Il piccolo Aliefer: un crudele esperimento mentale sull’etica dell’alief

Maggio 8, 2012 § 5 commenti

Io non posso ascoltare troppo Wagner, lo sai;
già sento l’impulso di occupare la Polonia.

Woody Allen

Nella battuta in esergo, il famoso regista, attore e umorista newyorchese Woody Allen ammette di sentire un impulso sfrenato ad invadere la Polonia dopo aver ascoltato la musica di Wagner. Immaginiamo per un attimo che tale situazione non sia stata creata ad hoc per suscitare l’ilarità del pubblico e teniamo conto, invece, del fatto che ci parla, seppur iperbolicamente, di qualcosa che è molto vicino alla nostra esperienza quotidiana – cioè del fatto che, talora, gli stimoli sensoriali ci suggestionano ad agire in un modo che va contro a quanto invece prescriverebbero le nostre più consolidate credenze.
Il buon Woody, infatti, ebreo per nascita e marxista – di tendenza grouchana – per vocazione, potrebbe mai, volendo essere coerente nell’agire con la sua visione cosciente della realtà, desiderare di compiere un misfatto dal sapore così decisamente nazional-socialista come invadere la povera Polonia? Per giustificare il fatto che egli senta anche solo un impulso a far ciò, dobbiamo ammettere che sia in un qualche stato mentale attivato, come dice lui stesso, dalla musica di Wagner, la quale, attraverso alcune associazioni con contenuti psichici affettivi o rappresentazionali, lo dispone a mettere in atto un certo tipo di patterns comportamentali – cioè, in questo caso, imbracciare un fucile e marciare su Varsavia.
Tamar Szabó Gendler, in un suo interessante articolo (Alief and Belief, in Journal of Philosophy, 2008), ci parla proprio di uno stato mentale che presenta le suddette caratteristiche e che decide di chiamare alief.
Tale stato mentale sarebbe precedente sia all’immaginazione che alla credenza e attiverebbe direttamente standard di risposta comportamentale senza tirare necessariamente in ballo i desideri veri o presunti del soggetto. Questa nozione gioca un ruolo importante nello spiegare il comportamento di una persona soprattutto in quelle situazioni in cui esso è in disaccordo con le sue  credenze, nonostante: a) non stia fingendo (in quanto non c’è una scelta deliberata e controllata); b) non stia auto-ingannandosi (infatti non c’è riluttanza nell’esplicitare la sua approvazione nei confronti della credenza contraria al suo comportamento); c) non stia dubitando (perché non si tratta di casi in cui non si tiene conto di un risultato con minore probabilità ma non escluso); d) non ci sia temporanea dimenticanza (tant’è che la credenza è conscia e presente, altrimenti verrebbe meno la discordanza).
Nell’ultima sezione del suo articolo, Gendler cerca di dimostrare come la nozione di alief  giochi un ruolo sorprendentemente importante anche in ambito etico.
Secondo il suo punto di vista infatti il giudizio morale su di un caso particolare (un azione, un evento eticamente ambiguo) può essere guidato tanto dalla credenza quanto dall’alief: se il caso ci venisse presentato in termini puramente descrittivi e astratti probabilmente avrebbe la meglio la nostra facoltà riflessiva e decideremmo come comportarci in base alle nostre credenze; viceversa, se il caso ci venisse presentato sotto forma di esempio o di storia esemplificatrice, l’unione dei meccanismi cognitivi con la vivida immaginazione ci metterebbe nella condizione di rispondere in maniera automatica alla situazione in base ad alcune associazioni di contenuti rappresentazionali, emozionali e comportamentali stratificatesi tramite l’esperienza nella nostra mente.
I nostri modi di agire, dunque, sarebbero più spesso il risultato della persuasione e dell’abitudine che non della riflessione: così viene recuperato uno dei concetti cardine dell’etica aristotelica, cioè l’abito.
