imparare il gioco delle sedie per come l’ho conosciuto io: la versione federalista pare molto più selettiva.

Così questa stessa mattina, mentre io bevevo il caffelatte con il beneficiario e la sua amica Pina (che il suo nome sia inventato non significa che non si possa raccontare lo stesso la sua storia), un confronto tra Atenei e Regione ha provato a stabilire le regole per il prossimo anno, a disporre le sedie prima di far partire di nuovo la musica. Il lavoro per la definizione del bando per le borse di studio universitarie del prossimo anno si è subito arenato sulla questione finanziaria: i fondi stanziati al momento basterebbero infatti a malapena a garantire la seconda rata delle borse di quest’anno, lasciando questa voce del bilancio a secco per la copertura delle borse dell’anno prossimo.

La stretta imposta sulle risorse ha portato il dibattito a focalizzarsi sulla questione del merito di modo da poter portare a frutto tutte le borse erogate senza perdere neanche un centesimo sugli studenti non meritevoli. Di fronte dunque ad un investimento limitato per un numero di studenti (e di conseguenti circoli virtuosi) potenzialmente illimitato si è fatta ancora una volta la scelta più facile: invece di aumentare le risorse per andare incontro alla domanda, si è deciso di rendere l’accesso a tali risorse ancora più difficile e selettivo di modo da poter poi magari vantare un successo nella copertura di tutte le borse di studio.

Le sedie saranno sempre meno, e quando si fermerà la musica la prossima volta rischia di non sedersi nessuno.

Girlson Film
Foto: mirko isaia photography

Quale futuro per l’università?

febbraio 21, 2012 § 3 commenti

Proprio come fanno le persone a capodanno, l’Europa ha fatto i suoi fioretti per l’inizio millennio. “Diventare l’economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo, in grado di realizzare una crescita economica sostenibile con nuovi e migliori posti di lavoro e una maggiore coesione sociale” (documento conclusivo del Consiglio di Lisbona, marzo 2000). E proprio come le persone, anche l’Europa ha prontamente disatteso le sue promesse.


La strategia di Lisbona, piano unitario di sviluppo europeo per il decennio 2000-2010, prevedeva di portare la conoscenza al centro dell’agenda della società e dell’economia europea. Nonostante i buoni propositi, l’Europa ha dovuto ammettere di non aver affatto raggiunto i propri obiettivi (valutati con appositi indicatori statistici). E nonostante il progetto Europa 2020 rilanci con obiettivi ambiziosi sui piani dell’occupazione e della conoscenza (aumentare l’occupazione della fascia di età dai 20 ai 64 anni al 75%, portare l’investimento in ricerca e sviluppo al 3% del PIL o portare al 40% il numero di 30-34enni in possesso di titolo di studio), oggi è quanto mai difficile crederci.

