Le vacanze in Spagna costano un occhio

aprile 25, 2012 § Lascia un commento

Quest’anno è la Germania che detta le tendenze per la primavera e l’estate. In Spagna per esempio, nella centralissima ed esclusivissima della Moncloa (la sede del Governo) politici ed amministratori stanno inaugurando una nuova stagione di colori sbiaditi e tagli netti, a cominciare dalla sanitá. Il taglio annunciato è del 10% rispetto al budget degli anni passati; in abbinamento alla mise «vedo non vedo, forse non c’è più» troviamo anche un tocco d’altri tempi: l’obbligo della donna a giustificare l’aborto al medico che le rilascia l’autorizzazione a procedere, non includendo tra le motivazioni accettate quella «socioeconomica».
Quest’ultima misura al momento non è nell’agenda delle prossime azioni del Governo, ma la dottrina pro-life è stata piú volte difesa pubblicamente dalla destra spagnola.
Nell’istruzione le forme suggerite appaiono familiari all’italico gusto: tagli al Fondo di Finanziamento universitario, aumento delle tasse attraverso la celebre formula dell’innalzamento della percentuale di contribuzione studentesca (non vi diamo meno soldi, è che dovete essere più collaborativi!) e della riduzione delle borse di studio; i Consigli di Amministrazione si popoleranno di rappresentanti «del mercato» non eletti da nessuno. Nell’insegnamento inferiore ogni professore vedrà aumentate le ore settimanali (licenziamenti) e faranno lezione a classi un 20% più numerose (più licenziamenti).
Questo e molto altro è previsto dala stragia «EU 2015«, l’attuazione delle direttive europee del piano di Bologna e di Nizza sull’istruzione.
Sul lato del lavoro la riforma continua la precarizzazione, o flessibilizzazione, del lavoro attraverso il libero sfoggio del licenziamento “per motivi economici” senza l’incorrere in sanzioni e con un’indennizzo al lavoratore corrispondente a 33 giorni lavorativi per anno di lavoro effettivo; maggiori possibilità di modifica del salario, delle mansioni e dell’orario
lavorativo, incentivi per chi sospende temporalmente il contratto, nuovo contratto di formazioni per giovani sotto i 30 anni, con salario minimo e durata tra uno e tre anni (periodo di prova di 12 mesi), possibilità di licenziamento collettivo senza passare dalla contrattazione sindacale. Questo e molto altro sulle passerelle iberiche. Sorpresi?
Se l’originalità non sta nell’essenza delle nuove mise proposte, la possiamo trovare nelle forme di attuazione di queste misure.

