Della Violenza: “Diaz – Don’t clean up this blood”

Maggio 21, 2012 § 7 commenti

Recensione hegeliana in tre atti

Il cavallo di Troia

Diaz- Don’t clean up this blood, è uno dei film più discussi del momento. È perciò inutile ricordare l’importanza che una pellicola del genere riveste nel panorama culturale italiano, a livello di memoria storica. Il regista, Vicari, ha senza dubbio prodotto un’ottima pellicola, esplorando sapientemente il confine fra testimonianza storica e finzione. Ci ha regalato un film al contempo fruibile e struggente, che è insieme una rievocazione fedele e un pugno dritto allo stomaco dello spettatore – per non dimenticare. Le scene di violenza sono girate come nel migliore dei film d’azione, e dalle sale siamo usciti commossi, afflitti. Vicari ha accontentato tutti: Diaz offre suspense e denuncia politica, love stories e azione, ragazzine in deshabillé e crani fracassati, e catapulta lo spettatore indietro fino ai fatti del G8, rievocando le ragioni degli indignati. Un cocktail perfetto.
Fin dal principio del film, però, dalla mia poltroncina in fintapelle ho subodorato che qualcosa non andava. È cominciato tutto con un fastidio impercettibile, un prurito fastidioso e indistinto. Cos’era? Forse che, banalmente, mi indispettiva la spettacolarizzazione dei fatti del G8? No, non era quello. Certo, in Diaz la narrazione è affrontata utilizzando gli stessi canoni cinematografici del cinema di mercato capitalista, ovvero quel cinema che promuove da sempre l’ideologia borghese contro cui stava combattendo chi si era rifugiato alla Diaz. Ma la causa del mio attacco pruriginoso non era la patina di plastica e di inautenticità simulacrale che avvolgeva le immagini.
Riflettendoci durante la proiezione ho ritenuto, al contrario, di considerare tale specificità un pregio. Si tratta, verosimilmente, di un mezzo astuto per raggiungere il grande pubblico, e diffondere su larga scala la memoria storica dei fatti del G8. La copertina patinata e la sfavillanza hollywoodiana assurgono in Diaz al ruolo del moderno cavallo di Troia, sono uno strumento resistenza contro l’esecrabile silenzio dei media durante questi anni.
Se una valutazione del genere può sembrare inusitata, è per via di una fallacia tipica della critica cinematografica, che portiamo tutti nel cuore: l’idea è che il cinema di denuncia non può criticare la società senza criticare i linguaggi con cui la società stessa si descrive e si promuove. Secondo gli intellettuali e i grandi esperti di cinema, non si può spettacolarizzare la critica della società dello spettacolo, perché si cadrebbe in contraddizione, perché sarebbe ipocrita. Ma i risultati di questo approccio sono tristemente noti: decenni e decenni di cinema di denuncia inintelligibile al grande pubblico. Oggi qualcosa è cambiato. Ma se è vero che siamo al tramonto dell’epoca del cripticismo e dell’avanguardismo gratuito, allora è proprio Diaz il film paradigmatico che leva il sipario della nuova era, l’era di un nuovo cinema italiano, all’insegna di uno stile narrativo più democratico – più vicino al telefilm che al cinema d’essai: un cinema costellato di ossa rotte, fichette in tiro e ralenti commoventi.

La sindrome di Pontecorvo

   

Dopo un primo tentativo di riscattare Diaz, ho prestamente cambiato idea. Non ci si può autoingannare per più di dieci minuti, guardando un film del genere – il prurito resta, insistente. Certo, bisogna ammettere (contro la vulgata) che sulla spettacolarizzazione cinematografica della violenza si può chiudere un occhio. È vero, la sequenza dei pestaggi all’interno della Diaz e quella delle violenze nella caserma di Bolzaneto sono crude, pornografiche. Ma un po’ di sangue e una decina di minuti di manganellate col “tonfo” erano inevitabili: è la Storia.
Ciò che non convince in Diaz, piuttosto, sono gli espedienti retorici, la violenza espressiva e il patetismo con cui si incorniciano gli eventi del G8 in una prospettiva sommaria e monolitica. È vero, talvolta si apre uno spiraglio per il confronto dialettico: lo sguardo si sposta dietro gli scudi degli sbirri, o si insinua nelle caserme, per scoprire i timori dei responsabili del blitz: “Fate come volete”, dice uno di loro, “Ma io i miei non li tengo più”. Un tipo responsabile, ci diciamo, e lungimirante: non erano tutti cattivi, allora. Tuttavia, salvo questi brevi barlumi di polifonia Diaz è un film dove suona un solo strumento: un lungo a solo di indignata compassione – Vicari, in breve, se la suona e se la canta.
È per questo che uscito dalla sala ho ripensato al noto e citassimo articolo di Jacques Rivette, uscito sulle pagine dei Cahiers du Cinéma sotto il titolo “De l’abjection”. Chi lo conosce ricorderà che vi si denunciava l’eccesso di forza espressiva di una carrellata del film Kapò di Gillo Pontecorvo: l’inquadratura incriminata dipinge il suicidio di una prigioniera di un campo di concentramento nazista. L’articolo recitava più o meno così:

Vedete dunque in Kapò il piano dove Riva si suicida, gettandosi contro il filo elettrificato: l’uomo che decide, in quel momento, di fare un carrello avanti per inquadrare il cadavere dal basso verso l’alto, avendo cura di inserire la mano rimasta in alto esattamente in un angolo dell’inquadratura, quest’uomo non ha diritto che al più profondo disprezzo.

Un simile e legittimo disprezzo lo si prova, in Diaz, in più occasioni: nel vedere uscire dalla scuola i corpi macellati, fasciati dentro le barelle e cullati dalle note commoventi del violino di Balanescu. Lo si prova sul primo piano della bellissima Alma che, reduce dei pestaggi della caserma, si presenta sdentata, denutrita, umiliata, col culo sporco di merda, ma nonostante tutto truccatissima e stupenda, i capelli che ondeggiano nel vento accompagnati dal suono languido del pianoforte.
Simili inquadrature, oltre a sfiorare il patetismo più aberrante, suscitano a tutti gli effetti “il più profondo disprezzo” di cui parla Rivette.

Il gioco della bottiglia

Sia lode al dubbio!
Vi consiglio, salutate 
serenamente e con rispetto
chi 
come moneta infida pesa la vostra parola!
Vorrei che foste accorti,
che non deste 
con troppa fiducia la vostra parola.