Cosa è andato storto?
Si è fatto un gran parlare di società ed economia della conoscenza. Molta retorica politica del ‘900 predica l’avanzamento scientifico (leggi tecnologico) come un indispensabile volano di sviluppo e di crescita economica. Sebbene sia ancora lungi dal potersi definire un bene pubblico perfetto, nel Novecento la conoscenza ha fatto passi da gigante in quella direzione. Uno dei ruoli chiave di questa diffusione e democratizzazione del sapere è stato sicuramente giocato dall’avvento della così detta “università di massa”.
Nel nostro paese, la percentuale di studenti universitari sul totale della popolazione è passato dall’inizio alla fine del ventesimo secolo da meno di 1 su 1000 ad un 3% circa, con una brusca accelerazione nel secondo dopoguerra. A oggi il numero di studenti universitari in Italia, su una popolazione di circa 60 milioni di abitanti, si è assestato tra il milione e sette e il milione e ottocentomila, con una decrescita negli ultimissimi anni.
Complice anche l’alto tasso di abbandoni, l’output di giovani laureati nell’università italiana risulta spaventosamente basso se lo accostiamo a quello di altre nazioni: con il 20% della popolazione di età tra i 30 ai 34 anni in possesso di titoli di studio di terzo livello ci collochiamo al terzultimo posto tra i paesi OCSE, subito dopo il Messico, ben lungi da paesi come gli USA o la Francia, la cui percentuale è più del doppio della nostra, per non parlare della Corea, paese che sta vivendo una crescita economica senza paragoni, dove quasi due giovani su tre sono laureati.
Eppure, nonostante l’esiguo numero, assistiamo al dilagante aumento della disoccupazione tra i giovani laureati. Insomma, i giovani laureati in Italia sono pochi, eppure sono troppi – almeno dalla prospettiva del mercato del lavoro.
Se il sistema economico non sa che farsene dei giovani laureati, a che pro illudere dei ragazzi con la solfa stantia della “classe dirigente del futuro”, quando invece la loro laurea in lettere non farà che render loro più difficile l’accesso al call center? Se sforniamo più laureati di quelli le cui legittime aspirazioni riusciamo a soddisfare, a che pro destinare così tanti fondi alla spesa pubblica in istruzione invece di liberarli ad esempio per la sanità o per i servizi sociali? A che scopo investire sulla formazione di talentuosi dottorandi che non potremo riassorbire in alcuna professione di ricerca, regalando così intelligenze formate a qualche paese straniero o semplicemente sprecandole?
In questa chiave di lettura trovano una loro legittimità tutte le manovre politiche (e ancor prima culturali) volte ad alleggerire un sistema universitario sovrabbondante rispetto alle esigenze della società. Certo, nessuno (nemmeno il governo dei tecnici con la sua fiera indifferenza a velleità quali il consenso popolare) oserebbe affermare pubblicamente qualcosa di così scomodo come “rottamiamo l’università”: si parla più elegantemente di meritocrazia e razionalizzazione (Gelmini), si invita al ritorno ai lavori manuali (Tremonti), si additano come sfigati coloro che studiano ancora a ventotto anni (Martone, che essendo un tecnico non ha bisogno di essere elegante).
Questo governo si trova così a dover ridimensionare un sistema universitario ipertrofico, un edificio eretto con ingenuo ottimismo sulle fondamenta della retorica utopica della società della conoscenza, rimpiazzandolo con un edificio più snello ed efficiente, sostenuto dalle solide fondamenta del sistema economico.