Ora, partendo da questa base, vorrei provare a proporre un breve esperimento mentale che mira a  mettere in luce le problematiche e gli aspetti inquietanti di una filosofia etica di questo tipo.
Immaginiamo di essere degli scienziati, più precisamente degli psicologi dell’età dello sviluppo.
Immaginiamo di essere piuttosto crudeli. Anzi, molto crudeli.
Immaginiamo che una coppia di genitori altrettanto crudele ci affidi un bambino di pochi mesi in piena salute dandoci il permesso di farne quel che vogliamo.
Ora, poniamo che il nostro intento sia proprio quello di capire quale sia il peso delle abitudini e la loro influenza sul comportamento umano. La nostra tesi è che, a prescindere dalle credenze di una persona, sia possibile influire sulle sue scelte agendo sulle associazioni mentali che sono sedimentate nella sua mente.
Come dimostrare ciò? Semplice: prendiamo la nostra cavia, che chiameremo Il piccolo Aliefer, e cerchiamo di instillare nel suo giovane cerebro – ancora quasi privo di esperienza del mondo – alcune associazioni che lo portino a compiere necessariamente, dati certi stimoli, alcuni precisi gesti.
Per raggiungere il nostro scopo sottoponiamolo a continue, reiterate esperienze.
Per esempio, potremmo inculcargli una catena di associazioni che lo porti, ogni volta che sente battere le mani, ad eseguire un ordine di questo tipo: chiudi la mano a pugno, alza il braccio, tendilo di fronte a te, distendi e ripiega l’indice con forza per sei volte.
Per il resto, diamo al Piccolo Aliefer un’istruzione media e monitoriamo l’ambiente in cui cresce, senza però privarlo di nulla in particolare, anzi, incoraggiando in lui lo sviluppo di una moralità sana e la dedizione a passioni positive.
Il giorno del suo diciottesimo compleanno organizziamo una grandissima festa con tutti i suoi compagni di scuola. Al momento della consegna dei regali i suoi amici si dispongono a semicerchio e, uno per volta, gli portano il loro presente, aspettando di fronte a lui che abbia finito di scartarlo. Ogni nuovo dono viene salutato da un sonoro applauso, a cui il Piccolo Aliefer risponde con il suo caratteristico gesto, frutto della nostra crudele ricerca. Tutti sanno del suo stravagante tic, ci sono abituati, e tutto sommato gli vogliono bene anche per quello.
L’ultima a consegnare il regalo è la bella Sophie, una ragazza di cui il Piccolo Aliefer è perdutamente innamorato.
Arrossendo e abbassando gli occhi, la bella Sophie, consegna il suo pacchetto al nostro che, arrossendo e abbassando gli occhi, lo scarta. La bella Sophie non poteva saperlo, ma noi, nella nostra crudeltà, abbiamo sostituito il suo (orribile) gatto di ceramica con una Desert Eagle con sei colpi nel caricatore. Gli invitati, tutti annoiati a morte dal rituale della consegna dei regali, non si accorgono della sostituzione e applaudono meccanicamente.
Il Piccolo Aliefer chiude la mano a pugno attorno al calcio della pistola, alza il braccio, lo tiene teso di fronte a sè e…
Cosa accadrà ora?
Il Piccolo Aliefer non riuscirà a mettere un freno al suo automatismo e sparerà alla bella Sophie?
Le sue emozioni consce, le sue idee circa il valore della vita umana e il suo animo sensibile prevarranno?
Via al televoto.
Il senso di questa storia un po’ grottesca, per la verità, non sta tanto nella risposta a tali domande, quanto nelle problematiche messe in luce da un utilizzo radicale della teoria dell’alief.
Cerchiamo di esporre brevemente le più rilevanti senza la pretesa di trovarne la soluzione in poche righe.