Ho concluso sull’idioletto di Vicari, sul suo stile personale. Resta da valutare il messaggio del film, e ho già rammentato l’indiscussa importanza di una ricostruzione tanto rigorosa dei fatti di Genova. Vorrei perciò spendere le mie parole conclusive per segnalare alcune interpretazioni controverse a cui la pellicola ci invita.
Tutti ricorderanno che la sequenza di apertura registra il volo di una bottiglia che va a frantumarsi su un marciapiede. È la bottiglia lanciata durante un assalto che alcuni ragazzi della Diaz improvvisano contro una jeep della polizia. La bottiglia è la chiave di volta del film: lo apre e lo chiude. Qual è il suo perché?
La bottiglia serve a ricordare allo spettatore come sia stata una bravata (fatale) a innescare gli episodi di violenza del 21 luglio. Ma non si tratta di asserire che tutto è avvenuto per una marachella presa troppo sul serio. Non è l’idea di Vicari, il quale, per non lasciare spazio a derive interpretative, ha inserito nel finale una scena significativa che intendo ricordare.

Etienne (di professione incendiario di cassonetti e intrepido black block) e la sua amica Cecile entrano nella scuola devastata dal blitz e si rendono conto di cos’è accaduto. Mentre la biondissima Cecile, sconvolta, appende il cartello di cui il sottotitolo del film (don’t clean up this blood), Etienne ha un’intuizione sconvolgente e davvero singolare, perché si mette a correre a rotta di collo fuori dalla palestra, oltre il portone e il cancello, fino nella strada. Cecile, che è una ragazza ragionevole, lo insegue per interrogarlo. Lui risponde lapidario: “È noi che cercavano”. Estrae dalla tasca la maschera antigas che gli ha regalato il suo compagno di scorribande e la getta teatralmente a terra, per volgersi e camminare verso un orizzonte luminoso. È redento: ha finalmente compreso che la violenza è sbagliata, perché porta solo alla violenza.

La morale di Diaz è semplice: sui black block grava la responsabilità della repressione e della violenza condotte dalla polizia italiana contro gli ospiti della scuola – repressione che, se da un lato è cieca e ingiustificata, dall’altro ha la sua origine nei cassonetti incendiati, nelle bottiglie lanciate contro le camionette, nel comportamento irresponsabile e sconsiderato dei “ragazzi violenti”.
In Diaz, come in ogni film americano, ci sono i buoni e i cattivi. Alcuni cattivi (i poliziotti) sono certo più cattivi di altri (i black block). Ma la denuncia di Diaz non si estende solo ai primi, e lascia intendere con faciloneria che i ragazzi che hanno incendiato Genova siano la causa prima di quanto accaduto alla Diaz. Certamente vi è una parte di verità – ma la realtà non è così semplice come nei film.
In definitiva, il film di Vicari, più che un film sulla violenza, o un film contro la violenza, o un film con della violenza, va a ragione classificato come un film violento: violento nell’impugnare il bisturi con cui divide il bene dal male, e violento negli espedienti retorici (le carrellate à la Pontecorvo, i ralenti commoventi, le note soffuse della colonna sonora) che impongono un’unica interpretazione, un’unica prospettiva di fruizione per lo spettatore. Diaz, come ogni buon film americano, dipinge tutto o di bianco o di nero. Si tratta di un film pericoloso: per il suo messaggio e per il suo stile, è un arma a doppio taglio, una bomba a orologeria. Bisogna auspicarsi che non faccia scuola, e che questo cinema di denuncia patinato, superficiale e inflessibile non si imponga su un “Altro” cinema, quello che lascia ancora respiro alle domande destinate a rimanere aperte. Perché stordire lo spettatore con sangue, biondine nude e melodie ipnotiche non è fare cinema di denuncia – al massimo, è fare cinema di regime, o cinema hollywoodiano di serie B.

Andrea Bacino

Standard and Poor’s declassa Roma 3

aprile 7, 2012 § Lascia un commento

Scioccante decisione dell’agenzia di rating Standard and Poor’s che, nella giornata di ieri, ha annunciato di aver declassato il giudizio sui titoli dell’università Roma 3 da A++ ad A. Per rassicurare i mercati, il C.d.A. dell’ateneo ha annunciato l’immediata espulsione di tutti i fuoricorso nonostante la ferma opposizione degli studenti del terzo polo (universitario).
Ha colto l’occasione una cordata guidata da Unicredit che ha subito annunciato l’apertura di una nuova università presso l’outlet di Valmontone; ancora non si sa se il nuovo polo si chiamerà Università C.R.T. (Ciao Roma Tre) o Roma 4 S.p.A..
Intervistato da un quotidiano locale, il rettore dell’università di Catania dichiara: “non temiamo la concorrenza, per rassicurare i nostri clienti abbasseremo ulteriormente la qualità dell’offerta formativa.”.
Malgrado questo scossone, grazie alla risalita dell’euro, tengono bene i titoli nostrani: La Sapienza resta stabile a quota 0.6 Ph.D Yale, risale a 0.47 il Politecnico di Torino, in leggera flessione la Bocconi a causa dell’improvvisa carenza di docenti dopo l’ultimo aumenti dei ministeri del governassimo.
In crescita esponenziale i titoli delle università inglesi dopo l’aumento delle rette e il dimezzamento degli iscritti: la strategia congiunta con i petrolieri del Quait per affamare la domanda e far salire i prezzi comincia a dare i suoi frutti. Non sapendo come reagire a questa contingenza i mercati mimano una rassicurata tensione con sopracciglio alzato.
Procedono intanto le manovre di Austerity al San Raffaele, ormai commissariato dopo la sfilza di suicidi tra i membri del Consiglio di Amministrazione. Per sbloccare i prestiti del F.M.I. La Troika ha imposto la vendita della famosa cupola a un interessatissimo magnate giapponese che ha già inviato gli elicotteri per il trasferimento. Misura inaccettabile per studenti e professori che si sono scontrati anche oggi con le forze dell’ordine.
Il leader della protesta, Massimo Cacciari, dichiara: “ci sentiamo vicini ai compagni di Piazza Syntagma”. Credendo di parlare di un collettivo di linguisti.