A brave new world?
I piani per la demolizione, abbozzati dal team di Gelmini e migliorati dal tecnico Profumo, sono già avviati su molti fronti.
Oggi in Italia c’è circa 1 professore strutturato ogni 30 studenti: un numero particolarmente basso, che si traduce nell’affollamento delle strutture e nella superficialità con cui vengono “somministrati” certi corsi o seguiti certi tesisti. In Svezia questo numero è quasi il doppio. Per riportare a livelli accettabili questa proporzione, a beneficio della qualità della didattica, due sono le strade percorribili: aumentare i docenti o diminuire gli studenti.
In Italia circa 10.000 dei poco meno di 60.000 docenti e ricercatori italiani andranno in pensione nei prossimi dieci anni. Con un’azione legislativa di attuazione la legge Gelmini, il Ministero ha fissato rigidi criteri finanziari per le assunzioni, che non potranno mai superare un’assunzione per ogni due pensionamenti. A tappare le falle provvederà presumibilmente quello stuolo di “accademici usa e getta”, giovani brillanti e precari che battono alle porte dell’università sperando di non rimanere fuori dall’imbuto, e il cui numero oramai supera quello dei docenti strutturati.
A fronte di un questo calo del personale si farà allora urgente la necessità di abbattere il numero degli studenti, a cominciare dagli improduttivi fuoricorso che, secondo l’opinione diffusa dei politici e dei media, stanno sprecando il loro tempo e stanno parassitando risorse pubbliche.
Il Decreto Ministeriale 17 del 2007, promulgato dal governo Prodi-Mussi, ma che solo negli ultimi mesi sta venendo applicato, sancisce una serie di regole auree quali ad esempio il limite massimo di studenti per docente in base a specifici corsi di laurea. Pensato forse in origine come una chiave per aprire gli accessi a nuovo personale docente, oggi sta venendo impugnato dall’altra parte, favorendo in molte università l’adozione del numero chiuso.
Ma le misure più efficaci per ridurre il numero di studenti e/o per scaricare su di loro parte gli ingiustificabilmente alti costi dell’università pubblica devono ancora manifestarsi. Alcuni politici, economisti ed accademici guardano infatti a quanto è avvenuto nel Regno Unito con l’implementazione del rapporto Browne: le rette universitarie imponibili dagli atenei (e di fatto imposte dalla maggior parte) sono passate da 3000 a 9000£. Agli studenti è stato offerto per farvi fronte lo strumento dei “prestiti d’onore”. In Italia, dove il vecchio sistema di diritto allo studio fondato sulle borse di studio sta venendo lasciato morire di atrofia di finanziamenti, questo sistema potrebbe permettere l’accesso agli studi agli studenti “migliori”, che potrebbero altresì scegliersi gli atenei “migliori” operando così una selezione naturale in un contesto di competizione che porterebbe loro un sacco di iscritti e dunque soldi come “premio” per la loro qualità.
E se anche accadesse, come sta avvenendo nel Regno Unito, che molti studenti migrassero per studiare all’estero, che importanza avrebbe, visto che il sistema economico non sa che farsene di tutti questi laureati? Inoltre il prestito avrebbe il vantaggio di spostare i costi dell’università su chi beneficia dell’istruzione, solo se guadagnerà abbastanza da potersi permettere di ripagarlo; se non potesse allora sarebbe colpa dell’università, che avrebbe formato un professionista inutile o incapace, quindi a lei spetterebbe di pagarne i costi. Insomma, un sistema che moltiplica il denaro, e che rischierebbe di trasformarsi in una bolla finanziaria esplosiva solo nel caso in cui si arrestasse la crescita del PIL (opzione che i sostenitori del prestito d’onore ritengono semplicemente impossibile a fronte delle leggi del mercato, poco importano le dichiarazioni di recessione recentemente fatte dall’ISTAT!).
Infine, all’eccessivo numero di corsi, sedi e atenei metterà presto un freno l’ANVUR, l’agenzia di valutazione nazionale, vero e proprio braccio armato del Ministero. Un decreto di recente scrittura attribuisce infatti all’agenzia il potere e dovere di “accreditare” le strutture che soddisfano certi requisiti da essa sanciti ovvero di “sopprimere” quelle che non li rispettano. Una mossa volta a promuovere la competizione tra atenei premiandoli con la sopravvivenza, liberando la politica dallo scomodo ruolo di giudice e boia per affidarlo alle capaci mani “tecniche” dell’ANVUR.
Queste sono le incisive misure che il presente governo sta attuando per riportare l’università dall’iperuranio onirico della “società della conoscenza” alle necessità concrete del sistema economico. Promuovendo la ricerca applicata e il trasferimento tecnologico, così come l’apertura dei CdA agli esterni all’accademia, la politica si è rivendicata il ruolo del Cupido nella meravigliosa storia d’amore tra la CRUI (Conferenza dei Rettori delle Università Italiane) e Confindustria.
Il risultato da qui a dieci anni dovrebbe essere un’università ridimensionata, con una costellazione di atenei di medio-bassa qualità che erogheranno una formazione adeguata alla richiesta di maestrine, ingegneri e azzeccagarbugli; su questi svetteranno dei poli di eccellenza che accetteranno solo pochi studenti “migliori”, addestrati per diventare (questa volta per davvero!) la classe dirigente del futuro, a cui quindi sarà perfettamente legittimo chiedere di pagare i costi dell’istruzione di alta qualità che riceveranno.
Gli ultrà dell’università pubblica di massa di alta qualità non potranno allora che rassegnarsi alla logica lineare sottesa a questo teorema: si tratta del risultato migliore possibile dato questo sistema economico. L’università così com’è sta al sistema industriale italiano, col suo scarso appetito di laureati, come le case abusive alle pendici dell’Etna: è un edificio irragionevole rispetto alla morfologia su cui poggia.