a) L’esperimento mentale appena presentato è evidentemente esagerato e incorre in una serie di  obiezioni. Tuttavia la sua utilità sta proprio nel fatto che ci rende in grado di riflettere attentamente sui limiti dell’alief e sui suoi “conflitti di dominio” con la credenza. Gendler insiste più volte sul fatto che l’attivazione di uno stato mentale non implichi necessariamente l’attuazione del contenuto comportamentale ad esso connesso, ma mette solo il soggetto nella condizione di essere maggiormente disposto ad agire in una certa maniera; tuttavia non è chiaro in base a cosa si agisca, talvolta seguendo un principio razionale, talaltra uno irrazionale. Si potrebbe sostenere che dipenda dal livello di attenzione prestato dal soggetto alla situazione, ma in un passaggio precedente del saggio si ipotizza che persino il tipo e la quantità dell’attenzione investita nel contesto potrebbero essere determinati da una forma di alief.
b) Potrebbe sorgere il dubbio che la credenza non sia altro che una forma di alief consapevole a cui viene dato un assenso. Aristotele, come detto nell’articolo di Gendler, sostiene che per vivere bene dobbiamo lavorare per portare le nostre abitudini ad essere in accordo con le nostre credenze riflessive. Ma se le nostre abitudini sono uno stadio più primitivo delle nostre credenze, potrebbe darsi che il “lavoro” di cui parla lo Stagirita coincida invece con il cercare/aderire a/costruire credenze capaci di non entrare in conflitto con quelle abitudini che sono in noi più radicate e, anzi, che siano capaci di donar loro un’apparente coerenza.
c) È lecito domandarsi quanto potere abbia la persuasione e quanto sia facile manipolare i comportamenti altrui. Se le persone fossero davvero tanti Piccoli Aliefer si aprirebbe la possibilità di uno scenario distopico e inquietante. Sicuramente sarebbe più facile comprendere l’efficienza e l’impatto della propaganda, della pubblicità e dei media e spiegare quindi fenomeni come la sottomissione cieca all’autorità, alcuni esiti compulsivi del consumismo, certe forme di razzismo. Tuttavia credo che quasi nessuno sia disposto a rinunciare a credere nella propria libertà – quanto meno di pensiero – per sostenere una teoria di questo tipo.
d) Poniamo il caso che il nostro povero Piccolo Aliefer sia irresistibilmente portato a muovere il suo dito nel gesto fatale. Potremmo davvero considerarlo colpevole dell’assassinio della bella Sophie? Come si fa a sapere se un’azione è stata il risultato di un processo automatico o meno? E se il Piccolo Aliefer non fosse meno crudele del suo precettore e avesse colto l’occasione per compiere un delitto passionale e ammazzare così la bella Sophie che, aveva appena scoperto, non lo amava affatto? Come potremmo mai saperlo? Una persona è responsabile dei propri comportamenti quando essi sono causati da un’alief? Un’etica di questo tipo può convivere con le idee di libero arbitrio, responsabilità, giustizia?
Non per crudeltà, ma per evitare di dilungarmi troppo – e forse perchè sarebbe un po’ pretenzioso -, non intendo dare un finale a questo “thriller filosofico”, né rispondere alle molteplici domande che ne scaturiscono.
Sophie rimarrà – per il resto della sua bizzarra esistenza fittizia – sospesa in quell’istante, con la canna della Desert Eagle e gli occhi indecifrabili del Piccolo Aliefer puntati contro il suo seno.
Il titolo è un gioco di parole che si rifà al celebre – e questa volta, purtroppo, reale – esperimento condotto sul cosidetto Piccolo Albert dallo psicologo comportamentista J. Watson, il quale un giorno disse: “Datemi una dozzina di bambini normali, ben fatti, e un ambiente opportuno per allevarli e vi garantisco di prenderne qualcuno a caso e di farlo diventare qualsiasi tipo di specialista che io volessi selezionare: dottore, avvocato, artista, commerciante e perfino accattone e ladro, indipendentemente dalle sue attitudini, simpatie, tendenze, capacità, vocazioni”. 