Kollettivo Automatizzato Anvur

Una battaglia per immagini

aprile 2, 2012 § Lascia un commento

Sullo schermo la Fornero appare distesa a tratti e, ignorando le rughe che le segnano elegantemente il volto, senza mai guardare in camera, ci racconta un altro pezzo della favola, dipinge un’altra porzione dell’affresco che la legittima, che legittima in misura sacrale i tecnici di cui si gloria di fare parte. La ministra del welfare e delle politiche sociali giustifica il proprio lavoro da macellaio contrapponendolo a quello dei venditori di caramelle che eravamo abituati a chiamare politici, giocando sul campo semantico ma ancora maggiormente sul meccanismo vecchio di millenni del capro espiatorio, per il quale chi non ha argomenti di difesa rilancia sull’altrui offesa. Denunciando la pericolosità di provvedimenti antisociali promossi soffiando sul fuoco della sfiducia nella politica e della contrapposizione ai meccanismi di legittimazione democratica, occorre considerare che prima o poi gli italiani torneranno al voto, dovendosi confrontare con il sistema della democrazia rappresentativa oggi infangato con la ferocia degli slogan e delle immagini promosse tanto dai celebrati tecnici quanto dal concerto dei media.
Proprio sulle immagini, sulle rappresentazioni, su una narrazione che non lascia elementi al caso si gioca la legittimazione dell’esecutivo guidato da Mario Monti che da questo meccanismo ha mutuato anche l’approccio alla riforma del lavoro, fatto di un dibattito arricchito nella forma e svilito nella sostanza dei provvedimenti adottati.
Il premier ha cominciato da subito, avendo deciso di chiudere la partita entro marzo, con una sparata degna del suo predecessore, la cui pochezza regala oggi tanta popolarità ai professori stessi. Senza allontanarsi minimamente dal pessimo senso dell’umorismo berlusconiano, a gennaio Monti definiva “monotono” il posto fisso, assestando il primo colpo di accetta su quel soggetto sociale, il lavoro, già messo in ginocchio in un paese che manca da trent’anni di un piano industriale diffuso e da venti vive il moltiplicarsi delle forme contrattuali ed il conseguente dilagare della piaga precarietà.
Piaga che l’esecutivo Monti aveva promesso, nelle parole materne del ministro Fornero, di estirpare introducendo un altro insopportabile ritornello della propria azione di governo. La contrapposizione tra giovani e meno giovani, il dualismo tra garantiti e non, è stato presentato fin da subito come uno delle principali inadeguatezze del sistema italiano che il governo Monti si proponeva di eliminare. Non risulta affatto sorprendente scoprire oggi come le 46 tipologie contrattuali che rendono il mercato del lavoro italiano tanto precario non vengano minimamente toccate dalla riforma dei tecnici che impongono invece il livellamento delle tutele verso il basso, aumentando la flessibilità in uscita, mutilando l’articolo 18.
Che non sia questo passaggio fondamentale dello statuto dei lavoratori a frenare gli investitori esteri rispetto ad interventi nel nostro paese appare evidente anche al leader designato di Confindustria Giorgio Squinzi che spiega al “Sole 24 Ore” come siano piuttosto “la burocrazia, il costo dell’energia, la mancanza di infrastrutture” a frenare il Paese. Viene allora naturale chiedersi per chi l’articolo 18 rappresenti un totem e chi lo veda piuttosto come un presidio fondamentale di dignità e giustizia. Accanendovisi in modo così deciso i tecnici hanno dato un segnale molto forte, hanno firmato una dichiarazione di intenti molto chiara: ripercorrere a gambero gli ultimi cinquant’anni di storia partendo dal cuore delle tutele ai lavoratori dipendenti.
La mente torna allora beffarda al mantra supremo recitato dal governo dei tecnici, quell’equità che risulta ad oggi ancora assente nell’operato di quest’ultimo rendendo sempre più concreto il rischio di una frattura in quel patto sociale che i professori si erano ripromessi di tutelare: una riforma portata avanti accordando la priorità al responso dell’Europa piuttosto che all’opinione di coloro che vedranno la propria vita condizionata da tali provvedimenti non può che segnalare l’apertura di una fase delicata che, se gestita con tanta miopia ed irresponsabilità (proprio da chi ci richiama alla responsabilità), porterà a fratture difficilmente sanabili nel paese.

Girlson Film
Foto: Federica Peyronel

La valle che resiste e non si arrende

marzo 18, 2012 § Lascia un commento

Riceviamo dal comitato NoTav Torino e pubblichiamo:

La Valle di Susa è per natura geografica luogo di scambio, non solo in senso trasportistico e commerciale. Lo è stata per i primi contadini del neolitico a cavallo delle Alpi, per eserciti e pellegrini lungo i sentieri dei boschi e la via Francigena; lo è tuttora e in qualche modo continuerà ad esserlo in futuro. Non si può comprendere l’originalità del movimento No Tav se non partendo dalla Storia sociale del territorio (parlo degli ultimi decenni, tranquilli)

La società civile attiva in Val di Susa

Già terra di brigate partigiane, nel dopoguerra la bassa valle industrializzata è stata significativa protagonista delle lotte per i diritti dei lavoratori, nonché del pacifismo cattolico di base attivo contro la produzione di armi e per l’obiezione di coscienza al servizio militare. All’inizio degli anni 70, con il Collettivo Operai e Studenti questo lembo del Torinese ha rappresentato un’importante esperienza di aggregazione politica dal basso nel campo della sinistra extra-parlamentare: a tutto tondo, anche con un paio dei suoi figli entrati in Prima Linea e poi per anni incarcerati.
Intanto, fin dagli anni ’60, la crisi di alcune aziende manifatturiere (Cotonificio Valle Susa) aveva già dato inizio, qui più precocemente che altrove, ad un processo di deindustrializzazione che ha generato lotte socialmente aggreganti in difesa del posto di lavoro ed al contempo ha posto drammaticamente l’interrogativo sulle prospettive future del territorio. A quel punto il destino della valle poteva reincamminarsi verso un’economia di valorizzazione delle produzioni agro-silvo-pastorali tipiche (ma a quei tempi ciò era culturalmente considerato un regresso), oppure verso la trasformazione in anonimo corridoio di transito: l’idea progettuale di attraversare la valle con un’autostrada verso la Francia era già all’ordine del giorno.
L’alta valle delle stazioni sciistiche (dove impazzava quel boom edilizio delle seconde case che porterà allo scioglimento del Comune di Bardonecchia per infiltrazione mafiosa) vede con favore la nuova infrastruttura che “l’avvicina” alle grandi città del nord Italia ed alla stessa Francia; la bassa valle sa che ne ricaverà solo inquinamento dei TIR, scempio del paesaggio ed esproprio di fertili terreni pianeggianti che scarseggiano. Nella battaglia contro l’A32 prende corpo la coscienza ambientalista, che va ad arricchire di valori i cittadini attivi, di sinistra o cattolici; anche molti sindaci si oppongono, ma alla fine la resistenza della bassa valle sarà sconfitta ed avrà il danno temuto più la beffa di compensazioni promesse e non mantenute, di ripristini ambientali mai realizzati. Il “mediatore” che convinse uno ad uno i sindaci con le sue promesse era un architetto con in tasca la tessera del PCI, un certo Mario Virano che poi diventerà amministratore delegato della Sitaf, società di gestione dell’arteria.