La risposta da parte di chi soffrirà i tagli è stata imponente: il 29 marzo. Lo sciopero generale in tutta la Spagna è stato attuato anche grazie a decine di picchetti che hanno fermato fabbriche, negozi e mezzi di trasporto pubblici, a blocchi del traffico per permettere alle persone di camminare verso un unico obiettivo per tutta la giornata: il futuro da riprendersi.
Una giornata che da ogni fronte di movimento è apparsa come ben riuscita. I media nazionali hanno riportato solamente le cifre del numero di cassonetti distrutti, dei danni totali ad edifici e cose, del numero degli arrestati e dei feriti.
La risposta statale e autonomica è stata più spaventosa che imponente: in Catalunya, a Barcellona, due elicotteri sorvolavano la città fin dalla notte precedente, e Guardia Urbana e Mossos d’Esquadra occupati in assetto antisommossa, che hanno cercato di mantenere l’ordine con non poche difficoltà: numeriche per le molte manifestazioni in contemporanea della giornata, e logistiche per l’ubiquità dei gruppi più aggressivi nei punti caldi (banche,
uffici dell’impiego, multinazionali, centri commerciali, imprese e auto di lusso).
La risposta si è articolata con arresti, lacrimogeni e proiettili di gomma: la prima misura ha riportato le persone all’epoca franchista, in molti associano le «bombas du humo» alla repressione del dittatore finita nel ’75, ma che ogni giorno di più sembra ricomparire nelle azioni politiche e di piazza.
I proiettili di gomma sono in dotazione alla polizia spagnola e alle polizie autonomiche, che in Catalunya ne fa abbondante uso; sono classificate come armi «non eccessivamente letali», ma dal ’95 ad oggi si stima che abbiano fatto già quasi venti morti, e centinaia di feriti gravi.
Le «balas de goma» hanno privato di un occhio tre italiani in situazioni non pericolose nell’ultimo anno, e lo scorso mese hanno ucciso un ragazzo basco per l’emmoragia cranica che possono provocare.
La violenza che si percepiva sfilando per le strade di Barcellona durante la huelga general è disorientante: le polizie (nazionale e autonomica) arrivano all’improvviso sfrecciando a tutta velocità per disperdere le persone (spesso facendo male a qualcuno), e se le persone non se ne vanno saltano giù dalle camionette ancora in movimento per picchiare alla cieca: manifestanti con le mani alzate, fotografi, giornalisti, turisti ignari, fino a che esauriscono la scarica di adrenalina per poter continuare la loro folle corsa a sirene spiegate, in gruppi di 6- 10 camionette con 8-12 mossos per ognuna. Non importa «di che spezzone tu sia», non devi stare in strada, nemmeno sul marciapiede, la strada è loro.
Alti incarichi del ministro dell’Interno e della Polizia hanno rivendicato la buona attuazione poliziale, che di fronte a «masse tanto aggressive» non poteva discernere i buoni dai cattivi: si dispiacciono per i buoni che hanno pagato, ma avrebbero dovuto semplicemente allontanarsi dalla manifestazione.
Le reazioni a questa giornata sono state duramente repressive da parte dello Stato: è stata infatti proposta una riforma del Codice Penale riguardante le norme processuali per atti di guerriglia urbana e la legge di sicurezza cittadina. Il ministro dell’Interno Díaz – un nome una garanzia – vuole introdurre il reato di attentato all’autorità attraverso resistenza passiva o attiva grande, con una pena tra 1 e 6 anni, il reato di diffusione di convocatorie violente attraverso internet e l’allungamento della detenzione preventiva; inoltre si estenderà la quantificazione dei danni alle interruzioni di servizi pubblici, mentre attualmente si valutano solo i danni a cose.
Si è negato che queste misure servano a restringere la libertà di manifestazione, affermando che si vuole punire solamente chi compia un atto di «autentica prostituzione del diritto di manifestazione». Un aneddoto su questa frase: oltre a non aver sicuramente convinto chi dubitava sulle finalità di queste misure, ha aumentato l’indignazione delle lavoratrici sessuali spagnole, già organizzate da tempo in una piattaforma e che il 26 aprile scenderanno in piazza per rivendicare la dignità della propria attività, sentendosi anche loro sempre più in pericolo trovandosi in uno spazio pubblico, e il pericolo è costituito dalle forze dell”ordine. (Prostitutas indignadas).
I movimenti hanno reagito súbito ai 70 arresti nel giorno della manifestazione, di cui 3 preventivi confermati in vista della riunione della Banca Centrale Europea a Barcelona il 2 e 3 di maggio. Sta nascendo una piattaforma antirepressiva che riunisce, al momento, una quindicina di movimenti politicamente trasversali di quella che si potrebbe chiamare
l’area extraparlamentare, che hanno chiamato una manifestazione ieri a Barcellona contro la repressione crescente; si muoveranno in direzione tecnica (supporto legale agli arrestati e durante le manifestazioni) e politica, perchè la grande domanda che le persone sentono crescere è: che cos’è la violenza? Ed è una domanda che molti italiani si sono ritrovati a farsi dopo gli avvenimenti in Valsusa quest’anno.
Alla fine della manifestazione contro la repressione di domenica 22 aprile sono state fermate 6 persone, di cui 2 ora in arresto per aver fatto delle scritte sui muri, reato che normalmente è punito con una multa. Non solo non si sono giustificati gli arresti, ma si continua con la violenza verbale da parte delle forza dell’ordine, che hanno replicato attraverso il suo Coordinatore generale regionale David Piqué: «si possono nascondere dove vogliono, perchè li troveremo. Sia in una caverna o in una cloaca, dove si nascondono i ratti, o in un’assemblea, che non rappresenta nessuno, o dietro la scrivania di un’università». Parole quanto meno dinamitarde in un momento di crisi ecnomica senza possibilità all’orizzone di risalita. Il primo maggio ci sarà la manifestazione annunciata già dal 30 marzo.
In tutto questo clima di violenza, non è mancato chi ha cercato negli stranieri la causa delle violenze: un articolo della Vanguardia dell’8 aprile a firma di Enric Juliana accusa anarchici italiani affiliati del movimento No Tav di essere «il germoglio anarcoitaliano violento degli scontri nel giorno dello sciopero generale». Un tocco di esoticità che piace di qua e di là.
Intanto continuano gli sgomberi di persone che non possono pagare il mutuo, continua l’emigrazione degli spagnoli, le uscite africane a caccia di elefanti del re e il lancio di «nuove collezioni»: il vintage è tornato davvero di moda, e guardando bene ci si accorge che non sono capi nuovi a cui si è volontariamente deciso di attaccare delle «pins» o di aggiustare con spalline perchè sembrassero antichi: qualcuno ha tirato fuori vestiti da un armadio che si sperava definitivamente chiuso.

