Le contraddizioni del Torino Jazz Festival

aprile 29, 2012 § 2 commenti

Colonna sonora (1): Niente più- Leo Ferrè

-Ma hai visto che figata il Jazz Festival?-
-Chi c’è?-
-Jamal! E un sacco d’altra roba pazzesca.-
-Figo. Aggratis?
-Tutto gratis e in piazza.

Mica male, devo essermi detto. Ho portato il flyer a casa e l’ho appeso con una puntina alla scrivania, illuso che mi potesse mai passare di mente. Ovviamente non è stato così. Aspettavo il festival con voglia sempre maggiore. Dovrei studiare. Ma sì, vado direttamente alle 6 per il primo concerto, così prima studio un po’. Magari un po’ prima; sì ma non molto, eh. Tanto è in piazza, troverò posto. Ricevo una telefonata: “Ah, ma non sei ancora arrivato? Avrai una brutta sorpresa…”
Il palco di piazzale Valdo Fusi è in una posizione improbabile. C’è davvero qualcosa di strano. Sembra una propaggine del Jazz Club. La piazza è completamente vuota, perché il palco gli dà le spalle. Mi spiegano che ci sono 400 posti a sedere(un po’ pochini), alcuni sono riservati per le autorità e poi non è più possibile accedere alla “sala”. Alla sala? Doveva essere un evento di massa. Lo so, il jazz non è di massa, ma è pur sempre una musica dalle forti radici popolari e forse è un bel regalo, riportarlo nelle strade per essere goduto, come circa un secolo fa, da qualsiasi persona. Ecco, cosa ho pensato: non sarà facile, ma potrebbe essere una buona occasione. Anche solo per togliere al jazz quella patina di intellettualismo di cui si è vestito negli ultimi anni in Europa, più che negli States. Tant’è: ci si prova, vediamo come funziona sbattere Jamal in mezzo alla gente. Sta per iniziare il concerto e la gente si accalca al lato del palco, dove c’è una discesetta erbosa e le grate d’areazione del parcheggio. Che tu bestemmi e pensi perché cazzo con tutte le splendide e sconfinate piazze della Torino monarchica dovevi scegliere un maledetto parcheggio a forma di imbuto. Provi anche ad ascoltarti le note (che, poi, entrando sotto, con un po’ di stalking sui volontari e un po’ di fortuna sono riuscito a godermi) di Franco Cerri, Renato Sellani e Dino Piana: tre autentici senatori del jazz italiano. Ma il pensiero inizia a roderti: perché una roba del genere? Perché fare un evento di massa e escludere la massa? Strano, perché l’assessore Braccialarghe aveva detto tra un concerto e l’altro «Con il Tjf voglio allargare l’offerta culturale con iniziative di alto profilo, completamente gratuite, per avvicinare pubblici nuovi, e uscire dalla solita cerchia ristretta di frequentatori. Se anche non c’è stato un turista venuto per il festival ma 30 mila persone l’hanno scoperto, anche per caso, sono contento. Abbiamo fatto centro». Ci sono un po’ di tarli che mi rodono e un fastidio crescente per l’organizzazione approssimativa. Qualcuno dice “ma dai, è la prima edizione, miglioreranno”; qualcun altro “queste porcate solo a Torino”. Anche se chi non è torinese e si gira concerti e festival in tutta Italia da anni lo sa bene che non si tratta solo di Torino, in piazzale Fusi non è difficile trovare il perno: il Jazz Club Torino e il suo Presidente Fondatore, il benemerito Fulvio Albano.

Casualmente, il Presidente del Jazz Club, musicista di buon livello e organizzatore da sempre di eventi nel mondo del jazz, occupa il ruolo di Curatore Artistico di piazzale Fusi per il Festival. Altrettanto casualmente, il palco è montato come una vera e propria propaggine del Jazz Club, in cui, appena finisce il concerto sul Main Stage, parte un concerto con aperitivo e cena.