Il movimento NO-TAV: un parto spontaneo

Tutti gli affluenti di partecipazione che hanno percorso la società civile attiva in valle convergeranno a dare linfa all’embrione NO-TAV; la lunga lotta degli anni 80 contro l’autostrada, la sconfitta e le beffe lasciano in eredità molti insegnamenti, alla popolazione ed agli amministratori locali. Quando, nel 1989, viene lanciata l’idea di una nuova ferrovia ad alta velocità lungo il solito corridoio i primi NO-TAV sono già in piedi: tra loro molti di coloro che ancora oggi, dopo 22 anni, sono tra i protagonisti più noti del movimento.
Il Comitato Habitat è la prima forma di auto-organizzazione su questa tematica. Il suo merito è di aver saputo dare il via ad una aggregazione di cittadini, amministratori locali e tecnici di varie discipline contro i progetti dell’opera: è questa “trinità” che rappresenta il carattere originale del nascente movimento, in confronto a molti altri.
Nessuna struttura gerarchica, nessuna delega alla politica, ma trasversalità, partecipazione dal basso ed inclusione: sono questi gli ingredienti istintivamente portati ad amalgama. Massima diffusione delle conoscenze sui progetti, i rischi, i costi locali e generali: la popolazione deve essere pienamente consapevole e decidere il proprio futuro. Una specie di scuola serale, anno dopo anno, informa e forma; spiega i retroscena ed aggiorna senza mai smettere: la popolazione risponde e l’aggregazione cresce nel tempo. Non ci sono altri segreti.

Oltre i confini della valle, oltre la tematica TAV

Dopo infinite proposte di tracciato, il primo vero progetto della linea (2002-2003) descrive, esso stesso, un impatto fortissimo sulle risorse ambientali (acqua) e la salute dei viventi (amianto, uranio, polveri e gas). Il movimento costruisce i primi presidi sul territorio, punti di vigilanza e di incontro; da allora in poi saranno un’altra chiave di volta dell’aggregazione, questa volta anche di molte realtà esterne alla Valsusa.
Nel 2005 le vicende di Venaus, la prima militarizzazione dei luoghi, la notte dei manganelli, la riconquista dei terreni occupati portano il movimento NO-TAV alla ribalta nazionale. Nasce la rete del Patto di Mutuo Soccorso con tantissime realtà italiane impegnate nella difesa dei territori e dei beni comuni: un’eccezionalescambio di esperienze, di energie e di affetto. L’esperienza valsusina è vista da molti come un esempio da imitare, la dimostrazione che resistere è possibile, una speranza per tutti.
La scuola permanente di formazione si arricchisce di molte nuove materie, che diventa necessario conoscere dopo aver toccato con mano che il TAV non è solo un’infrastruttura, ma un paradigma di sviluppo neoliberista con implicazioni su più piani, dalla finanza globale all’economia locale, alla qualità di vita spicciola, alla stessa democrazia: tutti contesti già entrati in un percorso di deriva. E allora si studia e sperimenta di economie alternative, di energie rinnovabili, di democrazia partecipata e di decrescita. Dall’Italia e dall’estero nuovi docenti, intellettuali, ricercatori si avvicinano al movimento e portano il loro contributo di conoscenze ed analisi; quasi sempre rimangono affascinati e tornano ancora oggi. Si chiama sempre movimento NO-TAV, ma ormai è qualcosa di più.
Arrivano da più parti visitatori, singoli o in gruppo, che restano subito contagiati dalla natura autenticamente popolare ed inclusiva di questa originale socialità. Qualcuno viene con la pretesa di dare una sua ricetta vincente sul piano dell’organizzazione o delle forme di lotta; qualcuno vuole usare il movimento per i suoi scopi, spostarlo sul proprio terreno: nessuno viene respinto, ma qualsiasi sia la dose di carisma espresso lo si fa sentire alla pari di tutti gli altri. Molti capiscono che nessuna ricetta verrà presa in blocco, che si esige rispetto; chi è animato da disponibilità genuina allo scambio sviluppa un legame autenticamente affettivo e finisce per comportarsi, in valle, secondo le decisioni del movimento, chi è incapace di affetto e vuole imporre i propri metodi forse riesce a farlo qualche volta, ma poi se ne va.
Intanto, dal 2006 in poi, è andato in scena un finto dialogo tra le istituzioni e la Valle, alla fine aperto solo a chi è favorevole all’infrastruttura: carte truccate, confusione voluta sui costi, illusionismo mediatico. Non stupisce: il commissario governativo alla Torino-Lione, confermato dai governi di diverso colore è di nuovo Mario Virano. Il progetto cambia sì tracciato, ma le implicazioni sui vari piani non mutano granché ed i presupposti della lotta di opposizione sono gli stessi anche oggi. I sindaci (23 su 43), rappresentativi dei loro elettori, continuano con coerenza la loro battaglia di dignità, nonostante manovre politiche degne di un neo- maccartismo che tendono a metterli fuori gioco.

Dove si andrà a parare

E chi lo sa? Costruiamo insieme una prospettiva. Negli anni 2000 molto è peggiorato per il 99% della popolazione nel nostro Paese e non solo: minor giustizia sociale, nessuna prospettiva di lavoro vero, crisi del debito pubblico, scadimento culturale imposto, militarizzazione delle menti, progressiva sottrazione di diritti e democrazia… I poteri forti delle banche si sono fatti oligarchia di governo, i partiti erano già diventati esclusive macchine di potere e ora queste paiono inceppate, inservibili, da rottamare. I correttivi anticrisi a livello nazionale e continentale in realtà confermano sostanzialmente i meccanismi che l’hanno prodotta, si genera altro debito pubblico a vantaggio solo dell’immediato tornaconto privato dell’1% sempre più ricco.
In un panorama in cui vari paesi europei tra cui il nostro possono essere considerati a rischio dittatura, come profetizzare l’evoluzione della vicenda? Il merito non potrà certo prescindere dal contesto, ma è ben arduo prevedere la reciproca influenza. Tutta la casta (e le cosche) sono per realizzare comunque l’opera; quello che viene messo in campo dal potere formale è l’affidamento all’esercito della garanzia di costruzione e il movimento di opposizione dichiara di non voler cedere (e non cederà).
Questo non significa che ci sarà “un’ora x” per la resa dei conti, muro contro muro, per decidere se si fa o non si fa il TAV in val di Susa; piuttosto l’opposizione mira a durare negli anni, anche altri 20, opponendo muri di gomma, riposizionandosi ed imparando a muoversi con resilienza in spazi di democrazia ed agibilità anche progressivamente più stretti. Questo significa “la Valle resiste e non si arrende”. Poi, certo, molto dipenderà anche da come la generalità degli Italiani reagirà ad una crisi economica, morale e democratica che sulla pelle nei fatti si fa sempre più pesante, nonostante il teatrino dello spread.