Girafa Desquiciada

Articolo 18: Tafazzi come il Che

aprile 8, 2012 § Lascia un commento

Di Golia Magro*

L’Articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori è stato – di fatto – abolito. Prima che ciò avvenisse ad opera di strani tecno-robot di governo, a discapito di qualunque principio della robotica asimoviana, il reintegro nel posto di lavoro – garantito dall’articolo 18 – scattava laddove l’azienda non riuscisse a provare che il licenziamento fosse giustificato. Se questo non avveniva, o se l’argomentazione non era sufficientemente efficace, o se le carte provavano un’altra storia, il padrone doveva riassumere il lavoratore.

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Adesso, invece, il reintegro scatta solo se il licenziamento è “manifestatamente” ingiustificato. Oppure se è discriminatorio. In pratica, ti posso discriminare – ma devo assolutamente dire che il fatto che sei comunista, o nero o donna, non ha influito per nulla sul tuo licenziamento: il fatto è che sei rimasto intrappolato in teleologiche strategie aziendali.  Vediamo più nel dettaglio come funziona.

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Se sei negro non ti posso licenziare in quanto negro. Ma se ti voglio licenziare comunque, perché io sono leghista e tu sei negro e non ti voglio pagare i contributi che rubi ai miei figli; o perché tu sei donna e mi hai tirato uno schiaffo perché t’ho palpato le chiappe mentre eri in catena (e che sarà mai!); bhè, negro di merda o femminista del cazzo, lo posso fare comunque.

Mi basta licenziarti. Poi tu scegli se fare ricorso o no – nel qual caso rischi di perderti pure la liquidazione. Ma se per caso sei uno di quei comunisti del cazzo, sempre a parlare parlare senza mai far nulla, e fai ricorso al giudice… Spetterà a me l’onere della prova.

Significa che la storia del tuo licenziamento la racconto io. E dirò al giudice che il tuo licenziamento è per motivi economici, e gli sparerò una serie di numeri e dati inventati o falsati, dipingendo la tua cacciata come una moderna, innovativa ristrutturazione di governance. Lo so… è una bugia. Ma vedi, il giudice non potrà dirmelo. Lo sancisce la legge. Il giudice potrà solo verificare la “manifesta insussistenza” della giusta causa. Questa è la condizione scritta nella legge per il reintegro. Ma qui di “manifesto” non c’è un cazzo. E’ tutto motivato, tutto scritto, ci sono le cifre. E se prima quelle toghe rosse potevano venirmi a fare le pulci sul fatto che licenziare un negro a caso non aveva niente a che vedere con la ristrutturazione aziendale, adesso non possono mica dire nulla. Ci sono le tabelle. C’è tutto. La giusta causa, la racconto io. La giusta causa, è la mia. Ed è l’unica valida per la Legge. E la Legge, negretto di merda, è lo Stato. E lo Stato, puttanella comunista, è più forte di Dio, dei Power Rangers e persino della Merkel.

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Giovane italiano di 22 anni, studente di materie umanistiche, mediamente interessato alla cultura e alla politica del suo tempo. E’ l’identikit della depressione post-ideologica. Una volta ho visto una puntata di Ballarò su questo target. Protagonista di un servizio bello lungo era una giovane studentessa laureata in Lettere (ovvio!) a Roma col massimo dei voti (altrettanto ovvio!), disoccupata (ovvio!), nullafacente (ovvio!), rifiutata nei colloqui di lavoro (ovvio!) nonostante le sue grandi doti intellettuali (ovvio!). La frase neorealista del servizio era: “mi sveglio tutti i giorni a mezzogiorno e cerco lavoro su inernet”. Ecco, la nostra generazione c’ha questa immagine in testa. Siamo già depressi. Siamo disillusi, convinti che nulla ci possa – ormai – scalfire.

E invece… vedi che questo grande paese ti riserva sempre una sorpresa? Che la frontiera della tristezza è sempre un po’ più in là di quanto pensi?

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Funziona così.

Ti svegli un giorno di febbraio e scopri che qualcuno che parla come un robot vuole cancellare l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori. Una tizia piena di rughe, della tua città, stronza come pochi, con quella litania vocale da serial killer da film di Dario Argento, sostiene che non ci sono cazzi: lo cancellano davvero. Perché? “Perché è giusto così, che domande!”

Ti svegli un giorno di marzo e senti che quel tipo con l’accento da gnocco fritto e il toscanello nelle labbra (perché l’immagine è tutto; in mancanza di cervello / meglio un toscanello) promette dura opposizione, che no pasaràn, che possiamo stare tranquilli. Anche l’altra, quella bassa e brutta che fa la sindacalista, ammonisce dure iniziative popolari. Eddaje, Susà! Daje! Famo casino!

