Della Violenza: “Diaz – Don’t clean up this blood”

Maggio 21, 2012 § 7 commenti

Recensione hegeliana in tre atti

Il cavallo di Troia

Diaz- Don’t clean up this blood, è uno dei film più discussi del momento. È perciò inutile ricordare l’importanza che una pellicola del genere riveste nel panorama culturale italiano, a livello di memoria storica. Il regista, Vicari, ha senza dubbio prodotto un’ottima pellicola, esplorando sapientemente il confine fra testimonianza storica e finzione. Ci ha regalato un film al contempo fruibile e struggente, che è insieme una rievocazione fedele e un pugno dritto allo stomaco dello spettatore – per non dimenticare. Le scene di violenza sono girate come nel migliore dei film d’azione, e dalle sale siamo usciti commossi, afflitti. Vicari ha accontentato tutti: Diaz offre suspense e denuncia politica, love stories e azione, ragazzine in deshabillé e crani fracassati, e catapulta lo spettatore indietro fino ai fatti del G8, rievocando le ragioni degli indignati. Un cocktail perfetto.
Fin dal principio del film, però, dalla mia poltroncina in fintapelle ho subodorato che qualcosa non andava. È cominciato tutto con un fastidio impercettibile, un prurito fastidioso e indistinto. Cos’era? Forse che, banalmente, mi indispettiva la spettacolarizzazione dei fatti del G8? No, non era quello. Certo, in Diaz la narrazione è affrontata utilizzando gli stessi canoni cinematografici del cinema di mercato capitalista, ovvero quel cinema che promuove da sempre l’ideologia borghese contro cui stava combattendo chi si era rifugiato alla Diaz. Ma la causa del mio attacco pruriginoso non era la patina di plastica e di inautenticità simulacrale che avvolgeva le immagini.
Riflettendoci durante la proiezione ho ritenuto, al contrario, di considerare tale specificità un pregio. Si tratta, verosimilmente, di un mezzo astuto per raggiungere il grande pubblico, e diffondere su larga scala la memoria storica dei fatti del G8. La copertina patinata e la sfavillanza hollywoodiana assurgono in Diaz al ruolo del moderno cavallo di Troia, sono uno strumento resistenza contro l’esecrabile silenzio dei media durante questi anni.
Se una valutazione del genere può sembrare inusitata, è per via di una fallacia tipica della critica cinematografica, che portiamo tutti nel cuore: l’idea è che il cinema di denuncia non può criticare la società senza criticare i linguaggi con cui la società stessa si descrive e si promuove. Secondo gli intellettuali e i grandi esperti di cinema, non si può spettacolarizzare la critica della società dello spettacolo, perché si cadrebbe in contraddizione, perché sarebbe ipocrita. Ma i risultati di questo approccio sono tristemente noti: decenni e decenni di cinema di denuncia inintelligibile al grande pubblico. Oggi qualcosa è cambiato. Ma se è vero che siamo al tramonto dell’epoca del cripticismo e dell’avanguardismo gratuito, allora è proprio Diaz il film paradigmatico che leva il sipario della nuova era, l’era di un nuovo cinema italiano, all’insegna di uno stile narrativo più democratico – più vicino al telefilm che al cinema d’essai: un cinema costellato di ossa rotte, fichette in tiro e ralenti commoventi.

La sindrome di Pontecorvo

   

Dopo un primo tentativo di riscattare Diaz, ho prestamente cambiato idea. Non ci si può autoingannare per più di dieci minuti, guardando un film del genere – il prurito resta, insistente. Certo, bisogna ammettere (contro la vulgata) che sulla spettacolarizzazione cinematografica della violenza si può chiudere un occhio. È vero, la sequenza dei pestaggi all’interno della Diaz e quella delle violenze nella caserma di Bolzaneto sono crude, pornografiche. Ma un po’ di sangue e una decina di minuti di manganellate col “tonfo” erano inevitabili: è la Storia.
Ciò che non convince in Diaz, piuttosto, sono gli espedienti retorici, la violenza espressiva e il patetismo con cui si incorniciano gli eventi del G8 in una prospettiva sommaria e monolitica. È vero, talvolta si apre uno spiraglio per il confronto dialettico: lo sguardo si sposta dietro gli scudi degli sbirri, o si insinua nelle caserme, per scoprire i timori dei responsabili del blitz: “Fate come volete”, dice uno di loro, “Ma io i miei non li tengo più”. Un tipo responsabile, ci diciamo, e lungimirante: non erano tutti cattivi, allora. Tuttavia, salvo questi brevi barlumi di polifonia Diaz è un film dove suona un solo strumento: un lungo a solo di indignata compassione – Vicari, in breve, se la suona e se la canta.
È per questo che uscito dalla sala ho ripensato al noto e citassimo articolo di Jacques Rivette, uscito sulle pagine dei Cahiers du Cinéma sotto il titolo “De l’abjection”. Chi lo conosce ricorderà che vi si denunciava l’eccesso di forza espressiva di una carrellata del film Kapò di Gillo Pontecorvo: l’inquadratura incriminata dipinge il suicidio di una prigioniera di un campo di concentramento nazista. L’articolo recitava più o meno così:

Vedete dunque in Kapò il piano dove Riva si suicida, gettandosi contro il filo elettrificato: l’uomo che decide, in quel momento, di fare un carrello avanti per inquadrare il cadavere dal basso verso l’alto, avendo cura di inserire la mano rimasta in alto esattamente in un angolo dell’inquadratura, quest’uomo non ha diritto che al più profondo disprezzo.

Un simile e legittimo disprezzo lo si prova, in Diaz, in più occasioni: nel vedere uscire dalla scuola i corpi macellati, fasciati dentro le barelle e cullati dalle note commoventi del violino di Balanescu. Lo si prova sul primo piano della bellissima Alma che, reduce dei pestaggi della caserma, si presenta sdentata, denutrita, umiliata, col culo sporco di merda, ma nonostante tutto truccatissima e stupenda, i capelli che ondeggiano nel vento accompagnati dal suono languido del pianoforte.
Simili inquadrature, oltre a sfiorare il patetismo più aberrante, suscitano a tutti gli effetti “il più profondo disprezzo” di cui parla Rivette.

Il gioco della bottiglia

Sia lode al dubbio!
Vi consiglio, salutate 
serenamente e con rispetto
chi 
come moneta infida pesa la vostra parola!
Vorrei che foste accorti,
che non deste 
con troppa fiducia la vostra parola.

Ho concluso sull’idioletto di Vicari, sul suo stile personale. Resta da valutare il messaggio del film, e ho già rammentato l’indiscussa importanza di una ricostruzione tanto rigorosa dei fatti di Genova. Vorrei perciò spendere le mie parole conclusive per segnalare alcune interpretazioni controverse a cui la pellicola ci invita.
Tutti ricorderanno che la sequenza di apertura registra il volo di una bottiglia che va a frantumarsi su un marciapiede. È la bottiglia lanciata durante un assalto che alcuni ragazzi della Diaz improvvisano contro una jeep della polizia. La bottiglia è la chiave di volta del film: lo apre e lo chiude. Qual è il suo perché?
La bottiglia serve a ricordare allo spettatore come sia stata una bravata (fatale) a innescare gli episodi di violenza del 21 luglio. Ma non si tratta di asserire che tutto è avvenuto per una marachella presa troppo sul serio. Non è l’idea di Vicari, il quale, per non lasciare spazio a derive interpretative, ha inserito nel finale una scena significativa che intendo ricordare.

Etienne (di professione incendiario di cassonetti e intrepido black block) e la sua amica Cecile entrano nella scuola devastata dal blitz e si rendono conto di cos’è accaduto. Mentre la biondissima Cecile, sconvolta, appende il cartello di cui il sottotitolo del film (don’t clean up this blood), Etienne ha un’intuizione sconvolgente e davvero singolare, perché si mette a correre a rotta di collo fuori dalla palestra, oltre il portone e il cancello, fino nella strada. Cecile, che è una ragazza ragionevole, lo insegue per interrogarlo. Lui risponde lapidario: “È noi che cercavano”. Estrae dalla tasca la maschera antigas che gli ha regalato il suo compagno di scorribande e la getta teatralmente a terra, per volgersi e camminare verso un orizzonte luminoso. È redento: ha finalmente compreso che la violenza è sbagliata, perché porta solo alla violenza.