Vedi anche Notavtorino.org

Santificare le feste: 8 marzo

marzo 8, 2012 § 3 commenti

Ricordati di santificare le feste. Se c’è un insegnamento biblico che la società consumistica ha fatto proprio, questo è di sicuro il terzo comandamento dell’Antico Testamento. Non c’è ricorrenza che non sia stata trasformata in una festa: qualcosa da segnare nei calendari, l’occasione per entrare nei negozi, nei ristoranti e nei cinema sostituendo “auguri” ai saluti. La festa dell’amore è la festa della cioccolata e dei fiorai; la nascita di Dio (o Babbo Natale, non ero bravo a catechismo) la festa dei bambini e dei giocattoli; la festa della donna fa la fortuna di spogliarellisti e, di nuovo, dei fortunatissimi fiorai. Che riescono anche a sbarcare il lunario quando si festeggiano i morti.
Viviamo in una società talmente felice che c’è una festa per tutto, insomma.

Ma l’8 marzo ha una storia diversa, che con la felicità dei manifesti pubblicitari giallo mimosa ha ben poco: una giornata di lotta, nata nel socialismo prerivoluzionario, dove le donne combattevano per un mondo migliore, più giusto, con più pace e diritti. Per tutti. Combattevano per salari, raprresentanza nelle fabbriche come nelle istituzioni, per il diritto ad eleggere ed essere elette. Dov’è finito l’8 marzo oggi? Perché le rivendicazioni femminili hanno lasciato il posto ai tanga argentati dei palestrati?

Se sei arrivato fin qui dandomi ragione, permettimi di dire che sei stupido. Puntualmente ogni 8 marzo mi tocca leggere analisi di questo tenore. Certo, il consumismo ha preso posto dei valori; e non ci sono più le mezze stagioni, a ricordare la vittoria del Capitale sulla natura umana ed atmosferica. Certo, la mimosa è la sublimazione dell’autodeterminazione, resa bene regalabile dall’uomo alla donna, voluta dai mercati che rispecchiano un’economia violenta, soprafattrice ed intrensicamente maschilista. E tutte quelle cose che postate sui vostri blog dai vostri mac e tablet, evidente beni rivoluzionari, avendo una mela morsicata stampata sopra, in accordo con il green marketing con cui le multinazionali vi fottonosempre.
L’8 marzo rimane, al di là di tutti i facili giudizi da intellettualoidi nostalgici del fervore dell’ottobre 1917, l’occasione in cui metà della popolazione si riappropria di se stessa. La metà che subisce violenze e discriminazioni negli ambienti di lavoro, in politica e in famiglia in tutto il mondo, tra l’altro. E a me questo già basta per ricordare le donne, lottare con le donne e festeggiare le donne.
Come ogni donna desideri vivere la sua festa è esente da ogni giudizio morale: al ristorante con le amiche, in discoteca tra cubisti ungheresi, o nei circoli arci a fumare sigari e parlando di femminismo, parlando per gli stereotipi che si leggono followandovi su twitter.
La realtà è fatta di ragazze e donne di ogni età che si riappropriano degli spazi sociali per fare quello che pare a loro, in barba agli analisti politici, agli scribacchini della rete (tra cui me stesso) e ai movimenti. Autodeterminate nella pratica dell’autodeterminazione, possono partecipare ai numerosi cortei che vengono organizzati ogni anno nelle più importanti città di Italia per proseguire poi la serata al ristorante con le amiche, servite e riverite da un cameriere cubano di un metro e ottantacinque per novanta chili di muscoli, vestito di solo papillon nero e shorts. Si tratta di diritto alla scelta anche questo. Il diritto che vogliamo difendere.

Nikolau Papa

Foto: Federica Peyronel

Il gioco delle sedie e le borse EDiSU

febbraio 27, 2012 § Lascia un commento

Questa mattina, sveglio dopo undici ore di sonno, immergendo i biscotti nel caffelatte, ho avuto l’occasione di imbattermi in un borsista idoneo e beneficiario, una categoria bistrattata di questi tempi, una cerchia di privilegiati destinata ad estinguersi: vivo infatti con uno di quei pochi studenti borsisti che è riuscito a trovare una sedia quando Cota ha spento la musica.

Quando facevo la materna, le elementari forse, andava di gran moda per le feste di compleanno all’oratorio, il gioco delle sedie, stupido ed elementare ma allo stesso tempo crudele e darwiniano: ti veniva imposto infatti di correre intorno ad un cerchio di sedie con i tuoi compagni, pronto a scaraventarti a peso morto sulla prima sedia libera quando la mamma del festeggiato spegneva la musica. Al primo giro le sedie erano tante quante i bambini se non di più; dal secondo in poi la suddetta mamma o chi per essa si premurava di togliere una o due sedie determinando così l’esclusione di quei bambini che non avrebbero trovato posto al tacere della musica.

Questa mattina, mentre facevo colazione con il mio raro esemplare di borsista idoneo beneficiario, costui mi raccontava di come la sua amica Pina, straniera, non avesse ricevuto il rimborso della prima rata e di come questo rischiasse di compromettere, meglio, stroncare la sua carriera scolastica. Prima di fermare la musica infatti, il Presidente Cota si era infatti premurato di togliere il ben più dei due terzi delle sedie.

Sicuramente il Presidente della Regione Piemonte non ha avuto occasione di imparare il gioco delle sedie per come l’ho conosciuto io: la versione federalista pare molto più selettiva.

Così questa stessa mattina, mentre io bevevo il caffelatte con il beneficiario e la sua amica Pina (che il suo nome sia inventato non significa che non si possa raccontare lo stesso la sua storia), un confronto tra Atenei e Regione ha provato a stabilire le regole per il prossimo anno, a disporre le sedie prima di far partire di nuovo la musica. Il lavoro per la definizione del bando per le borse di studio universitarie del prossimo anno si è subito arenato sulla questione finanziaria: i fondi stanziati al momento basterebbero infatti a malapena a garantire la seconda rata delle borse di quest’anno, lasciando questa voce del bilancio a secco per la copertura delle borse dell’anno prossimo.

La stretta imposta sulle risorse ha portato il dibattito a focalizzarsi sulla questione del merito di modo da poter portare a frutto tutte le borse erogate senza perdere neanche un centesimo sugli studenti non meritevoli. Di fronte dunque ad un investimento limitato per un numero di studenti (e di conseguenti circoli virtuosi) potenzialmente illimitato si è fatta ancora una volta la scelta più facile: invece di aumentare le risorse per andare incontro alla domanda, si è deciso di rendere l’accesso a tali risorse ancora più difficile e selettivo di modo da poter poi magari vantare un successo nella copertura di tutte le borse di studio.

Le sedie saranno sempre meno, e quando si fermerà la musica la prossima volta rischia di non sedersi nessuno.

Girlson Film
Foto: mirko isaia photography

Quale futuro per l’università?

febbraio 21, 2012 § 3 commenti

Proprio come fanno le persone a capodanno, l’Europa ha fatto i suoi fioretti per l’inizio millennio. “Diventare l’economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo, in grado di realizzare una crescita economica sostenibile con nuovi e migliori posti di lavoro e una maggiore coesione sociale” (documento conclusivo del Consiglio di Lisbona, marzo 2000). E proprio come le persone, anche l’Europa ha prontamente disatteso le sue promesse.