Una prospettiva diversa
C’è una premessa implicita su cui si regge tutto il ragionamento: l’analogia tra il sistema economico e la conformazione del territorio. Se accettiamo che il sistema produttivo sia un dato inemendabile di cui la politica debba prendere atto per modellare sopra a questo un sistema di società allora il ragionamento non fa una grinza. Ma c’è un altra prospettiva per vedere la cosa, spesso messa in ombra dalla prassi oggi inveterata di considerare l’economia una scienza descrittiva di uno stato di cose non modificabile. Pur concedendo che un cambiamento del sistema universitario non possa prescindere da una maggiore permeabilità del mondo economico e della società tutta verso la conoscenza, invece di dismettere gli investimenti sul sistema formativo (che già non è sufficiente per sprigionare appieno tutto il potenziale cognitivo della nostra generazione) potremmo ripensare una società ed un mondo del lavoro capaci di assorbire il valore aggiunto di tutto quel capitale umano che ad oggi stiamo sprecando o esportando.

Marco Viola


L’individualismo ai tempi dell’austerity

febbraio 13, 2012 § 2 commenti

Lo spread sale, lo spread scende, lo spread decide il buongoverno. I giornali sono pieni di paroloni e articoli che hanno tutta l’intenzione di non farsi leggere. In tv gli spot invitano tutti a comprare, giocare, investire e richiedere mutui. Nei dibattiti televisivi gli esperti di questo e quello passano il loro tempo a ripetersi che la politica ha fallito e lo confermano gli stessi politici nelle interviste. Qualsiasi gesto compiuto da una controparte, un partito, un movimento, un gruppo di attivisti non viene più discusso nel merito, qualsiasi giudizio viene espresso per screditare l’avversario e accreditare la propria fazione, non si può più parlare di nulla. Esistono solo giusto e sbagliato, ognuno si erige a giudice supremo: questo è il livello di dibattito che la classe politica attuale, più che la politica, ha portato nel nostro paese.
Viviamo una situazione drammatica, nella quale ogni aspetto della nostra vita, dallo stipendio alla pensione, viene messo continuamente in discussione dalle scelte politiche imposte da una precisa ideologia economica, eppure nel quotidiano sembra non accadere nulla di diverso da ciò che era prima, ma gli stravolgimenti sociali, si sa, avvengono per piccoli passi.
Ognuno di noi gode, per lo più inconsapevolmente, di agevolazioni, servizi, diritti, senza sapere come sono stati conquistati.
Nel momento in cui il costo di un determinato servizio aumenta e non ne riceviamo più i vantaggi, ci sentiamo isolati, traditi e impotenti. Come se avessimo perso un privilegio e non un diritto.
Guardandoci intorno non troviamo alcun luogo in cui poter esprimere il nostro disagio, nessuno a cui rivolgerci e con cui costruire qualcosa per poterci riappropriare di quello che ci viene tolto, nessun meccanismo che dia la possibilità alla collettività per riscattarsi e muoversi, dal basso.
Nella società attuale, gli spazi di aggregazione in cui poter condividere queste battaglie sono pressoché nulli.
Una valida eccezione è l’Università, dove la comunità studentesca ha la possibilità di confrontarsi, scambiare opinioni, criticità, pensieri. Lì si possono costruire dei veri e propri gruppi solidali in grado di portare avanti battaglie comuni, che vanno da come ripristinare gli appelli al funzionamento dell’intera Università.
La dinamica di ciò che accade in questi luoghi ha poche analogie con quello che accade in altri ambienti, forse ancora un poco nella fabbriche o nei teatri, ma decisamente non negli ambienti lavorativi contemporanei, come i call center, le catene commerciali di fast food, abbigliamento…
Ciò che ci accomuna al resto del mondo lavorativo è la frequente tendenza a non condividere i problemi, o almeno a non cercare soluzioni a questi problemi con i nostri colleghi o compagni di corso. E spesso non ci rendiamo conto che quasi tutti i nostri problemi sono generati da una stessa matrice, la crisi.
Sto vivendo una crisi, c’è sempre una crisi nel momento in cui qualcosa non va.” (cit. Bluvertigo)