La morale di Diaz è semplice: sui black block grava la responsabilità della repressione e della violenza condotte dalla polizia italiana contro gli ospiti della scuola – repressione che, se da un lato è cieca e ingiustificata, dall’altro ha la sua origine nei cassonetti incendiati, nelle bottiglie lanciate contro le camionette, nel comportamento irresponsabile e sconsiderato dei “ragazzi violenti”.
In Diaz, come in ogni film americano, ci sono i buoni e i cattivi. Alcuni cattivi (i poliziotti) sono certo più cattivi di altri (i black block). Ma la denuncia di Diaz non si estende solo ai primi, e lascia intendere con faciloneria che i ragazzi che hanno incendiato Genova siano la causa prima di quanto accaduto alla Diaz. Certamente vi è una parte di verità – ma la realtà non è così semplice come nei film.
In definitiva, il film di Vicari, più che un film sulla violenza, o un film contro la violenza, o un film con della violenza, va a ragione classificato come un film violento: violento nell’impugnare il bisturi con cui divide il bene dal male, e violento negli espedienti retorici (le carrellate à la Pontecorvo, i ralenti commoventi, le note soffuse della colonna sonora) che impongono un’unica interpretazione, un’unica prospettiva di fruizione per lo spettatore. Diaz, come ogni buon film americano, dipinge tutto o di bianco o di nero. Si tratta di un film pericoloso: per il suo messaggio e per il suo stile, è un arma a doppio taglio, una bomba a orologeria. Bisogna auspicarsi che non faccia scuola, e che questo cinema di denuncia patinato, superficiale e inflessibile non si imponga su un “Altro” cinema, quello che lascia ancora respiro alle domande destinate a rimanere aperte. Perché stordire lo spettatore con sangue, biondine nude e melodie ipnotiche non è fare cinema di denuncia – al massimo, è fare cinema di regime, o cinema hollywoodiano di serie B.

Andrea Bacino

Il movimento NoTav, i teoremi e la politica che crede ancora in Dio

marzo 4, 2012 § 3 commenti

Questo articolo parla di NoTav e di letteratura. Della convinzione che gli “eventi-NoTav” delle ultime settimane si possano comprendere di più attraverso la letteratura. Nulla di più odioso, a prima vista: non ho vissuto i fatti in prima persona, sono in università e ho speso tutta la mattina a scrivere questo articolo. Sulla letteratura. Eppure credo ancora in lei e poiché la mia esperienza di queste settimane è avvenuta solo a distanza, vorrei comunque cercare di dare il mio contributo.