La strategia di Lisbona, piano unitario di sviluppo europeo per il decennio 2000-2010, prevedeva di portare la conoscenza al centro dell’agenda della società e dell’economia europea. Nonostante i buoni propositi, l’Europa ha dovuto ammettere di non aver affatto raggiunto i propri obiettivi (valutati con appositi indicatori statistici). E nonostante il progetto Europa 2020 rilanci con obiettivi ambiziosi sui piani dell’occupazione e della conoscenza (aumentare l’occupazione della fascia di età dai 20 ai 64 anni al 75%, portare l’investimento in ricerca e sviluppo al 3% del PIL o portare al 40% il numero di 30-34enni in possesso di titolo di studio), oggi è quanto mai difficile crederci.

Cosa è andato storto?
Si è fatto un gran parlare di società ed economia della conoscenza. Molta retorica politica del ‘900 predica l’avanzamento scientifico (leggi tecnologico) come un indispensabile volano di sviluppo e di crescita economica. Sebbene sia ancora lungi dal potersi definire un bene pubblico perfetto, nel Novecento la conoscenza ha fatto passi da gigante in quella direzione. Uno dei ruoli chiave di questa diffusione e democratizzazione del sapere è stato sicuramente giocato dall’avvento della così detta “università di massa”.
Nel nostro paese, la percentuale di studenti universitari sul totale della popolazione è passato dall’inizio alla fine del ventesimo secolo da meno di 1 su 1000 ad un 3% circa, con una brusca accelerazione nel secondo dopoguerra. A oggi il numero di studenti universitari in Italia, su una popolazione di circa 60 milioni di abitanti, si è assestato tra il milione e sette e il milione e ottocentomila, con una decrescita negli ultimissimi anni.
Complice anche l’alto tasso di abbandoni, l’output di giovani laureati nell’università italiana risulta spaventosamente basso se lo accostiamo a quello di altre nazioni: con il 20% della popolazione di età tra i 30 ai 34 anni in possesso di titoli di studio di terzo livello ci collochiamo al terzultimo posto tra i paesi OCSE, subito dopo il Messico, ben lungi da paesi come gli USA o la Francia, la cui percentuale è più del doppio della nostra, per non parlare della Corea, paese che sta vivendo una crescita economica senza paragoni, dove quasi due giovani su tre sono laureati.
Eppure, nonostante l’esiguo numero, assistiamo al dilagante aumento della disoccupazione tra i giovani laureati. Insomma, i giovani laureati in Italia sono pochi, eppure sono troppi – almeno dalla prospettiva del mercato del lavoro.
Se il sistema economico non sa che farsene dei giovani laureati, a che pro illudere dei ragazzi con la solfa stantia della “classe dirigente del futuro”, quando invece la loro laurea in lettere non farà che render loro più difficile l’accesso al call center? Se sforniamo più laureati di quelli le cui legittime aspirazioni riusciamo a soddisfare, a che pro destinare così tanti fondi alla spesa pubblica in istruzione invece di liberarli ad esempio per la sanità o per i servizi sociali? A che scopo investire sulla formazione di talentuosi dottorandi che non potremo riassorbire in alcuna professione di ricerca, regalando così intelligenze formate a qualche paese straniero o semplicemente sprecandole?
In questa chiave di lettura trovano una loro legittimità tutte le manovre politiche (e ancor prima culturali) volte ad alleggerire un sistema universitario sovrabbondante rispetto alle esigenze della società. Certo, nessuno (nemmeno il governo dei tecnici con la sua fiera indifferenza a velleità quali il consenso popolare) oserebbe affermare pubblicamente qualcosa di così scomodo come “rottamiamo l’università”: si parla più elegantemente di meritocrazia e razionalizzazione (Gelmini), si invita al ritorno ai lavori manuali (Tremonti), si additano come sfigati coloro che studiano ancora a ventotto anni (Martone, che essendo un tecnico non ha bisogno di essere elegante).
Questo governo si trova così a dover ridimensionare un sistema universitario ipertrofico, un edificio eretto con ingenuo ottimismo sulle fondamenta della retorica utopica della società della conoscenza, rimpiazzandolo con un edificio più snello ed efficiente, sostenuto dalle solide fondamenta del sistema economico.