Poi ti svegli un giorno d’aprile, in dopo sbronza, sei incazzato con te stesso ché stai male dalla sera prima, accendi il pc, ti fai un caffè e rolli una sigaretta. Non stai bene, fisicamente; moralmente aspetti i prossimi dieci minuti di news fitte fitte che bisogna valutare bene il proprio umore a seconda dei giorni (non si deve essere tristi senza motivo). Click – repubblica.it – click – ilmanifesto.it – click – corriere.it. Adesso sei sveglio. E scopri che alla fine l’articolo 18 lo eliminano davvero.

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La mia prima manifestazione nazionale a Roma fu contro l’eliminazione dell’Articolo 18. Era quella grande, con milioni di persone, che manco si passava al Circo Massimo. Marzo 2002. C’era Cofferati, che poi divenne uno un po’ stronzo, ma che mio zio ex-Lotta Comunista definiva il “leoncino”. E se lo diceva mio zio, ch’era mezzo bombarolo, vuol dire che era un tipo a posto. Avevo 11 anni. Che svacco quel treno! Ma quanta gente. Alla fine l’avevamo pure spuntata. Mi ricordo di amici e compagni, militanti di vario tipo, che mi dicevano: “la CGIL s’è bruciata tutti i soldi che aveva per fare sta manifestazione, coi treni, con gli autobus…” c’erano pure i panini e le cioccolate e le acque minerali.

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Lo eliminano. E già sei arrabbiato.

Poi leggi meglio, e scopri che il tizio col sigaro dello gnocco fritto è contento, perché l’hanno spuntata loro, quelli che… il riformismo. E’ contenta anche la tipa brutta e bassa con le sembianze da cocker. Perché alla fine c’è scritto, nero su bianco, “reintegro”!

A questo punto non sei più incazzato. Sei solo frastornato.

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Immagina che un enorme pugile tenti di stuprarti. Hai perso tutte le speranze di fuggire e salvarti dal destino infame e penetrante. Improvvisamente spunta un poliziotto. A quel punto, sollevato, chiedi aiuto; ma invece di salvarti, lo sbirro prende il manganello e passandolo con gusto al pugile dice: “sputaci sopra, che entra meglio”. E’ quell’emozione lì.

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Non è ancora finita. Continui a leggere, accendi la TV (cosa che non fai mai) e lasci RaiNews su per ore e ore; e succedono tre cose.

Prima di tutto, la donnina da chihuahua e cocaina che gestisce Confindustria dice che secondo loro questa riforma è una fregatura, che così non basta mica, ci vuole la frusta coi lavoratori sennò quelli si fanno strane idee.

Poi, il robot inaugura un progetto europeo a Pompei. E per rimanere nel tema “rovine della nostra civiltà”, non si lascia sfuggire un commento: è inutile che gli industriali e le donnine da chihuahua e cocaina protestino, perché tanto non si sono accorti che il reintegro è ormai un ricordo, non succederà mai, basta stare accorti coi giudici e pagare gli avvocati. Emma, dai, non fare le bizze!

E infine, il grande P. Ichino, giuslavorista e campione nazionale di strip-tease padronale, rilascia un’intervista a Il Sole 24 Ore:

“è la prima volta in quarant’anni che viene apportata una correzione in questo senso all’articolo 18. Certo, è un passo più piccolo di quello che sarebbe stato possibile, se tutte le forze politiche avessero cooperato per il passaggio del nostro mercato del lavoro dal vecchio modello arretrato, caratterizzato da un marcato dualismo fra protetti e non protetti, a un modello nuovo, più efficiente ed inclusivo”

***

Forse esiste un punto della razionalità umana che, semplicemente, non può essere sorpassato per ragioni genetico-biologiche. Giunti ad una certa soglia, non esistono più parole, metafore o aneddoti in grado di esprimere ciò che si prova di fronte agli avvenimenti del mondo e ai comportamenti degli altri esseri umani.

Non c’è storiella divertente, battutina su Ichino e sui suoi orifizi, su Bersani e il suo cervello palesemente in fuga da anni, su Camusso e Marcegaglia o Monti o Fornero in grado di spezzare la tragicità degli eventi e rilanciare a speranza futura.

E’ lo zero comico. Il punto d’arrivo e d’arresto della satira. E’ Tafazzi. E’ lui il nostro unico e possibile eroe, di questi tempi. Avevano ragione Aldo, Giovanni e Giacomo.

Tafazzi è il nostro Che. Speriamo non lo uccidano in Bolivia.

*Golia Magro è ricercatore precario di Sociologia Economica all’Università degli Studi di Pordenone. Il suo ultimo libro è “Weber e le Diseguaglianze di Classe: uno studio comparativo”.

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