Due fatti: gli arresti emessi dalla Procura di Torino a fine gennaio in seguito agli scontri  di quest’estate; gli sgomberi iniziati in Valle l’ultimo lunedì di febbraio. Mi chiedo: esiste una connessione fra i due eventi? É verosimile che esista: ventisei militanti NoTav (fra cui alcuni leader di una certa rilevanza) vengono arrestati ed esclusi dall’azione politica. Le ordinanze sono scattate tre settimane prima degli sgomberi, tre settimane prima della resistenza e degli scontri di questi giorni. Mentre i blocchi vengono forzati dalla polizia, il movimento conta fra le sue fila ventisei militanti in meno: il disegno è lineare, fin semplice nei suoi tratti.
Perino, uno dei portavoce più influenti del movimento, non componeva ragionamenti molto diversi all’indomani delle ordinanze cautelari: “è una cosa preordinata”, comunicava ai giornali, “un segnale chiarissimo a tutti quelli che stanno cercando di alzare la testa in Italia e che prendono il movimento NoTav come esempio: vogliono dire a camionisti, pescatori, e così via di stare tranquilli altrimenti si finisce tutti in galera. Si vuole criminalizzare il movimento.” Una cosa preordinata, un disegno: qualcuno – lo Stato, i poteri forti – ha causato gli arresti per ottenere un fine determinato: indebolire il movimento. Caselli, allora, è un esecutore del disegno, o teorema giudiziario.
Tutto era stato già scritto – e non lo afferma solo Perino. I giornali autorevoli e le istituzioni hanno proposto un’analisi del passato ritornante: “state attenti”, dicono, “che nel movimento si sta infiltrando l’antagonismo e vi ricordate cosa significa, vi ricordate gli anni Settanta? Il piombo, il piombo!” Il presente si legge come una scrittura del passato, un disegno finalistico dove tutto si tiene. E anche le scritte sui muri di Via Po è come se fossero già scritte: il linguaggio non sembra cambiare di molto dalle parole di un tempo. É allora perfettamente verosimile che lo Stato abbia applicato il suo teorema (il teorema giudiziario) e che lo abbia applicato perché il movimento è ormai pronto ad avviare il suo Settantasette. Tutti scrivono – sui giornali, sui muri – e le loro scritture sono in fondo lineari, credibili. Preordinate, direbbe Perino.
Il teorema – come ogni teoria del complotto – mi ricorda la Provvidenza di Manzoni, il Disegno di Dio. (Ecco la letteratura che avevo annunciato.) Tutto è scritto nelle stelle, tutto segue il suo corso. Tutto è perfettamente verosimile e comprensibile perché è stato già scritto. Il Grande Vecchio si sostituisce a Dio, ma da un punto di vista narrativo le carte in tavola non cambiano di molto: i paradigmi di interpretazione della politica e del giornalismo sono manzoniani e provvidenziali – e c’era da aspettarselo alla luce della cultura letteraria insegnata a scuola e dal nostro intrinseco cattolicesimo.
Ma Manzoni è morto, e dopo lui altri son venuti. La letteratura è cambiata e ha pensato e scritto diversamente: senza Provvidenza e senza fatti preordinati. Propongo di trascinare quest’altra letteratura nel contesto attuale  – i nostri “eventi-NoTav” – con la speranza di dischiudere riflessioni e interpretazioni più convincenti dell’esistente, e più rivoluzionarie.
Dopo Manzoni, i fatti non stanno più insieme e il mondo è un’accozzaglia i cui eventi sono spesso privi di spiegazione. Viene a mancare il grande paradigma che teneva assieme il senso del mondo: Dio – o il complotto. I fatti non si connettono armoniosamente uno all’altro, ma si disperdono, ed è estremamente faticoso recuperare dei fili sottili nel guazzabuglio. La realtà si riduce a una serie di eventi discontinui, una complessità di cause il cui motore è spesso aleatorio.
Ribalto allora quanto affermato finora dai protagonisti di queste settimane. Caselli non ha agito secondo un teorema, come vorrebbe Perino. Il movimento non è una riproposizione degli anni di piombo, come desidererebbero certi giornalisti e tutori dell’ordine. Non esiste una connessione diretta e lineare fra gli arresti di Caselli e la repressione di questi giorni durante gli sgomberi valligiani. Poste queste prime ipotesi sperimentali, si possono tentare le prime congetture, le prime riflessioni.
La Procura di Torino ha ricevuto gli incartamenti dalla polizia e ha lavorato seguendo un normale iter legale, senza infrangere in modo evidente lo stato di diritto democratico. Questa riflessione ne può aprire un’altra: cosa si intende per legalità? Un insieme di scritture determinate da un codice? O un insieme di regole che di volta in volta si incarnano nella contingenza, nei corpi che si muovono e agiscono negli spazi? E, ancora, che rapporto c’è fra la legalità e l’azione politica di movimento? Come si deve porre il movimento nei confronti delle leggi? Credo siano domande molto più interessanti, che non potrebbero essere poste se si definisse l’azione di Caselli uno strumento in mano a uno stato repressivo, quindi intrinsecamente fascista. L’attuale contesto è molto più intricato e solo i Wu Ming possono ancora credere che il mondo si divida linearmente fra buoni e cattivi (loro sì, sono manzoniani, ma forse non lo sanno).
Anche in questo anfratto del pensiero, la letteratura, in quanto scrittura agita, può tornare utile. Non riconoscere le leggi come una scrittura assoluta e preordinata, ma come un complesso di regole da porre sempre in discussione, da modificare e da riscrivere creativamente potrebbe essere una via interessante per un movimento che voglia interrogarsi sul rapporto fra azione politica e diritto. In fondo sono riflessioni non del tutto mie, e traggono spunto da un’altra scrittura originata nell’area del pensiero antagonista – una scrittura molto più interessante delle scritture stantie sui muri di Via Po. (Qui il link).
Questo filo di pensieri nato da Caselli e confluito nel dibattito su violenza, legge e giustizia può essere uno dei tanti percorsi in cui insinuarsi nel momento in cui venga disconnesso il Disegno. Un altro territorio interessante potrebbe essere quello del movimento NoTav stesso: senza il paradigma-anni-Settanta, come si può comprendere quanto sta accadendo in valle? La Stampa e La Repubblica avrebbero i loro problemi di scrittura e di interpretazione.
Vorrei che si torcesse il collo alla retorica e ci si liberasse delle frasi fatte e delle letture preconfezionate (“Manganelli lo aveva detto – lo aveva scritto – che ci sarebbe scappato il morto!”). Vorrei vedere la fine di uno spettacolo in cui a una lettura stupida – Manganelli su tutti – si risponda con altrettante interpretazioni stupide. La fine delle sceneggiature verosimili, che, gira e rigira, finiscono costantemente per avvantaggiare chi esiste già e mai chi non esiste ancora, o chi potrebbe esistere.
I fatti spesso non si legano mai bene assieme e, se qualche volta si incontrano, dietro di loro si nasconde un’infinità di cause complessa e variegata. E poi ci sono i fatti apparentemente insignificanti, inutili e casuali che possono dischiudere deboli connessioni di senso, ma impreviste: la vita di un ragazzo in carcere, i movimenti della polizia fra le due e le tre del pomeriggio, gli sguardi di un valligiano rivolti al suolo e le pause nei monologhi di un anarchico (ma era anarchico?) che catechizza uno sbirro.
Fatterelli assurdi, lo so. Ma è inevitabile che sia così: non posso ora cogliere il pulviscolo di fatterelli da cui avviare altre riflessioni, meno assurde. Io sono qui, in università, leggo le notizie dell’ultim’ora e sullo schermo del computer mi arrivano solo le sceneggiature – e i disegni della Provvidenza.