A brave new world?
I piani per la demolizione, abbozzati dal team di Gelmini e migliorati dal tecnico Profumo, sono già avviati su molti fronti.
Oggi in Italia c’è circa 1 professore strutturato ogni 30 studenti: un numero particolarmente basso, che si traduce nell’affollamento delle strutture e nella superficialità con cui vengono “somministrati” certi corsi o seguiti certi tesisti. In Svezia questo numero è quasi il doppio. Per riportare a livelli accettabili questa proporzione, a beneficio della qualità della didattica, due sono le strade percorribili: aumentare i docenti o diminuire gli studenti.
In Italia circa 10.000 dei poco meno di 60.000 docenti e ricercatori italiani andranno in pensione nei prossimi dieci anni. Con un’azione legislativa di attuazione la legge Gelmini, il Ministero ha fissato rigidi criteri finanziari per le assunzioni, che non potranno mai superare un’assunzione per ogni due pensionamenti. A tappare le falle provvederà presumibilmente quello stuolo di “accademici usa e getta”, giovani brillanti e precari che battono alle porte dell’università sperando di non rimanere fuori dall’imbuto, e il cui numero oramai supera quello dei docenti strutturati.
A fronte di un questo calo del personale si farà allora urgente la necessità di abbattere il numero degli studenti, a cominciare dagli improduttivi fuoricorso che, secondo l’opinione diffusa dei politici e dei media, stanno sprecando il loro tempo e stanno parassitando risorse pubbliche.
Il Decreto Ministeriale 17 del 2007, promulgato dal governo Prodi-Mussi, ma che solo negli ultimi mesi sta venendo applicato, sancisce una serie di regole auree quali ad esempio il limite massimo di studenti per docente in base a specifici corsi di laurea. Pensato forse in origine come una chiave per aprire gli accessi a nuovo personale docente, oggi sta venendo impugnato dall’altra parte, favorendo in molte università l’adozione del numero chiuso.
Ma le misure più efficaci per ridurre il numero di studenti e/o per scaricare su di loro parte gli ingiustificabilmente alti costi dell’università pubblica devono ancora manifestarsi. Alcuni politici, economisti ed accademici guardano infatti a quanto è avvenuto nel Regno Unito con l’implementazione del rapporto Browne: le rette universitarie imponibili dagli atenei (e di fatto imposte dalla maggior parte) sono passate da 3000 a 9000£. Agli studenti è stato offerto per farvi fronte lo strumento dei “prestiti d’onore”. In Italia, dove il vecchio sistema di diritto allo studio fondato sulle borse di studio sta venendo lasciato morire di atrofia di finanziamenti, questo sistema potrebbe permettere l’accesso agli studi agli studenti “migliori”, che potrebbero altresì scegliersi gli atenei “migliori” operando così una selezione naturale in un contesto di competizione che porterebbe loro un sacco di iscritti e dunque soldi come “premio” per la loro qualità.
E se anche accadesse, come sta avvenendo nel Regno Unito, che molti studenti migrassero per studiare all’estero, che importanza avrebbe, visto che il sistema economico non sa che farsene di tutti questi laureati? Inoltre il prestito avrebbe il vantaggio di spostare i costi dell’università su chi beneficia dell’istruzione, solo se guadagnerà abbastanza da potersi permettere di ripagarlo; se non potesse allora sarebbe colpa dell’università, che avrebbe formato un professionista inutile o incapace, quindi a lei spetterebbe di pagarne i costi. Insomma, un sistema che moltiplica il denaro, e che rischierebbe di trasformarsi in una bolla finanziaria esplosiva solo nel caso in cui si arrestasse la crescita del PIL (opzione che i sostenitori del prestito d’onore ritengono semplicemente impossibile a fronte delle leggi del mercato, poco importano le dichiarazioni di recessione recentemente fatte dall’ISTAT!).
Infine, all’eccessivo numero di corsi, sedi e atenei metterà presto un freno l’ANVUR, l’agenzia di valutazione nazionale, vero e proprio braccio armato del Ministero. Un decreto di recente scrittura attribuisce infatti all’agenzia il potere e dovere di “accreditare” le strutture che soddisfano certi requisiti da essa sanciti ovvero di “sopprimere” quelle che non li rispettano. Una mossa volta a promuovere la competizione tra atenei premiandoli con la sopravvivenza, liberando la politica dallo scomodo ruolo di giudice e boia per affidarlo alle capaci mani “tecniche” dell’ANVUR.
Queste sono le incisive misure che il presente governo sta attuando per riportare l’università dall’iperuranio onirico della “società della conoscenza” alle necessità concrete del sistema economico. Promuovendo la ricerca applicata e il trasferimento tecnologico, così come l’apertura dei CdA agli esterni all’accademia, la politica si è rivendicata il ruolo del Cupido nella meravigliosa storia d’amore tra la CRUI (Conferenza dei Rettori delle Università Italiane) e Confindustria.
Il risultato da qui a dieci anni dovrebbe essere un’università ridimensionata, con una costellazione di atenei di medio-bassa qualità che erogheranno una formazione adeguata alla richiesta di maestrine, ingegneri e azzeccagarbugli; su questi svetteranno dei poli di eccellenza che accetteranno solo pochi studenti “migliori”, addestrati per diventare (questa volta per davvero!) la classe dirigente del futuro, a cui quindi sarà perfettamente legittimo chiedere di pagare i costi dell’istruzione di alta qualità che riceveranno.
Gli ultrà dell’università pubblica di massa di alta qualità non potranno allora che rassegnarsi alla logica lineare sottesa a questo teorema: si tratta del risultato migliore possibile dato questo sistema economico. L’università così com’è sta al sistema industriale italiano, col suo scarso appetito di laureati, come le case abusive alle pendici dell’Etna: è un edificio irragionevole rispetto alla morfologia su cui poggia.

Una prospettiva diversa
C’è una premessa implicita su cui si regge tutto il ragionamento: l’analogia tra il sistema economico e la conformazione del territorio. Se accettiamo che il sistema produttivo sia un dato inemendabile di cui la politica debba prendere atto per modellare sopra a questo un sistema di società allora il ragionamento non fa una grinza. Ma c’è un altra prospettiva per vedere la cosa, spesso messa in ombra dalla prassi oggi inveterata di considerare l’economia una scienza descrittiva di uno stato di cose non modificabile. Pur concedendo che un cambiamento del sistema universitario non possa prescindere da una maggiore permeabilità del mondo economico e della società tutta verso la conoscenza, invece di dismettere gli investimenti sul sistema formativo (che già non è sufficiente per sprigionare appieno tutto il potenziale cognitivo della nostra generazione) potremmo ripensare una società ed un mondo del lavoro capaci di assorbire il valore aggiunto di tutto quel capitale umano che ad oggi stiamo sprecando o esportando.

Marco Viola


Il Cibo Crudo

febbraio 18, 2012 § 13 commenti

Ultimamente mi capita sempre più spesso di imbattermi nella spinosa questione del vegetarianesimo.
Del perché qualcuno si rifiuti di mangiare carne.
La prima cosa che associo alla carne è la bontà, il vivido orgasmo gastrico che mi procura ad ogni boccone.
La carne è buona, non ci sono cazzi. Ma questo si sa da almeno 10.000 anni, quindi i vegetariani non mangiano carne per altri motivi.
I motivi sono molteplici, e potreste sentirne almeno tre diversi da tre vegetariani differenti; ma hanno tutti come radice comune il problema dell’allevamento intensivo.
L’allevamento intensivo è senza mezzi termini e senza esagerazioni il l’applicazione del nazismo al settore alimentare.
Gli allevamenti intensivi, i mattatoi, i trasporti e tutta la filiera della carne ricorda in maniera impressionante la sistematica nazista.
Gli animali, dalla nascita al macello, vengono rinchiusi, mutilati, percossi, e sono soggetti a somministrazione di antibiotici e ormoni vari.
Per ogni animale c’è una filiera diversa, che però ha alla base la totale privazione di dignità degli animali; avviene attraverso brutalizzazione, assenza di igiene, assenza dei cicli naturali di vita degli animali.
Intendiamoci, nella morte non c’è dignità. Ma la filiera della carne è brutale dalla nascita alla morte dell’animale.
Io non voglio convincere nessuno a diventare vegetariano, io vorrei solo portare qualcuno di voi a pensare per un secondo a cosa mangia.
Perché non è un problema solo degli animali che vengono allevati e macellati in questa maniera, ma è un problema etico, ambientale e di coscienza.
Non possiamo fare finta che la carne piova dal cielo per cadere nel nostro piatto già bella pronta, senza sapere o far finta di sapere cosa sta dietro a questo sistema.
Diventare vegetariani inoltre non cambia nulla, perché il problema non si limita alla “fabbricazione” di carne, ma si estende all’agricoltura e alla pesca.
La pesca si divide in due rami: l’allevamento e la pesca d’altura.
L’allevamento grosso modo è come il settore della carne: sovraffollamento degli animali, somministrazione di antibiotici e ormoni, scarso igiene e grande impatto ambientale.
La pesca d’altura è invece paragonabile ad una guerra vera e propria.
Navi gigantesche solcano i mari attrezzati di sofisticate apparecchiature per individuare i banchi di pesce, reti che possono arrivare anche a 120 Km di lunghezza che setacciano tutta la colonna d’acqua dal fondale fino al pelo dell’oceano, cavi con milioni di ami che uccidono ogni cosa.
Le reti a strascico devastano i fondali distruggendo le foreste di alghe e tutti gli habitat marini legati alle specie sessili. Le reti inoltre non sono selettive ma pescano tutto ciò che incontrano: pesci vari, squali, delfini, tartarughe e anche i tanto amati cavallucci marini.
Lo spreco che sta dietro alla pesca è enorme, e non ve lo starò a raccontare qui, se la cosa vi tocca informatevi altrove.
Vi accennerò invece alcuni problemi legati all’agricoltura.
L’agricoltura, come l’allevamento e la pesca, non è quello che ci immaginiamo.
Non ci sono più i contadini vecchi e sdentati che con la zappa in mano coltivano gli orti e badano ai campi. Sto’cazzo.
Adesso l’agricoltura consiste nel coltivare mais e soia. Distese immense di centinaia di ettari coltivate a mais e soia. Il perché è molto semplice: il mais e la soia sono piante davvero versatili, e possono essere scomposte e ricomposte come si vuole, ci si può fare tutto.
Quindi non stupitevi se il 90% dei prodotti presenti nei supermercati derivano da o contengono soia e/o mais.
Inoltre, entrambe le piante sono state abbondantemente modificate da multinazionali (coma la vecchia Monsanto, già artefice del DDT e dell’Orange Agent, usato in Vietnam) che ne detengono proprietà e diritti.
Tutti gli altri ortaggi sono coltivati in serre in Europa e da lavoratori/schiavi in Sud America.
Quindi un avviso a tutti i vegetariani e vegani dei miei coglioni che a cuor leggero e con la coscienza a posto schifano la carne, per poi abboffarsi di insalata lavata nei pesticidi chimici: usa il tuo fottuto cervello per capire da dove arriva e cosa ha passato il tuo pranzo.