A pensare male si fa peccato ma spesso ci si azzecca (cit. il divo Giulio)

Colonna sonora (2): Take Five – Dave Brubeck

Secondo giorno di festival; si parte da casa con largo anticipo per riuscire a entrare nell’esclusiva platea approntata per l’evento, c’è Ahamd Jamal, impedibile, non si può rischiare di rimanere fuori e improvvisarsi come il giorno prima esperti di free-climbing insieme agli avventori più attempati e diversamente giovani. Arriviamo in piazzale Valdo Fusi con largo anticipo (sono le 16.30), tant’è che gli ingressi sono ancora chiusi e la fila davanti a questi è di modesta entità. In fila ritornano le stesse domande: perché mettere il palco in quella posizione? Perché non mettere il palco all’estremo opposto del Jazz Club, in modo da avere tutta una piazza a disposizione? Perché non girare il palco?

A dire il vero  in pochi si arrovellano con noi intorno a questi interrogativi, i più sono completamente protesi ad accedere all’esclusivo privilegio di un posto a sedere, hanno lo sguardo del predatore, sono attenti, svegli, sanno che dovranno correre e sgomitare per non rischiare di rimanere fuori. Ma noi fungiamo da calamita per tutti i polemisti di professione presenti in piazza e  attorno a noi c’è molta meno tensione. In realtà, i nostri amici entrano presto nella spirale della rabbia più incancrenita, arrivando a scagliarsi rabbiosamente contro chiunque, in una guerra tra poveri che ha dell’assurdo. In successione ne subiranno l’ira funesta: i furbi della fila, i ragazzini dello staff, i fotografi. Decisamente più sobrio l’atteggiamento del tipo rassegnato per cui l’accesso alla cultura derivato da questo tipo di eventi gratuiti è una concessione di una qualche non meglio specificata autorità o sponsor economico, e tanto vale non lamentarsi visto l’eccesso di generosità dimostrato nel rendere gratuite performance di questa portata e pazienza se i posti sono limitati e non ce n’è per tutti, è già tanto quello che ci è stato concesso, meglio non esagerare con le pretese. Ma a noi sobillatori di polemisti sobillati dai polemisti stessi non sfugge la matrice economica di un festival del genere, dai nomi degli sponsor principali (Iren e Intesa San Paolo- tralasciamo per ora la polemica sui finanziamenti, per cui rimandiamo a queste congetture de Lo Spiffero) all’eccessivo zelo mostrato dall’organizzazione affinché ci fosse un sicuro rientro economico per le attività commerciali della Torino centrale. L’ennesimo investimento economico in turismo e intrattenimento, travestito da evento culturale.
Siamo dentro, siamo tra i pochi fortunati.

La “sala” si presenta elegante e raccolta, tinta di nero rispetta l’etichetta che alcuni pretendono per questo genere di musica. È subito piena nel giro di pochi minuti. Ma la folla esclusa è tanta, spinge sulle transenne e preme per poter entrare. I ragazzini dello staff, messi di guardia (13/14 anni), hanno evidenti difficoltà a trattenere ragionevolmente questa folla inferocita. Qualcuno fa il furbo e passa, ma viene subito avvisato che se dovesse presentarsi in ritardo l’assessore comunale dovrà cedergli la sedia conquistata (mai parole furono così tanto fuori luogo).

Ormai ci siamo, Jamal, Riley, Cammack e Badrena dopo un inizio in sordina partono per la tangente; i brani da “Blue moon” sono brillanti e le rare incursione nel primo repertorio si vestono di una luce tutta caribbean data dall’apporto sempre puntuale di “Manolo” Badrena alle percussioni. Tutto il set prende quota e coinvolge sempre di più il pubblico, dentro e fuori la sala: si battono addirittura le mani. Sembra di recuperare un po’ delle radici che c’è nel jazz…magia “dell’uomo dalle due mani destre”.  Presi dal battito di mani fragoroso, ci guardiamo intorno: in questo secondo giorno di festival gli alpinisti improvvisati si sono quintuplicati. Anche il resto della piazza è piena. Un evento con un’enorme partecipazione castrato. Nel resto della serata possiamo apprezzare particolarmente, ritenendola geniale, la trovata di far suonare un solista su di una chiatta in mezzo al Po; dei lati positivi e per una recensione completa del festival ci riserviamo di aspettare la fine.

Ma si fa tardi nello scrivere questo resoconto, bisogna scappare a prendere i posti.

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