François Milieu

Il Cibo Crudo – II

febbraio 23, 2012 § 29 commenti

Ultimamente mi capita sempre più spesso di imbattermi nella spinosa questione del vegetarianesimo. La definisco spinosa principalmente perché accogliere o respingere il paradigma è una scelta complessa che coinvolge più livelli: emotivo, morale-etico, scientifico, ambientalista. Il dibattito si articola il più delle volte sulla linea tra scienza e pseudoscienza, tra ragione e emotività; inoltre il problema è tale da richiedere, da parte di chi lo accetta o rifiuta, una scelta e un’assunzione di responsabilità che può implicare un completo cambio del proprio stile di vita.
Proprio quest’ultimo motivo ha due importanti conseguenze. Primo: chi diventa vegetariano deve avere ottimi motivi per farlo, per poter giustificare una così grande scelta, e per avere la forza di fare il salto. Secondo: chi, posto dinanzi al problema, sceglie di non diventarlo, deve avere a sua volta buoni motivi per giustificarsi e non avere problemi con la propria coscienza.
Dettaglio non secondario: in casi come questo, non scegliere equivale a scegliere per il no: non ci sono vie di mezzo, almeno in linea teorica (ma è sempre possibile ad esempio mangiare carne in piccole quantità).
In questo piccolo articolo non intendo scendere nel dettaglio delle argomentazioni delle due posizioni, ma mi limiterò esclusivamente ad esprimere il mio punto di vista sui fondamenti emotivi e razionali dei ragionamenti dei pro-veggie, dunque da un punto di vista assiologico.
A titolo d’esempio scelgo tre fonti principali da cui trarre elementi per il mio esame: ILpianetaVEGetariANO, pagina facebook molto nota nel settore; sceglivegan.org, altro sito di riferimento affine (sebbene vegano e non vegetariano); vegetarianpage, un’altra pagina facebook. Porto come fonti due pagine facebook perché aggregano contenuti vari e non hanno un autore unico, e ritengo possano mostrare adeguatamente il mainstream.Nelle pagine facebook trovo alcuni contenuti che mi spaventano o preoccupano, a seconda dei casi. Faccio solo alcuni esempi. Qualche settimana fa ho trovato dei link alla pagina di una signora che sostiene di essere guarita miracolosamente da un tumore maligno solo grazie alla medicina vegetale e alla sua forza interiore. Mentre scrivo, vengono postati link a siti come godsdirectcontact, con articoli che osannano lo stile di vita vegetariano e il contatto con la natura gattopoli.it, e altri siti animalisti, in cui vengono narrate commoventi storie su cani che salvano uomini, uomini che salvano cani, maiali salvati dal macello e tutti che si amano e si vogliono bene (le pagine facebook di vegetariani sono uno sproloquio di cuoricini e faccine sorridenti), siti del tipo scuoladellasalute, dove chiaramente le vie per la salute sono piuttosto esoteriche e interessano “autoguarigioni” e “channelling”.
I contenuti presentati e il generale stile di pensiero delle persone e dei punti di riferimento-guru del settore hanno una ben chiara impostazione mentale, che mi sento di poter definire spiritualista, o, se vogliamo, trascendentalista, alla Thoreau. Molto spesso mi sono trovato di fronte a un uso molto aggressivo della retorica (non che siano gli unici, ma…), perché i vegetariani e vegani amano la natura, amano gli animali, si amano tra di loro e insomma, amano, mentre chi mangia carne è cattivo, crudele, irrazionale, insensato.
Se vogliamo porci da un punto di vista scientifico, razionale, laico, gli irrazionali sono loro. Ora, mi riferisco solo ad alcuni elementi e ad alcune fonti, ma ad ogni modo ritengo formino buona parte dell’orientamento psicologico dei settori di cui sto parlando. Le mie sono sensazioni, opinioni, ma le offro con la speranza che siano ascoltate come motivate.
A mio modesto parere la matrice filosofica del vegetarianesimo va ricercata nelle correnti ilozoiste, quelle che considerano la terra, l’universo e tutto il resto come degli insiemi unitari e fortemente interconnessi, spiritualizzati, con una divinità immanente anche se non sempre dichiarata che conferisce unità e, a tutto, anima. Da questo modo di vedere, piuttosto buddhista, deriva il suddetto amore per tutto e tutti, animali inclusi.