Shimshon il filisteo
foto: Federica Peyronel (flickr)

Sébastien Pilote – Le Vendeur (TFF 29)

novembre 27, 2011 § 2 commenti

Quebec del Nord. Neve, a trecentosessanta gradi. Marcel Lévesque è un venditore d’auto ormai prossimo alla pensione, devoto solo al lavoro e alla famiglia. É il migliore sulla piazza, e lo sa, ma anche per uno come lui gli affari vanno male con la crisi che incalza, e la principale industria automobilistica della città destinata a chiudere i battenti di lì a breve.


A scandire il ritmo di questo dramma canadese sono i giorni trascorsi dalla chiusura della fabbrica cittadina: 252, 253, 254, 255, 256. Lo spettatore segue la tragedia di un paese che lentamente va disgregandosi, privato del principale motore economico: le pompe di benzina chiudono, il prete deve accorpare diverse parrocchie. Ma Marcel Lévesque, le vendeur, non accusa nulla di tutto ciò: l’attempato venditore d’auto prosegue imperterrito nel proprio lavoro, ed è tanto bravo e senza scrupoli che riesce a rifilare un costosissimo pickup ad uno degli operai disoccupati: ne pagherà le conseguenze?
Marcel Levesque è un’icona icastica del capitalismo e della sua cieca ingiustizia – e come la società dei consumi Marcel è giunto ormai alla vecchiaia, incapace di arrestarsi nella sua bulimica accumulazione di denaro. Ma faremmo un torto a Pilote se ci limitassimo a ridurre il suo film a questa banale metafora – il capitalismo, freddo, vecchio, spietato. No, c’è di più, e la pellicola è dotata di una stratificazione dialettica di significati. La ricchezza del lavoro di Pilote risiede proprio nel non limitarsi a proprinarci i cliché dei film di denuncia, demonizzando il padrone, il nemico, il venditore. Pilote ci conduce negli spazi interni del capitale, nell’intimità della psiche del venditore, mostrandoci come Michel si sia costruito un universo nel quale è intrappolato, un mondo fatto di passioni tristi, di elenchi del telefono e di un’agenda di impegni da rispettare.
Marcel si è costruito un mondo di relazioni sociali fittizie: regala ogni giorno la Coca-Cola ai meccanici che gli possono fornire informazioni, offre da bere al prete perché metta una buona parola su di lui, ha una ciotola piena di lecca lecca per i figli dei clienti. Ogni suo gesto gentile, ogni sorriso è sempre rivolto a un consumatore, e mai a un amico: Marcel è una scintillante insegna pubblicitaria antropomorfizzata. Al nipotino che gli chiede come si faccia a diventare un buon venditore d’automobili risponde: “Per prima cosa ti devi esercitare ad amare la gente”. Nel mondo di Marcel non esistono relazioni autentiche, la realtà è una giostra di apparenze, dove si dà per ricevere, e chi più prende più ha.
Marcel, oltre che un bravo venditore, è uno sfruttatore senza scrupoli. E il grande pregio del film sta proprio nel mostrarci come egli sia solo parzialmente consapevole della meschinità e dell’egoismo dei propri gesti. “Padre, ho detto delle bugie, ma le ho sempre abbellite per fare felice la gente”: il vendeur si giustifica dicendo di rendere felice il suo prossimo, ed è davvero convinto del suo ruolo di benefattore. Marcel non ha mai imparato a vivere se in virtù del suo lavoro, e la sua vita non avrebbe senso senza di esso, e senza una missione da compiere: rendere felice il consumatore, regalandogli dei desideri, degli oggetti luccicanti a cui anelare.
Il film di Pilote mette in scena il progressivo svelarsi dell’assenza di senso su cui si regge la vita di Marcel, la tragica desemantizzazione del suo mondo. A poco a poco il vecchio si renderà conto che gli anni passati a svuotare le tasche dei suoi concittadini non avevano altro scopo che l’accumulazione di capitale, per se. Le Vendeur è un gioco di progressiva sottrazione (Marcel perde prima la famiglia, poi il lavoro, quindi l’illusione del suo ruolo di benefattore) che progressivamente mette a nudo il personaggio, per metterlo a confronto col nulla, col vuoto dell’assenza di senso, col nichilistico bianco della neve canadese.
Ma nemmeno nell’epilogo il vecchio venditore troverà redenzione. Il dramma che si consuma è quello di un labirinto senza via d’uscita, di un uomo troppo vecchio per poter accettare le conseguenze nichiliste degli eventi – egli è troppo vecchio per accettare di dover cambiare, come la nostra società.
Lo sguardo di Pilote è imparziale, asciutto: la camera da presa nn si concede alcun vezzo, idioletto o manierismo – Pilote filma, e noi guardiamo: la telecamera è invisibile, esplora il confine con la presa documentaristica; la colonna sonora è quasi assente. Novanta minuti rivelatori, seguiti da un esasperante finale decisamente troppo lento.

Piero Mainardi

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