I beni comuni fra Napoli e Roma, seconda parte. Le fratture spaziali nella società dello spettacolo.

luglio 7, 2012 § 1 Commento

Piazza dei Sanniti, Roma, di fronte al Nuovo Cinema Palazzo; un sabato di fine giugno.

Nel cuore di San Lorenzo sta per calare il sole mentre sono seduto sull’asfalto di Piazza dei Sanniti. Di fronte a me, su un palco montato lungo un tratto della piazza, suonano alcuni musicisti del quartiere. Sorseggio la mia birra e muovo lo sguardo dalle loro mani e alle loro labbra, vedo i tecnici del suono alla mia destra e un viavai di persone sotto il palco. Percepisco la presenza di studenti universitari, bambini del quartiere, qualche anziano, una madre con il passeggino. Per un attimo vedo una donna su un balcone: ha un vestito estivo, i gomiti appoggiati sulla balaustra, il piede destro – fuori dalla ciabatta – tiene il tempo contro la caviglia sinistra. Sono seduto in mezzo alla piazza, appoggio i piedi sull’asfalto e dietro al palco montato in poche ore si staglia un edificio, alto, dai colori caldi – domina tutta la piazza. Sulla facciata una scritta a caratteri neri, sbilenca: ExCinema Palazzo.

San Lorenzo: quartiere popolare di Roma, una cultura antifascista affonda le radici nelle strade strette, il quartiere dilaniato dai bombardamenti alleati del 1943 – era estate anche allora. In poche centinaia di metri, lungo Via dei Volsci, ho visto una palestra popolare, uno spazio occupato dal collettivo di genere del quartiere, un piccolo antro gestito dai redskin: bandiera italiana e falce e martello. Dietro alcuni caseggiati c’è Esc: lo spazio occupato in tumulto, il punto di San Precario.

Ma di fronte a me, nello spegnersi di un pomeriggio inondato dalla musica, ho l’Ex-Cinema Palazzo. L’Ex-Cinema Palazzo avrebbe dovuto diventare un casinò. La società deputata alla conversione dell’edificio apparteneva al giro della cricca, dei palazzinari: Anemone, Balducci e compagni. Per fermare l’ennesima speculazione edilizia gli abitanti del quartiere e alcuni lavoratori dello spettacolo si sono organizzati e nella primavera del 2011 hanno occupato lo stabile. Con un’azione di forza gli occupanti hanno sottratto la struttura agi affaristi romani e hanno evitato che le sere di San Lorenzo fossero invase dalle luci dello spettacolo e dai capitali del gioco d’azzardo. Il Cinema è uno spazio riconquistato, una secessione spaziale, una frattura entro i luoghi dominati dall’industria del gioco e dal capitalismo più sregolato.

Le porte del Cinema Palazzo sono sempre spalancate, il luogo è accogliente. Franco è un occupante della prima ora. Ha i capelli grigi, il volto scavato, e da una vita ormai vive a San Lorenzo. Accanto alla spillatrice mi ha raccontato la storia del quartiere e ha ricordato la genesi dell’occupazione: «la prima in Italia. Noi abbiamo aiutato il Valle e, le altre realtà cittadine [Napoli, Catania, Palermo] hanno continuato la nostra strada.» Franco lavora fuori, in città, e ogni giorno attraversa la soglia del Cinema Palazzo e contribuisce alla sua esistenza. Parlo con lui e in piazza un gruppo blues scandisce il lento tempo della sera di San Lorenzo. Franco ha appena dato la vernice al pavimento oltre il quale si apre la sala del palco, dedicata a Vittorio Arrigoni – mentre spilla le birre fa attenzione che nessuno calpesti il colore fresco, nero come il catrame.

Incontro Marco all’ingresso: ha poco più di vent’anni e studia scienze politiche. Insieme a Sabatino a costruito un’aula studio, al primo piano. «A Roma sono poche le aule aperte alla sera. Non ci sono spazi per gli studenti. Così abbiamo adibito un’ala del palazzo ad aula studio – resta aperta fino alle due e mezza di notte.» I suoi occhi sono sempre spalancati. Gli consiglio di godersi l’esperienza che sta vivendo, di trattenerne i ricordi. «Me lo dicono tutti», mi risponde.

Anche il Valle avrebbe dovuto essere privatizzato quando a giugno (subito dopo il referendum su acqua e nucleare) alcuni attori di teatro e lavoratori dello spettacolo hanno deciso di gestirlo e di permetterne l’ingresso alle compagnie teatrali e ai cittadini. Le occupazioni stanno segnando un confine nello spazio sociale, producono singole secessioni nella geografia del capitale e sperimentano forme alternative di gestione economica della cultura nel cuore delle metropoli italiane. I soggetti attivi dell’occupazione – come scritto nella prima parte – spesso lavorano fuori dal luogo conquistato, ma vi entrano ogni giorno per impegnarvi il tempo libero sottratto al lavoro precario. Entrano ed escono, superano più volte la membrana fra il mondo normale e quello sperimentale.

Il movimento fisico sulla soglia (al di qua, al di là) è utile anche per leggere gli altri soggetti protagonisti: non gli occupanti, ma i cittadini che fruiscono degli spettacoli e delle proposte culturali. Le fasce più eterogenee della cittadinanza – questa forse è la differenza più evidente dai centri sociali tradizionali – entrano ed escono dai luoghi occupati, fruiscono gli spettacoli, appartengono per brevi lassi di tempo alla secessione.

Durante una riunione all’Asilo della Conoscenza di Napoli ricordo che uno degli occupanti ha iniziato a battere i piedi per terra. «Noi questo posto lo dobbiamo vivere, lo dobbiamo attraversare», e batteva le suole contro il pavimento. «Questo posto è reale, fisico, ma esiste davvero quando ognuno di noi vi entra e contribuisce alla sua gestione, alla creazione di cultura, all’invenzione di nuove pratiche artistiche e politiche.» Mi è rimasto impresso questo gesto dei piedi, il battito ritmico sul pavimento. Credo che ognuno dei luoghi occupati che ho visitato esista nella sua particolarità spaziotemporale: ogni luogo è una singolarità, un perimetro delimitato da fratture nel tessuto urbano ed economico. Quando si producono riflessioni di ampio raggio su quanto sta avvenendo in Italia e quando si citano, fra una virgola e l’altra, i diversi spazi occupati, non si deve dimenticare che ogni luogo ha una sua esistenza particolare, uno specifico insieme di regole, pratiche e strategie. Ogni spaziotempo – proprio in quanto singolarità – è irriducibile agli altri.

I luoghi occupati, quindi, vanno intesi come differenze spaziotemporali, scarti, isole alternative e porose. Se è vero che il capitalismo contemporaneo si riproduce in una società dello spettacolo pervasiva e alienante, il sistema sembra sempre meno integro e totale. Forse è proprio l’arte (e il teatro prima di tutto) a tentare una nuova forma di resistenza allo spettacolo del capitalismo: a una secessione nello spazio urbano corrispondono nuove forme di autonomia della creatività e della performance. L’arte è la prima sfera a tentare di sottrarsi al dominio integrato delle merci e dell’industria culturale: lo spettacolo teatrale si produce come alternativa allo spettacolo integrato del capitalismo; i palchi accolgono e sperimentano le scosse politiche che latitano in altri spazi sociali.

Francesco Migliaccio

(qui il link alla prima parte)

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