Questa matrice irrazionalista e spiritualista può, a mio parere, avere dei risvolti pericolosi: in primis, è terreno fertile per truffatori e ciarlatani che vivono vendendo erbe magiche, pozioni, guarigioni alternative, false promesse e false illusioni; in secundis, assiologicamente, è una posizione a mio parere sbagliata, in quanto irrazionale, pseudoscientifica, falsa (anche se probabilmente, spesso, in buona fede); per finire, può essere pericolosa per chi ci casca, in quanto le persone che credono in tali faccende (e che così facendo si abituano a modelli mentali irrazionalisti e pseudoscientifici) possono essere indotte a scegliere rimedi inefficaci alle malattie – rischiando di curare un tumore con l’acqua santa e l’alzheimer con un pellegrinaggio.Il vero problema è che c’è chi ci crede.

Mi si potrebbe far notare: beh, e cosa c’è allora di diverso da una qualunque religione? Non potrei che rispondere: in effetti, credo proprio che si tratti di una specie di religione, però laica. Ho visto pagine su pagine di persone che dedicano la propria vita a queste idee, scambiandosi dolci, foto di maialini e gattini con occhi enormi, coperte di scritte e photoshoppate peggio delle foto profilo dei truzzi. Secondo me, ammesso che sia sbagliato trattare ugualmente i diversi, allora tanto umanizzare i disumani quanto tacciare di disumanità quelli che trattano in modo disumano i disumani sono atteggiamenti profondamente sbagliati.

Conclusione. Sia ben chiaro che io qui sto criticando un solo lato del vegetarianesimo, veganesimo e affini: la spiritualità e l’accento (retorico o reale) sull’amore e sul rispetto verso l’universo e gli animali. Non è questo il luogo per esporre la mia opinione, ma al fine di permettere al lettore di contestualizzare le mie opinioni mi sembra giusto farvi un accenno: credo che il consumo di carne vada ridimensionato, come più in generale il consumo eccessivo di qualunque cosa in ogni aspetto della nostra vita, per ragioni etiche e ambientaliste; inoltre credo che gli animali siano delle gran belle cose, ma che si tratti di un errore di antropomorfizzazione parlare di sensibilità, paura, gioia, emozioni, stress, rabbia o dolore (in quanto semplici reazioni meccaniche da noi interpretate e tradotte in emozioni umane); credo che usare inutile violenza o crudeltà sia un comportamento privo di senso, anche se non sempre moralmente sbagliato in senso stretto, e che quindi vadano evitate inutili atrocità, dove possibile.