S.P. Lovelast

Il Cibo Crudo – II

febbraio 23, 2012 § 29 commenti

Ultimamente mi capita sempre più spesso di imbattermi nella spinosa questione del vegetarianesimo. La definisco spinosa principalmente perché accogliere o respingere il paradigma è una scelta complessa che coinvolge più livelli: emotivo, morale-etico, scientifico, ambientalista. Il dibattito si articola il più delle volte sulla linea tra scienza e pseudoscienza, tra ragione e emotività; inoltre il problema è tale da richiedere, da parte di chi lo accetta o rifiuta, una scelta e un’assunzione di responsabilità che può implicare un completo cambio del proprio stile di vita.
Proprio quest’ultimo motivo ha due importanti conseguenze. Primo: chi diventa vegetariano deve avere ottimi motivi per farlo, per poter giustificare una così grande scelta, e per avere la forza di fare il salto. Secondo: chi, posto dinanzi al problema, sceglie di non diventarlo, deve avere a sua volta buoni motivi per giustificarsi e non avere problemi con la propria coscienza.
Dettaglio non secondario: in casi come questo, non scegliere equivale a scegliere per il no: non ci sono vie di mezzo, almeno in linea teorica (ma è sempre possibile ad esempio mangiare carne in piccole quantità).
In questo piccolo articolo non intendo scendere nel dettaglio delle argomentazioni delle due posizioni, ma mi limiterò esclusivamente ad esprimere il mio punto di vista sui fondamenti emotivi e razionali dei ragionamenti dei pro-veggie, dunque da un punto di vista assiologico.
A titolo d’esempio scelgo tre fonti principali da cui trarre elementi per il mio esame: ILpianetaVEGetariANO, pagina facebook molto nota nel settore; sceglivegan.org, altro sito di riferimento affine (sebbene vegano e non vegetariano); vegetarianpage, un’altra pagina facebook. Porto come fonti due pagine facebook perché aggregano contenuti vari e non hanno un autore unico, e ritengo possano mostrare adeguatamente il mainstream.Nelle pagine facebook trovo alcuni contenuti che mi spaventano o preoccupano, a seconda dei casi. Faccio solo alcuni esempi. Qualche settimana fa ho trovato dei link alla pagina di una signora che sostiene di essere guarita miracolosamente da un tumore maligno solo grazie alla medicina vegetale e alla sua forza interiore. Mentre scrivo, vengono postati link a siti come godsdirectcontact, con articoli che osannano lo stile di vita vegetariano e il contatto con la natura gattopoli.it, e altri siti animalisti, in cui vengono narrate commoventi storie su cani che salvano uomini, uomini che salvano cani, maiali salvati dal macello e tutti che si amano e si vogliono bene (le pagine facebook di vegetariani sono uno sproloquio di cuoricini e faccine sorridenti), siti del tipo scuoladellasalute, dove chiaramente le vie per la salute sono piuttosto esoteriche e interessano “autoguarigioni” e “channelling”.
I contenuti presentati e il generale stile di pensiero delle persone e dei punti di riferimento-guru del settore hanno una ben chiara impostazione mentale, che mi sento di poter definire spiritualista, o, se vogliamo, trascendentalista, alla Thoreau. Molto spesso mi sono trovato di fronte a un uso molto aggressivo della retorica (non che siano gli unici, ma…), perché i vegetariani e vegani amano la natura, amano gli animali, si amano tra di loro e insomma, amano, mentre chi mangia carne è cattivo, crudele, irrazionale, insensato.
Se vogliamo porci da un punto di vista scientifico, razionale, laico, gli irrazionali sono loro. Ora, mi riferisco solo ad alcuni elementi e ad alcune fonti, ma ad ogni modo ritengo formino buona parte dell’orientamento psicologico dei settori di cui sto parlando. Le mie sono sensazioni, opinioni, ma le offro con la speranza che siano ascoltate come motivate.
A mio modesto parere la matrice filosofica del vegetarianesimo va ricercata nelle correnti ilozoiste, quelle che considerano la terra, l’universo e tutto il resto come degli insiemi unitari e fortemente interconnessi, spiritualizzati, con una divinità immanente anche se non sempre dichiarata che conferisce unità e, a tutto, anima. Da questo modo di vedere, piuttosto buddhista, deriva il suddetto amore per tutto e tutti, animali inclusi.