Lungi da me tentare spiegare qui cos’è la crisi e come è stata generata, dirò soltanto che le scelte fatte in tempo di crisi non sono casuali: tagliare gli stipendi, abbassare drasticamente le risorse delle Regioni, quindi imporre un aumento dei costi dei servizi pubblici, portare la gestione dei beni comuni nelle mani di privati, derogare all’articolo 18, istituendo i licenziamenti liberi, sono tutte scelte politiche; se poi queste scelte sono imposte da un governo che si definisce “tecnico” per coprirsi le spalle, in nome della coesione nazionale, e per sentirsi legittimato a compiere una vera e propria macelleria sociale, peggio ancora.
Teoricamente lo Stato dovrebbe farsi garante della salute e del benessere dei propri cittadini, per cui in una situazione di crisi come questa, dovrebbe provvedere a sanare le richieste di aiuto, con una maggiore offerta di servizi e agevolazioni.
Ciò che sta accadendo è l’esatto contrario.
Quest’anno la situazione drammatica delle famiglie italiane ha fatto sì che le richieste di borse di studio Edisu aumentassero, come di contro-risposta la Regione ha stanziato molti meno fondi dell’anno scorso. È ormai palese l’accordo tra Regione e fondazioni bancarie per far fallire il sistema di erogazione delle borse di studio e sostituirlo, già dal prossimo anno, con i prestiti d’onore. Come risultato di tali scelte quest’anno il 70% degli idonei non riceverà alcun aiuto economico per poter studiare e, con ogni probabilità, dovrà tornarsene a casa.
Tutto ciò, probabilmente, è da ricondurre alla propensione dello Stato italiano per un welfare familistico, piuttosto che per la tutela del singolo cittadino: così chi ha una famiglia alle spalle con un reddito dignitoso sarà molto più agevolato degli altri nell’entrare in Università, così come nel permettersi una casa in affitto e poi a laurearsi.
Ciò che ci rende simili è la nostra condizione sociale, quella di cittadini, per cui ad una determinata azione politica dello Stato corrisponde una conseguenza per tutti.
La classe politica degli ultimi anni, nei suoi disastri e nelle sue miserie, ha fatto sì che si sviluppasse in Italia una forte ondata di “antipolitica”, volta ad allontanare le persone dal porsi le giuste domande, a svilire il senso del dibattito politico trasformandolo in mera cagnara tra tifoserie, a svuotare gli organismi decisionali, come il Parlamento, di ogni significato politico e a delegittimare qualsiasi forma di politica. Per troppo tempo ci hanno fatto credere che i problemi della collettività non fossero responsabilità di questi personaggi. Troppo a lungo ci hanno fatto credere che i problemi sociali fossero questioni puramente individuali di qualche disagiato e che i problemi individuali di un singolo parlamentare fossero problemi sociali. Troppo a lungo la classe parlamentare ha dettato al popolo l’agenda politica, i temi d’interesse, sollevando dibattito solamente laddove fosse strumentale al perseguimento dell’interesse “di casta”, è ora che venga innescano un meccanismo contrario, per sviluppare dibattito laddove la collettività ne senta realmente la necessità.
In questo periodo abbiamo capito che questo modo di amministrare l’economia danneggia tutti, specie se l’economia si svincola dai paletti che la politica dovrebbe porle.
Se ci lamentiamo di questa classe politica incapace di rappresentare quelle che sono le vere richieste delle persone, poiché si organizza in modo troppo verticista per poterlo fare, dobbiamo essere noi in primis a rimetterci in gioco e a ripensare collettivamente ciò che direttamente ci riguarda.
Per fare ciò non possiamo permetterci più di giocare una partita uno contro tutti, dobbiamo necessariamente abbattere le barriere di categoria che il “dividi et impera” più che mai attuale ha posto tra di noi e ricostruire una rete di pensiero che possa in un futuro molto prossimo riappropriarsi dei diritti che ci spettano, di una condizione dignitosa della vita, del lavoro e della formazione, nessuno escluso, in nome del bene comune e non dell’utile individuale.

Camilo 2.0

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