Pietro Pasolis

Il Cibo Crudo

febbraio 18, 2012 § 13 commenti

Ultimamente mi capita sempre più spesso di imbattermi nella spinosa questione del vegetarianesimo.
Del perché qualcuno si rifiuti di mangiare carne.
La prima cosa che associo alla carne è la bontà, il vivido orgasmo gastrico che mi procura ad ogni boccone.
La carne è buona, non ci sono cazzi. Ma questo si sa da almeno 10.000 anni, quindi i vegetariani non mangiano carne per altri motivi.
I motivi sono molteplici, e potreste sentirne almeno tre diversi da tre vegetariani differenti; ma hanno tutti come radice comune il problema dell’allevamento intensivo.
L’allevamento intensivo è senza mezzi termini e senza esagerazioni il l’applicazione del nazismo al settore alimentare.
Gli allevamenti intensivi, i mattatoi, i trasporti e tutta la filiera della carne ricorda in maniera impressionante la sistematica nazista.
Gli animali, dalla nascita al macello, vengono rinchiusi, mutilati, percossi, e sono soggetti a somministrazione di antibiotici e ormoni vari.
Per ogni animale c’è una filiera diversa, che però ha alla base la totale privazione di dignità degli animali; avviene attraverso brutalizzazione, assenza di igiene, assenza dei cicli naturali di vita degli animali.
Intendiamoci, nella morte non c’è dignità. Ma la filiera della carne è brutale dalla nascita alla morte dell’animale.
Io non voglio convincere nessuno a diventare vegetariano, io vorrei solo portare qualcuno di voi a pensare per un secondo a cosa mangia.
Perché non è un problema solo degli animali che vengono allevati e macellati in questa maniera, ma è un problema etico, ambientale e di coscienza.
Non possiamo fare finta che la carne piova dal cielo per cadere nel nostro piatto già bella pronta, senza sapere o far finta di sapere cosa sta dietro a questo sistema.
Diventare vegetariani inoltre non cambia nulla, perché il problema non si limita alla “fabbricazione” di carne, ma si estende all’agricoltura e alla pesca.
La pesca si divide in due rami: l’allevamento e la pesca d’altura.
L’allevamento grosso modo è come il settore della carne: sovraffollamento degli animali, somministrazione di antibiotici e ormoni, scarso igiene e grande impatto ambientale.
La pesca d’altura è invece paragonabile ad una guerra vera e propria.
Navi gigantesche solcano i mari attrezzati di sofisticate apparecchiature per individuare i banchi di pesce, reti che possono arrivare anche a 120 Km di lunghezza che setacciano tutta la colonna d’acqua dal fondale fino al pelo dell’oceano, cavi con milioni di ami che uccidono ogni cosa.
Le reti a strascico devastano i fondali distruggendo le foreste di alghe e tutti gli habitat marini legati alle specie sessili. Le reti inoltre non sono selettive ma pescano tutto ciò che incontrano: pesci vari, squali, delfini, tartarughe e anche i tanto amati cavallucci marini.
Lo spreco che sta dietro alla pesca è enorme, e non ve lo starò a raccontare qui, se la cosa vi tocca informatevi altrove.
Vi accennerò invece alcuni problemi legati all’agricoltura.
L’agricoltura, come l’allevamento e la pesca, non è quello che ci immaginiamo.
Non ci sono più i contadini vecchi e sdentati che con la zappa in mano coltivano gli orti e badano ai campi. Sto’cazzo.
Adesso l’agricoltura consiste nel coltivare mais e soia. Distese immense di centinaia di ettari coltivate a mais e soia. Il perché è molto semplice: il mais e la soia sono piante davvero versatili, e possono essere scomposte e ricomposte come si vuole, ci si può fare tutto.
Quindi non stupitevi se il 90% dei prodotti presenti nei supermercati derivano da o contengono soia e/o mais.
Inoltre, entrambe le piante sono state abbondantemente modificate da multinazionali (coma la vecchia Monsanto, già artefice del DDT e dell’Orange Agent, usato in Vietnam) che ne detengono proprietà e diritti.
Tutti gli altri ortaggi sono coltivati in serre in Europa e da lavoratori/schiavi in Sud America.
Quindi un avviso a tutti i vegetariani e vegani dei miei coglioni che a cuor leggero e con la coscienza a posto schifano la carne, per poi abboffarsi di insalata lavata nei pesticidi chimici: usa il tuo fottuto cervello per capire da dove arriva e cosa ha passato il tuo pranzo.