Questa matrice irrazionalista e spiritualista può, a mio parere, avere dei risvolti pericolosi: in primis, è terreno fertile per truffatori e ciarlatani che vivono vendendo erbe magiche, pozioni, guarigioni alternative, false promesse e false illusioni; in secundis, assiologicamente, è una posizione a mio parere sbagliata, in quanto irrazionale, pseudoscientifica, falsa (anche se probabilmente, spesso, in buona fede); per finire, può essere pericolosa per chi ci casca, in quanto le persone che credono in tali faccende (e che così facendo si abituano a modelli mentali irrazionalisti e pseudoscientifici) possono essere indotte a scegliere rimedi inefficaci alle malattie – rischiando di curare un tumore con l’acqua santa e l’alzheimer con un pellegrinaggio.Il vero problema è che c’è chi ci crede.

Mi si potrebbe far notare: beh, e cosa c’è allora di diverso da una qualunque religione? Non potrei che rispondere: in effetti, credo proprio che si tratti di una specie di religione, però laica. Ho visto pagine su pagine di persone che dedicano la propria vita a queste idee, scambiandosi dolci, foto di maialini e gattini con occhi enormi, coperte di scritte e photoshoppate peggio delle foto profilo dei truzzi. Secondo me, ammesso che sia sbagliato trattare ugualmente i diversi, allora tanto umanizzare i disumani quanto tacciare di disumanità quelli che trattano in modo disumano i disumani sono atteggiamenti profondamente sbagliati.

Conclusione. Sia ben chiaro che io qui sto criticando un solo lato del vegetarianesimo, veganesimo e affini: la spiritualità e l’accento (retorico o reale) sull’amore e sul rispetto verso l’universo e gli animali. Non è questo il luogo per esporre la mia opinione, ma al fine di permettere al lettore di contestualizzare le mie opinioni mi sembra giusto farvi un accenno: credo che il consumo di carne vada ridimensionato, come più in generale il consumo eccessivo di qualunque cosa in ogni aspetto della nostra vita, per ragioni etiche e ambientaliste; inoltre credo che gli animali siano delle gran belle cose, ma che si tratti di un errore di antropomorfizzazione parlare di sensibilità, paura, gioia, emozioni, stress, rabbia o dolore (in quanto semplici reazioni meccaniche da noi interpretate e tradotte in emozioni umane); credo che usare inutile violenza o crudeltà sia un comportamento privo di senso, anche se non sempre moralmente sbagliato in senso stretto, e che quindi vadano evitate inutili atrocità, dove possibile.

Pietro Pasolis

Nuovo Realismo

ottobre 25, 2011 § 2 commenti

L’esperienza storica dei populismi mediatici, delle guerre post 11 settembre e della recente crisi economica ha portato una significativa smentita di due dogmi centrali del postmoderno: l’idea che la realtà sia socialmente costruita ed infinitamente manipolabile, e l’idea che la verità e l’oggettività siano nozioni inutili. I fatti, che non sopportano di essere ridotti ad interpretazioni, sono tornati a far valere i loro diritti. E si conferma l’idea che il realismo abbia delle implicazioni non solo conoscitive, ma etiche e politiche.
Nel confronto tra realisti e antirealisti non è in questione – ovviamente – l’esistenza della realtà, ma il ruolo di schemi concettuali e pratiche sociali nella costruzione della realtà. È per esempio evidente che le tasse e i matrimoni dipendono da schemi concettuali e da costruzioni sociali, ma questo vale anche per le montagne e i numeri? E – con ricadute politiche più complesse – per entità che sembrano oscillare tra natura e cultura come, ad esempio, il sesso o le malattie?
Gli antirealisti, e in particolare i postmodernisti, tendono ad allungare la lista delle realtà costruite, muovendo dall’assunto che il mondo esterno è una realtà amorfa che riceve forma e senso soltanto dai nostri schemi e dalle nostre pratiche. Con questo, però, rinunciano all’analisi e alla critica, affidandosi a una tesi generica per cui tutto è costruito e interpretato. Il lavoro filosofico serio, invece, incomincia proprio quando si è in grado di distinguere, con pazienza e caso per caso, che cosa è naturale e che cosa è culturale, che cosa è costruito e che cosa no.

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