Shimshon il filisteo
foto: Federica Peyronel (flickr)

ACAB (2011) – Sinossi del film

febbraio 1, 2012 § 1 Commento

Acab è un piccolo capolavoro del cinema italiano. Torinese, autoprodotto, fresco fresco di uscita. Si tratta di una favola metropolitana che immortala il percorso di formazione di Pino, giovane valsusino, ricostruendo gli ultimi atti di antagonismo che hanno scombussolato la nostra cara urbe. Riportiamo qui la recensione pubblicata sul “Venerdì di Repubblica” (30/1/12), che apprezziamo per la sua neutralità. Per esigenze di stringatezza l’abbiamo ridotta, attinendoci al modello di sinossi wikipediano.

Pino, studente sbarbatello, si dirige a scuola con un amico, quando i due vengono fermati da un poliziotto rasato con un Uzi che chiede loro i documenti. Pino mostra la sua carta mentre l’altro, non trovando la propria, tenta di scappare. Il poliziotto s’incazza e lo pesta, ma non riesce ad immobilizzarlo del tutto, finendo per lasciarselo scappare. Dopo un breve ma inutile inseguimento, lo sbirro acchiappa un gatto di passaggio: lo apre in due per berne il sangue e si tinge di rosso una svastica sulla testa. Booom! Titolo di apertura: “ACAB”. Sullo sfondo una serie di scene di pestaggi ad opera della polizia sui manifestanti locali. Nel mezzo anche alcune scene tratte dal film 1984 basato sul famoso libro di Orwell.

Dissolvenza. Scena a luci basse ambientata nelle sedi della polizia.

Siedono a un tavolo, rispettivamente, un inquietante generale con un bottone al posto di un occhio dall’accento fortemente tedesco, il maiale Napoleone, Rasputin, Jafar ed il Commisario Basettoni. I cinque cattivoni cantano vecchie e gloriose canzoni fasciste, mentre giocano a freccette con una foto di Mahatma Ghandi. Entra un marine, trascinando un bambino addormentato, completamente nudo. Jafar lo scuoia vivo invocando la potenza del Sistema. Un lampo di luce ed il bambino scompare. Nel frattempo Pino, all’esterno dell’edificio in una manifestazione NOTAV, sviene. In un mondo indistinto, fatto di corpi senza volti, gli appare l’immagine di Carlo Giuliani, vestito di bianco e con un bellissimo paio di ali. Carlo gli intima di seguire l’uovo bianco. Pino si alza e prende un uovo dalla cesta delle uove lanciabili e la lancia verso la finestra. L’uovo finisce in mezzo alla sede della polizia ed esplode, distruggendo tutto l’edificio. La profezia è avverata. I NOTAV hanno vinto. L’ASKA ha vinto. I SI all’esterno si piangono addosso per l’abuso di violenza. Tra la folla, il direttore dell’Ode esamina il tutto affascinato sotto effetto di DMT.

Si scopre così che Pino è l’Eletto, e viene ribattezzato Jaco-pino. La gente ricomincia a credere nella lotta al Sistema, e tutti confidano nelle potenzialità di Jac. Il giorno dopo, mentre Pino è all’università per seguire un corso, un poliziotto gli spara nei bagni e lo rapisce.
Il film si chiude con l’immagine di Jacopino col pugno alzato. Acab II: Reloaded saprà raccontarci il resto.

Acab (2011) – Scheda Tecnica

REGIA: Antonio Negri & Michael Hardt
SCENEGGIATURA: Lorenzo Cesarano, Barbara Petronio, Leonardo Marsili
ATTORI: Pierfrancesco Favino, Marco Giallini, Antonio Negri, Domenico Diele, Andrea Sartoretti, Roberta Spagnuolo, Eugenio Mastrandrea, Eradis Josende Oberto
Ruoli ed Interpreti

FOTOGRAFIA: Paolo Carnera
MONTAGGIO: Patrizio Marone
PRODUZIONE: Mamma e Papà
PAESE: Italia 2012
GENERE: Drammatico
DURATA: 112 Min
FORMATO: Colore

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